L’anno che ci invecchiò di colpo

di Marcello Veneziani

Come riassumere in una sola immagine, in un solo pensiero, quasi in un’epigrafe storica per i posteri il senso dell’anno trascorso sotto la pandemia? In sintesi: fu l’anno che ci invecchiò di colpo. Nell’arco che va da marzo scorso a oggi, siamo invecchiati tutti più in fretta; donne, vecchi e bambini, giovani e adulti, in ogni parte del mondo.

Abbiamo vissuto un anno da vecchi, con una mezza tregua estiva. Stando reclusi in casa, vivendo da pensionati, da cagionevoli, da convalescenti, distanti da tutti, isolati dagli altri, al riparo dal mondo; abbiamo curato la nostra sopravvivenza vivendo meno, non lavorando, non uscendo, non viaggiando, non rischiando. Abbiamo patito la lontananza dai corpi, la diffidenza dei corpi, come accade ai vecchi che dai corpi si allontanano e del proprio corpo sono costretti a fidarsi sempre meno. Come succede ai vecchi abbiamo anteposto a tutto la salute; salviamo la pelle, a ogni costo. Molti vecchi sono morti a causa della pandemia ma il mondo non è diventato più giovane, anzi si è caricato della vecchiaia deceduta, ne ha ereditato la senilità.

Siamo stati sempre più spettatori, sempre meno attori, abbiamo vissuto la vita degli altri, a volte la morte; incollati al video e alle mansioni domestiche, alla vita stanziale e ospedaliera, alle mascherine e ai vaccini. Atrofizzati, in quiescenza forzata e anticipata, senza le consolazioni previste per i pensionati: viaggiare, conoscere altri luoghi, frequentare corsi, teatri e lezioni. O perlomeno godersi figli e nipoti; ci è stato al contrario intimato di starne alla larga. Si è ridotta per tutti la facoltà di giocare.

A questo si aggiungono le diete saltate per la cattività, le pinguedini da vita domestica per compensare le privazioni; i mancati controlli medici, il rinvio di cure per timore degli ospedali, la vita trasandata perché domestica e asociale; più gli strascichi maniaco-depressivi per la pandemia e il terrore organizzato per tenerci sotto scacco. Tutto questo ha contribuito a invecchiarci, nel fisico e nella mente. È stato un corso planetario d’invecchiamento globale.

Perfino gli adolescenti sono invecchiati di colpo sotto la pandemia: se a un ragazzo non lo mandi a scuola, lo separi dagli amici, reputi ogni comitiva un’adunata sediziosa, gli proibisci di stare all’aperto, viaggiare, andare per strada o fare movida, gli imponi di vivere da anziano con un corpo di giovane e pulsioni di giovane. Così hai diminuito i rischi di contagio ma hai accelerato l’invecchiamento di tutte le sue cellule, anche quelle spirituali.

Un anno così ci ha reso più vecchi nel corpo e nello spirito; nell’umore non ne parliamo. Ed è questo il primo, grande danno biologico che abbiamo patito in massa e che va ben oltre i danni del virus, i ricoveri e i decessi; ma va anche oltre i danni sociali ed economici, tra chiusure e lockdown. C’è un danno esistenziale da cui non ci riprenderemo facilmente, ammesso che possiamo parlare di ripresa, come se il peggio sia davvero passato.

Il problema si aggrava in particolare da noi: qui la vecchiaia dell’Occidente si aggrava. Eravamo già una società di vecchi, l’Italia è un paese con un’età media sbilanciata verso la senilità, la popolazione dei pensionati ha quasi raggiunto quella dei lavoratori; in giro è una processione di teste bianche, brizzolate, pelate. Ha piovuto sul bagnato, una società già senile, invecchia di colpo dopo un anno di convalescenza preventiva allo scopo di evitare la malattia. Anche a volersene fregare delle disposizioni, aggirare i divieti, le cose non cambiano: in un mondo chiuso non puoi vivere all’aperto, non hai luoghi, compagni, locali, situazioni in cui esercitare la libertà e godere la vita a piede libero. La sera, poi, è diventata un mortorio.

Resta sempre sullo sfondo un interrogativo che preferiamo rimuovere: siamo sicuri che senza lockdown sarebbe stata la catastrofe, e non piuttosto la mezza catastrofe che abbiamo comunque patito? Se si fossero adottate precauzioni e sanificazioni, distanziamenti, mascherine, divieti di assembramento ma senza alcuna chiusura né arresti domiciliari, sarebbe andata peggio? Non abbiamo termini veri di paragone per dirlo o per smentirlo. Nessuno di noi si sente di spingere fino in fondo questa riflessione, perché c’è il timore di ferire, di apparire incoscienti, di fare i superuomini con la vita degli altri.

Ma non si tratta di immaginare i “se”, bensì di affrontare gli effetti di quest’anno coatto: come si risale la china della vecchiaia, come si supera la visione sanitaria della vita, il marasma senile; con quale elisir recupereremo l’età rubata? Come restituire, non dirò i giorni perduti ma l’energia repressa e depressa per poter recuperare e risorgere (la resilienza, per far godere i pappagalli ammaestrati).

Ci vorrebbe un nuovo risorgimento questa volta biologico, personale e comunitario. Ma non ne abbiamo lo spirito. Al mio paese c’era un circolo che si chiamava Risorgimento, in omaggio all’amor patrio; ma era frequentato da vecchi col bastone e l’orologio a cipolla nel taschino, i colletti inamidati e gli acciacchi raccontati a ogni giro di scopone e a ogni conversazione, punteggiata da attacchi catarrosi. Più che Risorgimento era Decadimento.

Chiamavano Risorgimento il circolo vizioso del loro declino, il racconto reciproco dei rispettivi malanni, la complicità dei ricordi e delle amnesie, l’appello dei defunti e del tempo andato. Ero bambino e mi aggiravo tra loro come in un parco archeologico di animali preistorici. Ora mi sembra di essere tornato a quel tempo, con la differenza di far parte anch’io del parco dei superstiti; e invocare, come loro, il Risorgimento al sorgere della senilità. Abbiamo perso quasi un anno di vita, e in un anno dieci.

Ciao, Fausto Gresini: corri forte, Lassù…

Aveva solo 60 anni, ma anche due titoli di campione del mondo da motociclista (1985.1987, nella classe 125) in bacheca e altri quattro da team manager.
Se n’è andato troppo presto, Fausto Gresini. Il Covid e le complicanzioni dovute ad un’emorragia celebrale se lo sono portato via.
Era ricoverato da fine dicembre in ospedale a Bologna e la famiglia continuava a dire: “Non ha mai avuto problemi di salute prima”, come cupo avvertimento ai presunti negazionisti del virus.
Il destino tragico, però, aveva già incrociato la strada di Fausto Gresini: con la morte di Daijiro Kato, scomparso a 26 anni su un muro di Suzuka (2003) in sella a una Honda del suo team e con la tragedia di Marco Simoncelli, volato via in una curva maledetta a Sepang (2011), anche lui su una Honda della scuderia del manager imolese. Ora, il fato è stato crudele proprio con lui, e senza nemmeno bisogno di un muro o di una curva maledetta, che durante le sue corse Gresini aveva sempre saputo sfidare e domare.
Tutti coloro che lo hanno conosciuto bene raccontano di un Fausto Gresini uomo d’altri tempi, una stretta di mano e via, valeva più di un contratto, amicizie senza tempo (come con Loris Capirossi, prima rivale in pista e poi amico vero), tanti progetti che – ora – sarà la famiglia, come ha annunciato, a portare avanti. Ma Gresini ci mancherà, e non soltanto agli appassionatissimi di moto, per la sua semplicità, per la sua intraprendenza, per la sua voglia di aiutare gli altri, in un mondo dominato dalla velocità, dalla tecnologia e dalla poca umanità.
Lui, in effetti, rappresentava una straordinaria eccezione alla regola.

Il Sic e Fausto.

 

Aston Martin e Formula 1: un affare per tutti

Gli occhi di tutti gli appassionati di Formula 1, domenica 28 marzo, al via del Mondiale 2021, con il GP del Bahrein, saranno puntati sul nuovissimo team Aston Martin.

Per il prestigioso marchio britannico è un ritorno alla F.1 ben 61 anni dopo l’ultima volta (senza grandi risultati). Tutto merito del miliardario canadese Lawrence Stroll (ha fatto fortuna con marchi glamour come “Tommy Hilfiger” e “Michael Kors”) che, per garantire un sedile al promettente figlio Lance, si è…comprato l’intera scuderia, la ex Racing Point, di cui era già sponsor. Anzi: si è comprato l’intera Aston Martin. Con il “raccomandato” di famiglia, ci sarà un vecchio leone un po’ spelacchiato, il 33enne Sebastian Vettel, quattro volte campione del mondo, sbolognato in malo modo dalla Ferrari.

Dietro Mercedes, Red Bull e Ferrari, la quarta forza del Mondiale potrebbe essere proprio l’Aston Martin.
“Questo è il nostro obiettivo minimo”, ha dichiarato il Team Principal Otmar Szafnauer, americano di nazionalità, romeno di nascita. Ma al di là di come andranno le cose sui 23 circuiti del Mondiale, l’ingresso del marchio Aston Martin nella Formula 1 è un affare per tutti: per la stessa casa automobilistica e per lo stesso “circus”, gestito da quest’anno dall’ex Direttore Sportivo ferrarista Stefano Domenicali.
Perchè l’Aston Martin è conosciuta nel mondo – a parte per i suoi splendidi modelli – quasi esclusivamente per essere la mitica auto super-accessoriata dei film di James Bond (non in esclusiva, perchè negli ultimi film è stata scalzata dalla Bmw, ma nell’immaginario collettivo la 007-car è sempre l’Aston Martin!) e una notorietà a suon di podi e/o vittorie in Formula 1 rilancerebbe le quotazioni della stessa azienda.
Gli ultimi dati disponibili, riferiti a fine 2019, infatti, parlavano chiaro: le consegne alla clientela erano scese del 9%, mentre i ricavi, in flessione di una pari percentuale, erano calati da 1,096 miliardi di sterline a 997,3 milioni. I dati 2020, nel bel mezzo di una pandemia mondiale, non sono andati molto meglio.
Ecco perchè, in attesa del boom del DBX, il primo Suv-Aston Martin, il rilancio del marchio è legato soprattutto all’operazione di “immagine” globale che offre la Formula 1.

Sebastian Vettel versione 007.

 

L’ultima domenica felice

Era il 23 febbraio 2020, l’ultima domenica felice.
Mi sembra proprio che fosse la domenica prima del Martedi Grasso, prima della fine del Carnevale. Da tempo avevamo deciso di portare Santiago, vestito da Capitan America, alla festa in maschera per bambini all’interno di un centro commerciale, perchè l’ospite di lusso era il mitico Bing, il coniglietto un po’ tonto e pasticcione adorato dai bimbi, anche da mio figlio.
La sera prima, con l’amica Erica, ero andato a vedere a teatro “Sul Lago Dorato”, con Gianfranco D’Angelo, Corinne Clery, Fiordaliso…
Il teatro, però, era inspiegabilmente mezzo vuoto. Anzi, non inspiegabilmente: dai telegiornali, fioccavano già come saette le notizie dei primi casi italiani di Coronavirus, a Vo’ Euganeo (Padova) e a Codogno (Lodi), ve lo ricordate?
La gente, subito, si è spaventata e ha cominciato a chiudersi in casa, tristissimo prologo di quello che sarebbe successo, di ancor più triste, da lì a poco.

Ma la domenica è domenica e il Carnevale dei bimbi è sacro: Santiago-Capitan America si è divertito, ha fatto la foto con Bing, c’erano un sacco di belle famiglie assolutamente non conscie del fatto che quella sarebbe stata l’ultima domenica felice, forse persino l’ultima domenica di libertà (non vigilata e non mascherata).
Ma nell’aria si respirava già qualcosa di strano (era il Covid in agguato?), si facevano battutine sul virus portato dai cinesi (provato a dire il contrario!), ma – sotto sotto – c’era la sensazione di paura di ciò che è sconosciuto e misterioso, un nemico invisibile e subdolo, anche se mai avremmo immaginato quello che è successo poi (o che ci hanno raccontato che sia successo).

Anche se mai avremmo immaginato, 365 giorni dopo, di essere ancora allo stesso (disperato) punto di partenza.

Spagna: il caso-Pablo Hasél e la “Legge Bavaglio” che manda in carcere per “crimini di espressione”

Notti di protesta a Barcellona, ma anche a Madrid, Valencia e Palma di Maiorca, nonostante coprifuoco e restrizioni.
È l’effetto dell’arresto del rapper Pablo Hasél, 33 anni, avvenuto martedi mattina all’Università di Lleida, dove il cantante si era barricato per sfuggire all’arresto.
All’alba di martedi, l’irruzione degli agenti anti-sommossa nel rettorato dell’Università aveva messo fine ad una situazione di stallo, durata 24 ore, tra la polizia e Hasél, asseragliato all’interno.
Pablo Hasél è stato condannato ad una pena di nove mesi di carcere, a causa dei testi delle sue canzoni (e di almeno undici tweet giudicati “compromettenti”): è accusato di apologia di terrorismo e vilipendio alla monarcha spagnola e alle istituzioni statali.
Aveva tempo fino a venerdì scorso per costituirsi, ma non lo ha fatto. Così è partito il blitz delle forze di sicurezza.
In perenne dissenso, tra il premier Pedro Sanchez e il suo alleato Pablo Iglesias, di fronte alle tante proteste, anche internazionali, contro i “crimini d’espressione” previsti dalla cosiddetta “Legge Bavaglio”, il governo spagnolo sembra ora voler fare retromarcia.
Ha dichiarato Carmen Calvo, vice premier spagnola:
“Pensiamo che in tutte quelle questioni che derivano dalla libertà di espressione e che non comportano un rischio per la sicurezza delle persone, la reazione sanzionatoria dello Stato con la privazione della libertà è, secondo noi, una reazione che non è appropriata nel contesto delle libertà di una democrazia”.
In buona sostanza: basta carcere.
Questa sentenza arriva dopo il processo che Hasél aveva subito per lo stesso crimine nel 2018 e per il quale era già stato condannato nel 2014. Vale a dire, quindi, che il tribunale che aveva già sospeso per tre anni l’esecuzione di una prima condanna, nel suo secondo caso ha tenuto conto che avrebbe commesso di nuovo il crimine.
Pur avendo alle spalle, per l’appunto, diverse denunce e condanne – anche per aver inneggiato all’ETA e al GRAPO (due gruppi terroristici spagnoli del passato) nelle sue canzoni, – ed essere considerato una “testa calda”, Pablo Hasél è diventato un simbolo, soprattutto per artisti e intellettuali, per ottenere il cambiamento della cosiddetta “Legge Bavaglio” spagnola.
Oltre 200 artisti, tra cui Pedro Almodóvar e Javier Bardem, hanno firmato una petizione per la liberazione di Pablo Hasél.

Quella volta che a San Valentino…

Il 14 febbraio incombe, San Valentino incombe.
Voglio simpaticamente raccontare di quella volta che, a voler essere romantico a tutti i costi, mi presi una gran sberla.
Alla fidanzata dell’epoca, infatti, regalai un bel cuscino morbido morbido di Lupo Alberto, tutto bello rosso, a forma di cuore, con Lupo Alberto che abbracciava teneramente la sua innamorata storica, la gallina Marta. Ricordo ancora la scritta sul davanti del cuscino: “Ti voglio tanto bene…”.
Avrei dovuto diffidare di quei tre puntini di sospensione, ma ormai è fatta, il reato è caduto in prescrizione.
Consegnai il pacchetto regalo alla mia fidanzata dell’epoca – tale Elena -, mi aspettavo baci e abbracci e invece, tempo dieci secondi, mi arriva un sonoro ceffone!
Beh, che cosa è successo, che cosa ho fatto?
“Allora è questo che pensi di me!”, esclamò la furibonda ormai ex fidanzata. E mi fa vedere il cuscino, il corpo del reato.
Da una parte c’è scritto “Ti voglio tanto bene…” – e fin qui tutto normale -, ma sul retro la scritta continuava con “…che…”, con il disegno di Lupo Alberto che getta Marta giù da un burrone!!!
Maledetto retro del cuscino a forma di cuore!!!!
Io nemmeno lo avevo guardato quando lo avevo comprato!!!
Praticamente, la fidanzatina pensò che io volessi buttarla giù da un burrone….
Naturalmente, la Grande Love-story finì cosi, tragicamente (ma senza burrone).
Da allora, ho appreso una grande lezione: leggere la scritta sui cuscini a forma di cuore da entrambe le parti!!!!

Ps. All’epoca avevo 18 anni e la fidanzatina dalla mano pesante solo 15: vale come attenuante?

Gli sportivi…ben poco sportivi

Succede sempre più spesso e, ormai, non fa nemmeno più notizia.
Prima la disfida Ibra-Lukaku durante il derby Milan-Inter, poi il dito medio di Antonio Conte e il “coglione” urlato a squarciagola da Andrea Agnelli, fino al battibecco in mondovisione di due tennisti italiani, Salvatore Caruso e Fabio Fognini (uno che crede di essere il McEnroe dei poveri), agli Australian Open.
Ma che succede? Sportivi…sempre meno sportivi?
Del resto, anche poco furbi: nel calcio, senza pubblico e con le telecamere e i microfoni ovunque, si sente davvero tutti: dai riti voodoo alle accuse alla mamma di questo o di quest’altro, dagli insulti alle minacce, fino al “bucio di culo” (detto proprio cosi) di Fognini a Caruso in un tristissimo derby italico della maleducazione.
Esiste una morale della favola?
Certo: innanzitutto non è una favola, lo sport, se arriva a questi infimissimi livelli. Nè, tantomeno, può essere di modello per i più giovani, che fanno dei loro campioni (Ibra e Lukaku lo sono sicuramente, per un’intera generazione) degli esempi, ma stavolta da non imitare.
Un aspetto positivo? Beh, almeno possiamo dire che – in mezzo a tanta ipocrisia – quando due campionissimi grandi e grossi come Ibra e Lukaku non riescono a nascondere al mondo intero la loro reciproca antipatia, se non altro è una questione da uomini veri, tipo “Ti spiezzo in due” (cit. Ivan Drago in “Rocky”) o da “Ti aspetto fuori”. Roba da saloon e da Bud Spencer e Terence Hill, roba da uomini veri, forse. Se un uomo vero, mah, si misura da queste cose…
Ma la sportività – visto che parliamo di sport e non di Far West – è tutta un’altra cosa.

Auguriiii, Vasco!

Può piacere o non piacere (a me piaceva più una volta, andando anche ai suoi concerti, quando faceva meno il filosofo e più il ribelle: sarà l’età…), ma indubbiamente Vasco Rossi è la più grande star della musica degli ultimi 35 anni e oltre, altro che Ligabue e Zucchero…
Solo lui riempie sempre gli stadi e ci ha regalato canzoni (soprattutto quelle vecchie) che sono autentiche poesie per diverse generazioni.
Il 7 febbraio, Vasco da Zocca, ha compiuto 69 anni, che sembrano tanti, ma che non scalfiscono minimamente la sua anima eternamente giovane. E forse già pensa all’anno prossimo, quando saranno 70, e chissà in quanti – magari gli stessi benpensanti che una volta gli davano del “drogato” – ora sbrodoleranno in complimenti e leccaculamenti, che a lui, credo, interessino meno di zero.
Non conoscendo Vasco, ma avendolo intervistato diverse volte in diverse epoche, mi è sembrato più “vero” e più “ruspante” di tanti altri cantantucoli dei giorni nostri. E un posto nella storia della musica italiana – e nel nostro cuore – ce l’ha già.
Qual è la vostra canzone preferita di Vasco? La mia è “C’è chi dice no”.

Ce l’abbiamo una seconda vita? Sì, almeno in certo libri virtuosi

“Titolo molto bello e idea geniale.
Meglio un “Ambasciatore della Felicità” in carne ed ossa che un decalogo da rivista su come cambiare la propria vita! E Camille, la protagonista, ce la fa!
Il romanzo di Raphaëlle Giordano scivola via in maniera piacevolmente fuffosa, tra buoni propositi e buoni sentimenti, fino alla sorprendente sorpresa finale.
E visto che c’è pure il vademecum, viene proprio voglia di provare il metodo dell’Abitudinologo Claude…perché no?