Il numero 10 che era un numero 1: ciao, Diego!

Posso dire di essere stato fortunato: ho visto giocare Maradona dal vivo due volte.
La prima, nell’estate del 1986, in Coppa Italia, poche settimane dopo il trionfo al Mondiale messicano. Spal-Napoli, a Ferrara.
Stadio stracolmo per vedere el Pibe de Oro. Io sono in curva, ho 16 anni. Sono vicino alla bandierina e vedo parecchie volte Maradona a pochi centimetri da me, mette batte diversi calci d’angolo. Un’emozione! Il più grande è proprio lì davanti a me!
La seconda volta fu a Bologna, forse nell’88, in un mercoledi di Coppa Italia di ottobre.
Maradona entrò solo nel secondo tempo, ma lo vidi da molto lontano, perchè la curva dello stadio di Bologna ha la pista e i giocatori sembrano delle miniature.
Comunque sia, posso dire: io c’ero!
Io l’ho visto!

Ora riporto l’articolo di Darwin Pastorin, amico personale di Maradona, pubblicato sull’Huffington Post del 25 novembre 2020.

“Dimmi che non è vero, Dieguito. Che è un’altra tua trovata, per farti beffa del mondo. Dimmi che stai ridendo, ballando, palleggiando un’arancia. Dimmi che stai danzando, ebbro e felice, tra i tuoi sogni e le tue nostalgie.

No, è una maledetta illusione: non ci sei più. Ti ha fermato un avversario terribile, un arresto cardiocircolatorio. A 60 anni compiuti da poco, dopo un’operazione alla testa: tu che ti fai fotografare, dopo l’intervento, sorridente, “anche questa è andata“. Con quel tuo sorriso a girasole, da scugnizzo di Lanús, lo stesso che avevi da ragazzino, quando già stupivi l’universo del fútbol con i tuoi gol, i tuoi dribbling, le tue prodezze. Non è retorica: in tanti ci sentiamo, ora, più soli. Perché hai rappresentato, per noi amanti della bellezza del calcio, la perla più preziosa, il giocatore capace di tutte le meraviglie del possibile e dell’impossibile: pensa, c’è chi assicura di averti visto palleggiare con una goccia d’acqua in un pomeriggio di tempesta al campo di allenamento di Soccavo. Hai conquistato un mondiale, quello di Messico ’86, scrivendo, contro l’Inghilterra, i racconti più abbaglianti del football: prima la mano de Dios, il colpo proibito per vendicare le Malvinas, poi la rete più bella e travolgente di tutti i tempi, con i calciatori inglesi saltati come birilli, storditi, smarriti e increduli. Sei passato dal Barcellona, prima di arrivare, nel luglio del 1984, al Napoli. Tu e una città: una storia di amore e di passione, di giorni da incorniciare, di scudetti memorabili e di notti, talvolta, da dimenticare. C’ero anch’io, inviato di “Tuttosport”, sull’aereo che ti portava dalla Spagna in Italia, nella tua nuova realtà, ventiquattrenne felice di vivere quella nuova avventura, in un luogo che ti ricordava, per i suoi colori e per il suo calore, l’Argentina del cuore. Pochi giorni dopo, ti intervistai per il mio giornale. “Come farai a superare la nostalgia per Buenos Aires?”, “Mi basterà spalancare la finestra e guardare il mare di Napoli”.
Ti sei perduto nei labirinti della droga, per uscirne fuori: a fatica, ma ci sei riuscito. Hai fatto tanto per gli altri, chiedendo il silenzio “perché il bene si fa senza pubblicità”. Hai attaccato il Potere del pallone, hai sfidato i prepotenti della politica, hai scelto di stare a sinistra, “da buon soldato dell’America Latina”. eri il simbolo del riscatto di ogni Sud. Eri sempre tu: vero fino all’assurdo, mai una maschera, lo sguardo fiero, la testa alta. Ti hanno messo in croce mille volte, ma non ha mai ceduto: eri “el Diego”, il più grande di tutti, sempre e per sempre.
Sei stato il mio Borges della pelota. Ho avuto la fortuna di conoscerti bene durante le stagioni napoletane e poi al Siviglia. Aveva addosso una voglia immensa di vita, voleva catturare ogni attimo, ogni secondo, ogni sospiro. I tuoi compagni ti ricordano, tutti, con affetto e commozione: hanno vinto grazie, soprattutto, a te. Eri un trascinatore, un esempio. Il pallone era il tuo sangue, la tua anima: dopo la gloria del prato verde, hai cominciato ad allenare. Perché non potevi stare lontano dal profumo dell’erba, dall’odore dello spogliatoio, dall’urlo della folla. Ogni volta che ti affacciavi sul campo, ecco partire il delirio: “Diego, Diegooo!”.
Sono tanti i ricordi, ed è già struggente il rimpianto. Osvaldo Soriano che ti aveva conosciuto al mondiale italiano del ’90 e che avrebbe voluto scrivere un romanzo con te protagonista. La tua amicizia con Gianni Minà. Il tuo parlare di Napoli sempre con dolcezza, con commozione. Le tue reti da centrocampo, da terra, quella punizione magica alla Juventus, il tuo sinistro che era musica, poema epico. Ti pensavamo eterno, questo il nostro peccato. Il nostro segno di profondo affetto. Ciao Dieguito, ci saranno ora le nuvole a farti compagnia. Non avrai più dolori. Sei, adesso, nel mito, nella leggenda”.

Tra un quarto di secolo…

…pensierino della sera: 25 anni fa avevo 25 anni. Tra 25 anni ne avrò 75 (se ci arrivo).
Porca puttanaaaaaaa!
Non c’e più tempo da perdere. Ci sono tante cose da fare fare fare fare fare fare fare fare……………
Tra 25 anni Santiago ne avrà 27 e mezzo….

“Covid-19: The Great Reset”

E NOI PENSAVAMO FOSSE SOLO UN VIRUS – Nel suo libro “Covid-19: The Great Reset”, il presidente del World Economic Forum, Klaus Schwab afferma che il mondo “non tornerà mai” alla normalità, nonostante abbia ammesso che il coronavirus “non rappresenta una nuova minaccia esistenziale”.
Schwab è convinto della necessità che il COVID venga sfruttato per spingere per un nuovo ordine mondiale, affermando: “Ora è il momento storico del tempo non solo per combattere il … virus, ma per modellare il sistema … per l’era post-corona…. Molti di noi si stanno chiedendo quando le cose torneranno alla normalità – scrive Schwab – La risposta è breve: mai. Nulla tornerà mai al senso di normalità ‘rotto’ che prevaleva prima della crisi perché la pandemia di coronavirus segna un punto di svolta fondamentale nella nostra traiettoria globale “. Avete letto? Non si tornerà più indietro. Salario minimo, spostamenti limitati, proprietà privata annullata, biovaluta, lockdown come sistema di governo. E noi pensiamo sia solo il virus.

“A Mandrà….te possino…”: Gigi Proietti ricordato da Enrico Montesano

di Ilaria Floris (Adnkronos)
“A Mandrà… ma proprio er giorno der compleanno tuo. Ma non potevi aspettare qualche giorno… ci hai preso in contropiede, te possino”. E’ un Enrico Montesano visibilmente emozionato quello che, raggiunto telefonicamente dall’Adnkronos, sceglie le parole dell’indimenticabile ‘Er Pomata‘ per commentare la notizia della scomparsa di Gigi Proietti. “Non mi vergogno a dirlo -dice Montesano senza retorica- sono cristiano, e stamattina presto ho detto una preghiera, un requiem aeternam per Gigi”.

La notizia lo ha raggiunto all’alba, da parte di un conoscente: proprio ieri sera l’attore aveva guardato con la famiglia, per l’ennesima volta, ‘Febbre da Cavallo’, trasmesso in occasione degli 80 anni che Proietti avrebbe compiuto proprio oggi. “Ho rivisto ‘Febbre da Cavallo’, in casa, con i miei figli, proprio loro hanno voluto rivederlo -racconta l’attore- Un film che ha fatto ridere ancora una volta tutta Italia. Abbiamo potuto ammirare ancora una volta la bravura di Gigi, la sua straordinaria tecnica. Lui riusciva a fare quelle cose pazzesche, quegli scioglilingua, le sue gag, che sono famose e vengono ancora trasmesse da tutti i siti, ci sono appassionati e fan da decenni”.

“Io sono sempre stato un grande ammiratore delle straordinarie capacità tecniche di Gigi. Un timbro di voce bellissimo, non a caso ha iniziato come musicista cantante”, aggiunge l’attore. Le emozioni di Montesano sono tante, si affollano i ricordi di spaccati di vita, di molte esperienze insieme -a partire proprio da ‘Febbre da Cavallo’ e del suo sequel, ‘La Mandrakata’- ma soprattutto di un mondo condiviso, quello del cinema e del teatro di una volta, di quella romanità che si va perdendo sempre più. “Un altro grandissimo pezzo della romanità se ne va con Gigi -afferma Montesano- come quando è morto Albertone, o Vittorio Gassmann, o Mastroianni…sono tutti pezzi di Roma che se ne vanno. Un mondo che non c’è più purtroppo”.

E pensando al set di ‘Febbre da Cavallo’, Montesano sorride – a tratti ride- ancora come se fosse stato ieri. “Allora i film erano pensati -dice- noi siamo i nipotini della commedia dell’arte, Steno era un grande sceneggiatore e ‘Febbre da Cavallo’ è un film suo. Pensando al film, ancora mi viene da ridere pensando ad alcune gag, ai personaggi….ci siamo divertiti”.

Poi un pensiero alla ‘rivalità’ Montesano – Proietti, su cui molto si è detto e che, anche ultimamente, dal covid alle mascherine, sembra tratteggiare il ritratto di due ‘contendenti’. Montesano ci tiene a chiarire: “E’ chiaro che fra primi attori un minimo di gara c’è sempre -spiega- ma è sana, finalizzata a far ridere il pubblico, ognuno a trovare le cose più divertenti. Quando ci sono due primi attori in scena è normale. Fra noi c’è sempre stato un grandissimo rispetto reciproco. E, da parte mia, una grande, grandissima stima per lui. Era davvero un grandissimo attore”.

Il Covid ringrazia (a modo suo)

di Gian Stefano Spoto (L’Opinione)

Carissimi,

quando sono arrivato pensavo di provocare danni, ma non sarei riuscito a realizzare neppure una piccola parte di quello che ho combinato senza il vostro preziosissimo aiuto.
Lo so, le guerre sono la pacchia degli sciacalli, i quali ne approfittano per arricchirsi, per combattere i nemici privati e non quelli della patria. Ma, almeno, in guerra c’è qualcuno che combatte contro il nemico vero, e poi viene celebrato, osannato e infine messo da parte.
Voi, no : una lotta tutti contro tutti, talvolta nemmeno per guadagnarci, solo per il gusto di offendere, distruggere, gettare discredito, e non solo sugli avversari, su chiunque.
Stati arroganti non hanno sopportato che io li colpissi più di quanto non abbia fatto con i Paesi più poveri e mi hanno sfidato ignorandomi . Io li ho puniti e loro hanno trovato il modo di mitizzare i propri interventi tardivi.
Non vi siete resi conto che il nemico sono io, e vi siete alleati con me senza accorgervene. Come foglia di fico avete celebrato frettolosamente medici e infermieri e vi siete cibati di foto-simbolo, punte dell’iceberg in un mondo in cui si leggono solo i titoli. Poi, di nuovo, zuffa a tempo pieno.
La vostra avidità ha fatto sì che persino le mascherine fossero oggetto di speculazione e non di difesa, che le misure di sicurezza fossero buone o cattive se proposte da finti amici o da veri nemici.
Ma i miei migliori alleati non siete voi, sciocchi portabandiera di politicanti che ridono dei loro sostenitori: sono gli scienziati, i quali non hanno consigliato la politica, ma da essa sono stati risucchiati e si sono tinti di un colore.
Così gli uni hanno previsto che avrei ucciso tutti, gli altri hanno negato la mia esistenza. Ma sono scienziati , e a loro bisogna credere, anche se si contraddicono diametralmente.
E poi devo tanto a voi, menti eccelse formato social, che sentenziate su di me come avete fatto sul reattore di Fukushima, sui terremoti come sui rigori contro la vostra squadra. Voi che non vi curate del vostro quartiere, ma prevedete con dovizia di particolari i complotti che stravolgeranno gli equilibri mondiali senza avere letto una riga di nulla. E vi cibate di like sparati svogliatamente da quelli che, come voi, scrivono, ma non leggono, e poi si lamentano senza sapere di che cosa.
Ringrazio voi che avete creato governi truffaldini e ora vi meravigliate del fatto che non vi tutelino. Voi che, contro di me, chiudereste tutti i settori eccetto il vostro.
Voi che non siete andati al cinema e a teatro negli ultimi dieci anni, urlate “cultura” a ogni piè sospinto e non avete mai letto un libro, ma ora gridate contro le chiusure temporanee. Voi che avete denunciato guadagni da barboni e ora chiedete rimborsi da nababbi. Voi che guardate lo sport solo in pay-tv e vi lamentate per non poter sentire l’odore del tifo nello stadio.
So bene che in ogni guerra il nemico trova diligenti alleati nei Paesi conquistati: però, vi prego, abbassate lo zelo con cui mi state aiutando, smettete di spingere, siete troppi.
Sono costretto a chiudere le iscrizioni, non ho più posto.
Ma vi ringrazio per l’aiuto che mi offrite. Imbecilli.
il vostro virus.

 

Sean Connery: l’agente segreto che ha vissuto un migliaio di volte….

di Eduardo Ferrarese (cinema.everyeye.it)

È sempre difficile in questi casi tenere a freno le emozioni. Ci si chiede quale sia il modo migliore per ricordare un’icona, o se davvero ne esista uno. Perché Sean Connery ha incarnato un modello assoluto di attore, quello che ha azzannato per anni grande schermo e palcoscenico con uno charme e una classe totali: divorava i ruoli senza mai sporcarsi la camicia. E allora come si può ripercorrere una carriera che lo ha trasformato in qualcosa di “oltre”, un Sir della settima arte dentro e fuori lo schermo, che veleggiava fra teatro, televisione e ovviamente cinema, con i capelli sempre in ordine.
Bisogna farlo tramite le emozioni, quelle che ci permettono di sentirlo vibrare sui nostri occhi ogni volta che si accende una sigaretta con il completo da James Bond, o che impartisce lezioni di vita a uno scapestrato Indy. Dopotutto, non è così che si diventa immortali?

Esiste un’immagine più iconica di Sean Connery con la sigaretta in bocca in Agente 007 – Licenza di uccidere? Una manciata di secondi che hanno traslato la carta di Ian Fleming nell’immaginario collettivo mondiale.
Un sorriso, quel “James Bond” pronunciato con gigiona sicumera e la sigaretta leggermente a penzoloni. E in quell’esatto istante, prima di scatenare la sua valanga sul mondo, Sean Connery diventava già immortale, forse senza neanche saperlo.
Qui sta tutta l’importanza che il lavoro dell’attore scozzese ha significato per almeno un paio di generazioni: unire cinema e letteratura, intrattenimento e cinefilia, arte e guadagno.
Il James Bond di Sean Connery è una quintessenza della pellicola, capace di arrivare a qualsiasi tipo di pubblico, conquistando le folle negli anni ’60 e riuscendo a mantenere inalterato il suo fascino ancora oggi.
Come se fosse un passaggio di testimone generazionale nelle domeniche pomeriggio estive, quando la sua Spia spuntava in tv, un genitore cresciuto a pane e cascate di diamanti probabilmente era lì a far appassionare il proprio pargolo al mondo british, spiegandogli perché quello era davvero James Bond. E lo sarebbe stato per sempre.

Poi, improvvisamente, si affastellano decine di altri ricordi. Arriva subito il Prof. Henry Jones Sr., il padre di Indy, quello a cui tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo guardato. E resta lì, vestito di tutto punto, naturale emanazione del suo corpo, cappello, occhialini e barba a farlo già all’epoca uno straordinario gentleman.
Sean Connery riusciva a essere imprescindibile in qualsiasi situazione, perfetto Riccardo Cuor di Leone che suggella matrimoni o poliziotto incorruttibile che demolisce criminali intoccabili.
Il passaggio da icona pop a mentore è stato quasi naturale, attraverso uno dei ruoli che lo ha cristallizzato nel cult: il Ramirez di Highlander – L’ultimo immortale. Un Sir dandy e scapestrato, capace però di rappresentare una sorta di Obi-Wan per chi voleva davvero vivere in eterno cantando i Queen, cercando di non perdere la testa.
E sui nostri occhi resta fisso quel sorriso, che Sean Connery donava a ogni suo personaggio, come se riuscisse a cambiare pelle con estrema bravura senza mai perdere la sua identità. In ogni ruolo quello era Sean Connery, anche se lui ti faceva credere di non esserlo mai.
E poco importa che abbia chiuso la sua carriera con un film meno leggendario di quanto ci si aspettasse: dentro di noi i tamburi dell’Africa vibreranno sempre, e Sean Connery non vivrà solo due volte. Almeno un migliaio in più.

Che casino, ‘sti tamponi!

Già chiamarlo “hotspot” o “drive-in” è ridicolo, perchè è solo un capannone all’aperto in una piazza, il Foro Boario, di Carmagnola (Torino): è qui che l’ASL effettua i tamponi al Covid-19. Orario: 9-11 e 12-15, ma adesso fanno un massimo di 350 tamponi al giorno (“per analizzarli meglio”, dicono i soliti esperti). Di fatto, all’apertura dei cancelli alle 9, ci sono già 350 auto in coda, fin dalle 6 del mattino, altri addirittura dalle 4, qualcuno persino da tutta la notte, come se fosse un concerto di Vasco Rossi. E, quindi, scatta subito il cartello “Tamponi chiuso”…
Una signora, dopo 7 ore di coda, commenta: “Ma il problema poi è quanto tempo ci mettono a darmi l’esito. L’altra volta ci hanno messo più di una settimana e adesso che aspetto un tampone negativo ho paura che il datore di lavoro si stufi e mi licenzi”.
Tempi biblici? Ci vuole cosi tanto, in epoca di grandi tecnologie?
Un uomo aggiunge: “Mio figlio va a scuola e sono 20 giorni che aspetta l’esito”.
Un solerte addetto ci fa sapere che con 90 euro si possono fare i tamponi privatamente, in apposite strutture, ma pare che non valgano (allora perchè farli?) se si è stati segnalati dal medico o si è rientrati da un paese a rischio. Bisogna per forza passare dal “drive in”.
Quasi quasi, per non finire nel labirinto burocratico italiano, è meglio far finta di niente…
Complimenti vivissimi (si fa per dire, è ovvio) a chi – governo e Regioni, di ogni colore – ha messo in piedi questa disastrosa macchina organizzativa e fino all’altro giorno vantava l’Italia come modello da seguire.

Maradona: 60 anni di meraviglie, ribellioni e furori

di Darwin Pastorin
(Huffington Post)

Diego Armando Maradona compie 60 anni. Sono giorni di festa, di nostalgia e di nuove sfide per il Pibe, mai stanco – attraverso i social – di dare sfogo alle proprie tenerezze e ai propri furori: ricordando i compagni delle stagioni della gloria e ritornando ad attaccare i poteri forti, i padroni del football, i prepotenti della politica. Per niente facile, Dieguito: esagerato, polemico, ma mai reticente.

E sempre a testa alta.

Per molti, moltissimi è stato il più grande giocatore di tutti i tempi. Lo considero il mio Borges della pelota, così preso dai suoi universi paralleli, dai suoi labirinti, dalla sua passata, ma non perduta poesia. Ritornano i suoi gol memorabili, come in Messico nel 1986 contro l’Inghilterra: dalla Mano de Dios, così meravigliosamente beffarda, al gol più bello di sempre, con gli avversari, increduli e smarriti, saltati come birilli. Guardate e riguardate quell’azione: c’è tutto il genio di un calciatore unico e irripetibile.

Maradona è stato il campione che ha permesso a Napoli, città mondo, di diventare, anche nel calcio, un punto di riferimento internazionale, con più orgoglio e meno pregiudizio. Già, il Napoli: una squadra-simbolo, amata e rispettata da New York a Ouagadougou, da Helsinki a Seoul. Una compagine che divertiva e si divertiva, trascinata, tra dribbling irresistibili e punizioni impossibili, da quel numero dieci dall’umore inquieto e dal sorriso bambino, ora tempesta e ora raggio di sole.

Ho visto Diego giocare, compiere prodezze abbaglianti, perdersi e ritrovarsi. Amato e odiato, diventato un canto popolare e per i partenopei un inno alla felicità e al futuro. Tutto gli veniva perdonato: anche perché sapeva ricambiare quell’affetto immenso e struggente con i suoi colpi d’autore, le sue pennellate d’artista.

Non diventerà mai, Dieguito, triste solitario y final. E non cambierà mai, nel bene e nel male, nella consapevolezza e nelle tentazioni: lui, con il suo cuore ribelle e le sue passioni folgoranti. Mi disse, nei giorni di Siviglia: “Non credere mai alle storie che sentirai su di me. Sono diventato il bersaglio dei falsi perbenisti e moralisti, dei potenti del calcio. Le mie verità fanno male: tenteranno in tutti i modi di chiudermi la bocca, ma tu non dare retta. Tu, se vuoi, difendi l’onore di Diego Armando Maradona”.

60 anni, perennemente in prima pagina, venerato o detestato, sempre sotto i riflettori: ma incapace di recitare una parte, di vestire maschere. Felice compleanno, caro Diego: re del prato verde e della fantasia.