Ciao, mitico “Goreno”!

Quanta panchina mi ha fatto fare, il mister “Goreno”! Ma si vede che me la meritavo…
Però allora ci rimanevo male: e una volta, quando mi disse “Scaldati!” ad un minuto dalla fine, ritenni giusto rifiutare, per somma dignità. Una volta, viceversa, che ero stranamente titolare con la maglia numero 7, nonostante una buona partita, mi tolse dal campo nel secondo tempo, sostituendomi…e io gettai la maglia dalla rabbia…un po’ come le vere star viziate del pallone! Poi ci fu un anno in cui giocavo spesso titolare, ma anche lì – puntualmente – mi toglieva a tutte le partite dopo dieci-quindici minuti dall’inizio del secondo tempo…e mi giravano le scatole!
In realtà, a discolpa del leggendario mister Renato Caselli, va il fatto che io fossi un’ala destra sì veloce e generosa, ma senza alcuna confidenza con il gol, senza un gran talento e senza nemmeno una grande…visione di gioco (a causa delle mia apocalittica miopia!).

Ecco perchè “Goreno” (non ho mai saputo il perchè di questo soprannome!) aveva sempre ragione: ma lo riconosco ora, 30 anni dopo la fine di una disonorevole carriera, molti chili e molti capelli dopo. E adesso che ci ha lasciati – in attesa che, giustamente, gli intitolino il campo sportivo di Sant’Agostino (Ferrara) – mi tornano in mente tanti aneddoti, legata alla maglia verdi dei “Ramarri” (il nomignolo del C.S., Circolo Sportivo, proprio per via del colore verde), ma anche a trasferte improbabili, su una Renault 4 o un Fiorino stracolmi di giocatori, a gelati e pizze pagate a tutta la squadra dopo una vittoria, a tanti momenti di allegria e spensieratezza, per noi che giocavano nel vivaio del C.S. e che al pallone dovevamo, ovviamente, abbinare lo studio, rubando due ore di qua e due di là, per gli allenamenti. E poi, le partite del sabato o della domenica mattina…
E questi ricordi, e pure qualche foto un po’ sfumata dal tempo, ci rimangono dentro e ci rimarranno per sempre. A tutti i giocatori che “Goreno” ha visto passare sotto le sue “grinfie” in 50 anni (mi sa di più!): qualcuno poteva diventare un campione e non ce l’ha fatta, qualcuno si è divertito a giocare una vita tra i dilettanti, altri – come me – erano proprio dei brocchi. Non siamo diventati campioni, ma uomini sì, anche grazie agli insegnamenti del mister. E pure grazie alle mille panchine che ho fatto. Ma quante ne ho fatte!
Ciao, mitico “Goreno”.

i 40 anni “sempreverdi” di Valentino Rossi

Sembra impossibile che Valentino Rossi, con quella sua aria sbarazzina da eterno Peter Pan, compia oggi 40 anni.
Però la carta d’identità parla chiaro: 16 febbraio 1979.

Auguri, ragazzo di Tavullia!

40 anni, 40 candeline. Ma per noi rimane sempre il ragazzo di Tavullia, che cominciò a vincere appena sbarcato nel Motomondiale, già dalla classe 125, poi – titolo dopo titolo – nella 250, nella 500 e, infine, nella MotoGp

Un palmares da “marziano”

Anche il suo curriculum straordinario parla chiaro: 9 titoli di campione del mondo (6 nella MotoGp e uno ciascuno in 500, 250, 125) e 115 vittorie, secondo solo all’altro fenomeno del motociclismo italiano e mondiale, Giacomo Agostini.

Ma i numeri, da solo, non bastano a spiegare il Fenomeno “Dottore”.

Tomba, Valentino, Pantani: che trio da leggenda

Un personaggio spontaneo, spesso bonariamente sopra le righe, un “Valentino nazionale” patrimonio di tutti gli italiani, senza nemmeno bisogno di usare un cognome cos“`i normale per un campione assolutamente fuori dal comune.

Negli ultimi 30 anni, in Italia, solo Alberto Tomba e Marco Pantani hanno raggiunto una popolarità e un tifo “da leggenda” come Valentino Rossi.

Italiano in tutto e per tutto

Italiano in tutto e per tutto, in qualche piccola caduta di stile (ricordate il caso dell’evasione fiscale e del “patteggiamento” con il fisco? Oppure, sportivamente parlando, le stagioni deludenti alla Ducati?), ma a cui gli italiani – e non solo gli appassionati di motori – hanno sempre perdonato, continuando a tifare per lui, ogni domenica, su ogni circuito, con l’apoteosi del tifo “nazional-popolare” in quel novembre del 2015, a Valencia, quando il sogno del decimo titolo mondiale di Valentino fu spezzato dal diabolico duo spagnolo Lorenzo-Marquez.

Ma il sogno del numero 46 di conquistare il titolo numero 10 continua: ci riproverà anche quest’anno, Valentino, in sella alla sua Yamaha, che nel 2019 gli piace ancor di pi`ù perchè è color nero e azzurro, proprio come la sua amata Inter.

Perchè il 46?

Fin dagli esordi, Valentino ha sempre usato il numero 46, anche nelle annate in cui ha avuto la possibilità di sfoggiare il numero 1 di campione in carica: il 46 era il numero utilizzato nel Motomondiale sia dal padre,Graziano Rossi, sia da un pilota giapponese di cui era molto appassionato, Norifumi Abe. Da quest’ultimo Rossi prese spunto per il suo primo soprannome, “Rossifumi”.

A caccia del titolo numero 10

Ci proverà ancora, Valentino, a vincere il decimo titolo mondiale.
Prima magari di pensare al futuro, forse come manager di una sua scuderia (ha già una avviatissima Accademia) o magari di un team di rally, un’altra sua grande passione.

Ci proverà ancora. Sempre con il suo sorriso da quarantenne stampato sul viso giovanile e quel suo accento più romagnolo che marchigiano, a dispetto della sua residenza tavulliese.

E, tra i tanti tweet che ha ricevuto in questo suo giorno speciale, Valentino Rossi apprezzerà quello ricevuto dall’Inter, che lo raffigura, forse poco meno di vent’anni fa, in compagnia del suo idolo Ronaldo.

Lui che è diventato l’idolo di milioni di giovani e meno giovani.
Quelli che avrebbero voluto essere semplicemente come lui.
Come Valentino.

 

Giornalista, il mestiere più pericoloso (in certe parti del mondo)

La giornalista bulgara Viktoria Marinova è la settima giornalista uccisa in Europa dall’inizio del 2017 (a cui andrebbe aggiunto il giornalista saudita Khashoggi, di cui non si hanno più tracce da quando è entrato nel consolato del suo paese in Turchia).
Viktoria Marinova stava lavorando ad un’inchiesta su corruzione e abusi legati ai fondi dell’Unione europea. L’assassino, che ha confessato, è però un giovane bulgaro di 21 anni, di etnia rom, che l’avrebbe violentata al parco di Ruse, soffocata e uccisa, prima di fuggire in Germania, dove vive da anni la madre. La Bulgaria è rimasta sconvolta dalla morte di Viktoria Marinova.

questo link è possibile trovare la lista dei professionisti della notizia uccisi nel 2017: spiccano i 12 morti in Messico, 11 in Afghanistan, 10 in Siria e 6 in India.

Slovacchia: Ján Kuciak

Ján Kuciak, 27 anni, stava indagando su presunte frodi fiscali che coinvolgevano uomini d’affari legati al partito al governo della Slovacchia. Come segnala Valigia Blu, il giornalista si era anche occupato di persone vicine alla ‘Ndrangheta in Slovacchia e delle loro passate relazioni con il principale consigliere statale del primo ministro Robert Fico, Mária Trošková. Su quest’ultimo tema, Tom Nicholson, che lavorò anche con Kuciak, scrive su POLITICO che il giovane giornalista slovacco “fece progressi importanti (…). Ján aveva stretto un’alleanza con giornalisti investigativi italiani in grado di confermare le identità e le associazioni criminali degli italiani che erano attivi in ​​Slovacchia”.

Transparency sottolinea come esista una relazione tra libertà di stampa, corruzione percepita e violenza contro i professionisti dell’informazione. Dal 2012 a fine 2017, 368 giornalisti sono stati uccisi mentre svolgevano il proprio lavoro: il 96% di questi omicidi è avvenuto in Paesi dalla corruzione elevata nel settore pubblico, ovvero con punteggio CPI (Corruption Perception Index) inferiore a 45. L’Italia ha 50.

Inoltre, un giornalista su cinque tra quelli uccisi nel mondo stava indagando su casi di corruzione. Il Messico dal 2014 è sceso di sei punti nell’indice, passando da un punteggio di 35 a 29.

Malta: Daphne Caruana Galizia

Il 16 ottobre è stata ammazzata Daphne Caruana Galizia, collega maltese fatta saltare in aria con una autobomba piazzata nella macchina presa a noleggio. A dicembre tre persone sono state formalmente accusate di omicidio ma la Federazione Europea dei Giornalisti ha lanciato un appello alle autorità maltesiper approfondire le indagini sui mandati reali dell’omicidio.

Danimarca: Kim Wall

La giornalista freelance svedese è stata uccisa e fatta a pezzi in Danimarca ad agosto dopo essere salita a bordo del sottomarino civile di Peter Madsen. Stava scrivendo un articolo su di lui e sul crowdfunding che ha permesso la realizzazione del mezzo. Madsen, che inizialmente aveva negato ogni coinvoglimento e aveva parlato di un incidente, è stato condannato all’ergastolo.

Russia: Nikolai Adrushchenko

Adrushchenko, 73 anni, è morto ad aprile in un ospedale di San Pietroburgo dopo essere stato picchiato selvaggiamente da degli assalitori sconosciuti sei settimane prima. Si occupava di crimine e violazioni dei diritti umani e aveva co-fondato il Novy Petersburg nel 1990. Nel 2007 era stato messo in carcere per diffamazione e ostruzione alla giustizia.

Russia: Dmitry Popkov

Co-fondatore e caporedattore del quotidiano locale russo Ton-M, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco nella città di Minusinsk il 24 maggio 2017. Il suo corpo è stato trovato nel suo cortile. C’è un’indagine in corso che punta a diverse piste, inclusa “l’attività professionale” della vittima”. Popkov era stato eletto nel parlamento regionale per il Partito Comunista e, durante la sua carriera, ha scritto di corruzione tra le forze dell’ordine.

Turchia: Saaed Karimian

Nell’aprile di quest’anno, il dirigente televisivo iraniano Saaed Karimian è stato ucciso a Istanbul, in Turchia. Degli uomini armati hanno fatto fuoco sul suo veicolo uccidendo anche il suo partner, originario del Kuwait. La macchina usata per l’esecuzione è stata poi trovata carbonizzata. La polizia turca sta ancora indagando sul caso.

Karimian, 45 anni, è stato fondatore e presidente della tv in lingua persiana GEM che doppia i programmi stranieri e occidentali nella lingua parlata in Iran. Per questo motivo, è stata criticata in passato dalle autorità iraniane con l’accusa di aver diffuso la cultura occidentale e mostrato programmi contrari ai valori islamici. Processato in contumacia da un tribunale di Teheran nel 2016, era stato condannato a sei anni di carcere per aver veicolato propaganda contro lo stato.

Arabia Saudita e Turchia: Jamal Khashoggi

C’era anche un esperto di autopsie nel team di agenti sauditi che avrebbe fatto sparire Jamal Khashoggi. Lo scrive il New York Times citando gli investigatori turchi. Un commando di 15 persone, secondo le ultime ricostruzioni, lo avrebbe fatto a pezzi con una segaossa all’interno del consolato saudita a Istanbul. Altre fonti da Ankara sostengono che il corpo del giornalista saudita sarebbe stato caricato su un van nero.

“Questa è un’area piena di telecamere, è un consolato, basta andare laggiù per vedere che ci sono telecamere in cima all’edificio e lungo le strade. Sappiamo che i turchi stanno cercando di avere accesso ai filmati – spiega la giornalista della Reuters, Emily Wither – Gli inquirenti non forniscono troppe informazioni, quindi può darsi che siano più avanti nelle indagini rispetto a quanto riferito pubblicamente, ma al momento dicono solo che vogliono perlustrare il consolato”.

Il giorno della scomparsa del giornalista, due aerei privati sono arrivati dall’Arabia Saudita. Per le persone a bordo sarebbero state prenotate camere in un hotel vicino al consolato, ma nessuno ha trascorso la notte in albergo.

“Fonti industriali ci hanno detto che questi aerei sono di proprietà del governo saudita e sappiamo che questi 15 persone sono entrate nel consolato nello stesso momento in cui Jamal arrivava a ritirare i suoi documenti – conclude Emily Wither – sono partite dopo un paio d’ore e sono andate direttamente all’aeroporto. I funzionari turchi stanno ora cercando di scoprire da chi fosse composto esattamente questo gruppo e se ha qualche coinvolgimento nella scomparsa di Jamal”.

Sono almeno sette i sospettati dalle autorità di Ankara e ora si viene a sapere che, il 2 ottobre, il personale turco del consolato era stato invitato a non presentarsi in ufficio, perchè ci sarebbe stato “un incontro diplomatico”.

Camera e Senato, ok. Ma noi, intanto, aspettiamo un governo.

Sono passate ormai tre settimane dalle elezioni italiane del 4 marzo. Finite cosi, giusto per ricordarlo: vittoria del Movimento Cinque Stelle, il centro-destra è la coalizione più votata, la Lega meglio di Forza Italia, crollo del Partito Democratico. Tutto abbastanza prevedibile. E allora, se questo risultato era pure piuttosto prevedibile, perchè nessuna delle forze in campo ha pensato di provare ad accordarsi prima?
Un primo significativo accordo è arrivato con l’elezione dei Presidenti: alla Camera, il grillino Roberto Fico. Al Senato, la forzista Maria Elisabetta Alberti Casellati.
Un primo accordo tra Cinque Stelle e centro-destra. Entrambi gli schieramenti, però, ci tengono a chiarire: è un accordo solo per le camere, nessun accordo ancora in vista per governo e premier.
Forse è solo una questione di tempo.
Ma noi, intanto, aspettiamo un governo.
Forse, a voler essere sinceri e scrupolosi, l’unica variabile del risultato, quella che era meno prevedibile alla vigilia, è stato il sorpasso di Salvini a Berlusconi. Per cui, forse lo stesso Di Maio non aveva messo in conto la possibilità di sedersi attorno ad un tavolo e discutere di un possibile governo insieme a Salvini. Anche perchè, lo sapete benissimo, i Cinque Stelle hanno sempre detto: “Nessun accordo”. Però, per fare il governo, l’accordo – numericamente – serve. E lo stesso Salvini, pur sbandierandolo a destra e pure a sinistra, non era sicurissimo di mettere davvero la freccia a Berlusconi. E cosi, nessun accordo – nè sotto, nè sopra il banco – è stato siglato in via preventiva. Ecco perchè, ora, si perde tempo in incontri, summit, riunioni e caffè diplomatici che non sembrano nemmeno tanto vicini a sfociare in un “tentativo esplorativo” assegnato dal Presidente Mattarella. Ma, prima o poi, dovrà pur accadere.
Ma noi, intanto, aspettiamo un governo.
Tutt’altro che sicuri di un’alleanza Cinque Stelle-Lega e tutt’altro certi che, se anche dovesse concretizzarsi, possa realmente funzionare (vediamo se funzionerà almeno per le camere), per la formazione di un governo ci sarebbe una seconda alternativa, anche se piuttosto spinosa e tortuosa da percorrere: l’entrata del PD in una coalizione di governo. Certo, dopo le dimissioni (vere o presunte?) di Renzi, il Partito Democratico appare allo sbando, senza una guida capace di calmare le ventosissime correnti interne e non pare proprio essere in grado di sorreggere un esecutivo in maniera concreta. Poi, dopo averli tanto denigrati in campagna elettorale, come farebbero i grillini a mettersi con i piddini? E poi, diciamo che promuovere al governo la forza politica più strabattuta di queste elezioni, sarebbe politicamente, sportivamente e pure democraticamente inspiegabile. E ancor più altamente improbabile dopo le elezioni di Fico e Casellati.
Ma noi, intanto, aspettiamo un governo.
Certo che in Germania, per fare un governo, hanno dovuto attendere cinque mesi dalle elezioni del 24 settembre, vinte (ma non stravinte) per la quarta volta di fila da Angela Merkel: che, tuttavia, ha dovuto attendere il siluramento di Martin Schulz per fare una nuova Grosse Koalition con l’SPD. Cinque mesi di attesa: un’eternità anche per noi italiani, figuriamoci per i tedeschi, che da questa vicenda ne escono decisamente  con un brutta figura.
Ma noi, intanto, aspettiamo un governo. Ci sono tante cose da “aggiustare”, in Italia.
E non abbiamo la pazienza dei crucchi.
Forse fanno prima in Russia: elezioni fatte. lo Zar Putin stravince (anche lui per la quarta volta!), resta al Cremlino e il governo è già bello che fatto.
Poi, in effetti, probabilmente la Russia non è l’esempio migliore da prendere come modello. Però lo scrivo e lo dico sottovoce, per evitare di essere avvelenato. Succede, di questi tempi…
Qui da noi, in Italia, almeno lo possiamo dire, senza rischiare troppo.
Lo dico? Lo dico.
Dai, datevi una mossa. Aspettiamo un governo.
Ma che sia buono.

 

Doping, i casi più celebri. Aspettando le Olimpiadi…

Uno dei primi casi di doping è stato quello del ciclista inglese Tom Simpson: mori’ a 30 anni, sul Mont Ventoux, durante una tappa del Tour de France, a causa del caldo e delle anfetamine prese, che non gli fecero sentire la fatica dello sforzo.

Al Giro d’Italia 1969, quando era in maglia rosa, il Cannibale Eddy Merckx fu trovato positivo alla fencamfamina, uno stimolante: squalificato. Celebre l’intervista di Sergio Zavoli nell’albergo di Albisola dove si trovava il ciclista belga, in lacrime.

Alle Olimpiadi di Seul del 1988, scoppia il caso-Ben Johnson: oro e record del mondo (9”79) nei 100 metri, il giamaicano naturalizzato canadese viene trovato positivo alla stanozolo, un anabolizzante. Confesserà di essersi dopato anche l’anno prima, ai Mondiali del 1987, quando impressiono’ il mondo battendo Carl Lewis, il “Figlio del Vento”.

Ai Mondiali di calcio 1994, negli Stati Uniti, Diego Armando Maradona viene squalificato dopo un controllo antidoping positivo all’efedrina, uno stimolante. Il Pibe de Oro ha sempre parlato di complotto ai suoi danni. Nel ’91, Maradona era già stato squalificato per cocaina.

Uno dei casi più celebri è quello di Marco Pantani: alla vigilia della penultima tappa del Giro 1999 che stava dominando, a Madonna di Campiglio, il suo ematocrito risulta troppo alto: squalificato. Da quella che ha sempre ritenuto un’ingiustizia, Pantani non si riprese più, fino alla tragica morte, il giorno di san Valentino del 2004.

Qualche giorno prima delle Olimpiadi di Atene 2004, i velocisti greci Kostas Kenteris (oro nei 200 a Sydney) e Ekaterini Thanou inscenano un finto incidente in moto per giustificare l’ennesimo test antidoping saltato: saranno costretti a disertare i Giochi di casa.

La velocista americana Marion Jones vince 5 medaglie (tre d’oro) a Sydney, ma nel 2006 è trovata positiva all’eritropoietina, l’anno dopo ammette l’uso di sostanze dopanti e restituisce tutte le medaglie vinte.

Ancora un ciclista nei guai: nel 2010 allo spagnolo Alberto Contador viene riscontrato la positività al clenbuterolo, che brucia grassi e rafforza i muscoli: il “Pistolero” nega, dice che è colpa di una bistecca “contaminata”, ma si vede togliere un Giro e un Tour, e quando torna non è più un fenomeno come prima.

Clamoroso il caso di Lance Armstrong: vincitore di 7 Tour de France, icona della battaglia contro il cancro, il corridore texano è incastrato dalle confessioni degli ex compagni di squadra, in particolare di Tyler Hamilton, autore di un libro-scandalo, che ammettono il sistematico utilizzo di pratiche dopanti nella squadra della Us Postal: in tv da Oprah Winfrey, nel 2013, lo stesso Armstrong confessa l’uso di sostanze proibite e perde i suoi 7 Tour.

Uno dei casi piu’ recenti è quello del marciatore italiano Alex Schwazer; oro nella 50 km di marcia a Pechino 2008, prima di Londra 2012 è trovato positivo all’eritropoietina. Niente Olimpiadi. Prova a tornare, ma nel 2016 l’altoatesino ci ricasca, positivo ai metaboliti di testosterone. Lui si proclama innocente.

L’ultimo caso è quello del doping di stato in Russia, con atleti squalificati e poi parzialmente riabilitati, che ricorda le pratiche dopanti del passato, prima in Germania dell’Est (soprattutto con le nuotatrici) e, più recentemente, in Cina.

Mai abbassare la guardia. Il pericolo-doping è sempre in agguato.

“Volevo essere Hugh Hefner”

ARTICOLO DI GIORGIO LEVI, DAL SUO BLOG “IL TIMES” (www.giorgiolevi.com)

“E’ morto Hugh Hefner. Il fondatore ed editore di Playboy e l’inventore delle conigliette. Aveva 91 anni.

Ho visto il mio primo numero di Playboy quando avevo 7 anni. Nella palestra della scuola elementare Giosuè Carducci. Aveva portato una copia della rivista più proibita al mondo un mio compagno che aveva il papà console degli Stati Uniti a Torino. “Ho da farvi vedere una cosa speciale”. Teneva il giornale nella cartellina azzurra dei disegni. Siamo scesi in palestra e lì abbiamo visto. Bocche aperte e occhi sgranati. Donne nude fotografate non c’erano, ma i disegni di Alberto Vargas erano quanto di più fantascientifico potessimo immaginare. Vargas tratteggiava a matita e con un realismo assoluto donne con piccoli culi tondeggianti e grandi tette. Il nostro compagno sfogliava la rivista e ogni pagina era una sorpresa. Mai prima di allora avevo visto una donna nuda.

I disegni di Vargas mi aprirono un mondo. Per molti anni fui convinto che tutte le donne, sotto i loro vestiti, erano così. Mi veniva qualche dubbio al mare. A parte mamma (che ovviamente era fuori discussione come fosse una persona asessuata) le sue amiche o le donne che osservavo in spiaggia non mi sembravano come quelle di Vargas. Voglio dire, indossavano bikini con slip alti come un palazzo di sei piani, possibile che senza quei due pezzi di stoffa fossero come quelle biondine di Playboy?

L’attrice Agostina Belli

La copertina che qui risproduco invece si riferisce al numero 1 dell’anno 1 di Playboy, edizione italiana, 1° novembre 1972, Rizzoli Editore. Direttore: Oreste Del Buono. In redazione c’erano anche Lanfranco Vaccari e Rosanna Armani, che avrei conosciuto molti anni più tardi. Questo Playboy l’avevano regalato a papà ad una riunione a Milano in Mondadori. Era arrivato a casa e l’aveva posato sulla mia scrivania: “Guarda che cosa ti porto!”. Gasp. La palymate italiana era l’attrice Agostina Belli, la Rosalia di Mimì Metallurgico. Ma chi andava ad immaginare una tale meraviglia?

Le fanciulle del Golden West

Ho conservato questo Playboy per 45 anni. Mi hanno detto che è una rarità, perché Rizzoli lo considerava un test e ne aveva tirate poche copie. E’ abbastanza ben conservato, l’ho consumato molto. Per nessun prezzo al mondo lo venderei. Beh, non è esatto. Ad Agostina Belli sì”.

C’ERO ANCH’IO IN PIAZZA SAN CARLO

Adesso che sono passati alcuni giorni, posso dirlo: in piazza San Carlo a Torino c’ero anch’io!
Naturalmente il mio pensiero è dedicato ai 1527 feriti di sabato scorso, il 3 giugno. Eravamo in 30 mila nel “salotto buono” della città, proprio davanti al maxi-schermo, per vivere da vicino la finale di Champions League tra la Juventus e il Real Madrid. Io c’ero, ma non per fare il tifo. Io c’ero, per lavoro. Come giornalista free-lance per un’emittente satellitare francese, EuroNews, interessata alla “storia” della partita e del pubblico. Una storia che peggio di così non poteva finire. Quello che è successo, lo sapete tutti. Lo avete visto tutti. Io sono stato pure fortunato: ero in prima fila, proprio sotto al maxi-schermo, davanti ai primissimi tifosi, arrivati lì già al sabato mattina, in posizione privilegiata, ma pur sempre dietro ad una transenna. Noi giornalisti accreditati presso il comune di Torino, organizzatore dell’evento – poi anche nella zona media hanno fatto entrare cani e porci – eravamo i più vicini alla prima via di fuga, ma mai avremmo pensato che quello spazio tra le due chiese gemelle di piazza San Carlo potesse diventare una via di fuga. Chi ci avrebbe mai pensato? Nemmeno gli organizzatori, nemmeno Questura e Prefettura. Nemmeno quelli che adesso si riempiono la bocca del “senno di poi”. Quello che è successo, lo sapete. La dinamica, il perché, resteranno per sempre un mistero. Io so soltanto che, poco dopo il gol del 3-1 che aveva raffreddato gli entusiasmi del popolo juventino, ho sentito un gigantesco movimento d’onda, ho girato la testa verso la sinistra e ho visto una mandria imbufalita di persone disperate correre verso di me. Ho fatto appena in tempo a percorrere quei venti-trenta metri che mi separavano dal retro del maxi-schermo, ma già in quel breve tragitto ho dovuto evitare persone già finite a terra e ho dovuto reggere l’urto per non finirci io, a terra. Sarebbe stata la fine. Mi sono riparato attaccandomi ai tubi Innocenti del maxi-schermo, ho perso di vista i colleghi, Ezio e Teo, che erano ad un centimetro da me. Ho temuto, per un attimo lungo un’eternità, che fosse un attentato. Lo avranno pensato tutti. Panico. Psicosi di questi tempi di terrorismo. Inevitabile. Ho avuto paura che, ora che ero al riparo dalla onda travolgente, arrivasse un terrorista con il kalashnikov. O con il coltello. Cuore in gola. A terra, feriti sanguinanti. Tutti a chiedersi, a chiederci: “Cosa diavolo è successo?”. Una bomba? Un petardo? Un falso allarme? Un ragazzo a torso nudo con lo zainetto? Ci sono state altre due inspiegabili ondate di tifosi. Ho rivisto Ezio e Teo, sani e salvi, grazie a Dio. Ma in tanti – non ultras, non hooligans, ma semplici tifosi che volevano passare una serata di festa – sono caduti a terra, sull’asfalto della piazza, come birilli, precipitati sui cocci di bottiglie di vetro che là non dovevano starci. Altri, i feriti più gravi, sono stati travolti, calpestati, schiacciati. Ora che sono contento di poterlo raccontare, ora che posso dire “io c’ero, ma non mi sono fatto un graffio”, vorrei dire: mai più maxi-schermi. Non è più tempo di scherzare con il fuoco. Con il panico. Con la paura. Quei 1527 feriti sono una…ferita per tutta Torino, per tutta l’Italia.
Mi dispiace dirlo, con amarezza, ma è cosi: non è vero che il terrorismo non vincerà.
Il terrorismo ha già vinto. Il terrore è già dentro di noi. Nella nostra vita quotidiana.
E prima lo capiremo, e meglio sarà.