Come cambiano le parole: le novità dei “dizionari del Covid”

La pandemia di Covid-19 sta avendo un impatto notevole anche sullo sviluppo delle lingue in tutto il mondo.
Il primo ad adeguarsi è stato l’Oxford English Dictionary, che con due aggiornamenti straordinari – in aprile e in luglio 2920 ha pubblicato una serie di nuove parole ed espressioni, diventate ormai di uso comune nella lingua inglese.

Non da meno, in Italia, ha fatto lo Zingarelli, lo storico dizionario della lingua italiana edito da Zanichelli.

“La chiusura redazionale dello Zingarelli 2021, per la prima volta realizzata quasi completamente da remoto, è avvenuta in piena emergenza da Coronavirus”, spiega Andrea Zaninello, della redazione di Zanichelli.
“Nel corso dei decenni, il vocabolario ha raccontato la nostra storia attraverso le parole, ha scandito e registrato gli sviluppi dell’italiano e anche i mutamenti culturali e del costume; oggi racconta di un presente per vari aspetti drammatico, fatto di distanziamento sociale, di terapia intensiva, di ventilazione assistita, di sanificazione degli ambienti, di paziente zero, di DAD (didattica a distanza), e così via. Tutte parole che ormai ascoltiamo e ripetiamo ogni giorno, da mesi”.

Già in questa versione dello Zingarelli 2021 sono previste altre novità.
“Abbiamo inserito un nuovo significato del verbo tamponare (cioè: effettuare un tampone) e sigle legate all’attualità, come Covid-19 e Sars-CoV-2. Coronavirus, viceversa, era già presente, poiché indica il genere di virus”.

Ma si sta già guardando al futuro.
“Il prossimo anno, per lo Zingarelli 2022, le sigle Covid-19 e Sars-CoV-2 saranno inserite anche come lemmi e inseriremo l’ormai celebre neologismo “lockdown“, aggiunge Andrea Zaninello.

Anche un altro pezzo da novanta dei dizionari di lingua italiana, il “Devoto-Oli” (Mondadori Educational) – concepito da Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli nel 1967 – ha deciso di aggiornare il proprio dizionario 2021.
Isabella Di Nolfo, che si occupa delle pubbliche relazioni, scrive: “Fedele al suo ruolo di eccezionale testimone del nostro tempo e della nostra storia, il Nuovo Devoto-Oli nella sua edizione 2021 introduce i termini legati alla pandemia e all’emergenza sanitaria che stiamo vivendo e che ha colpito il mondo intero: Covid-19, lockdown, distanziamento sociale, spillover, droplet, autoquarantena, quarantenare, tamponare, termini che ogni italiano ha dovuto imparare a conoscere durante questo anno difficile e sospeso, ma anche termini più specifici come biocontenimento o cisgender“.

Nella versione inglese dell’Oxford English Dictionary, alcune parole e modi di dire in realtà già esistenti sono stati colpiti da improvvisa popolarità: come self-isolation (autoisolamento) e shelter in place (sinonimo di lockdown), ora integrati da descrizioni che ne spiegano l’uso corrente.

Stanno anche emergendo differenze locali; nel Regno Unito, per l’espressione “quarantena volontaria” si usa in effetti il termine self-isolation, mentre negli Stati Uniti si preferisce self-quarantine.

Alcune espressioni hanno persino cambiato significato. Sheltering in place, che prima indicava la ricerca di un riparo durante un evento circoscritto come un tornado o una sparatoria, ora si riferisce ad un periodo prolungato di isolamento sociale.

Con il loro tipico humour, i curatori inglesi non hanno resistito alla tentazione di aggiungere al loro Dictionary anche parole assolutamente nuove, “costruite” dalla fusione di altre parole: è il caso di maskne (l’acne causata dall’uso della mascherina), zoombombing (l’intrusione di sconosciuti in una videoconferenza) e covidiot (chi ignora le raccomandazionati per la sicurezza di tutti).

In tutta Europa, i principali editori di dizionari stanno mettendo a punto gli aggiornamenti “post-Covid” della loro lingua.
E questo, tutto sommato, è un effetto non negativo – diciamo cosi – della pandemia.

I funerali di mia sorella Susanna si svolgeranno mercoledi 14 ottobre alle ore 15 alla Chiesa parrocchiale di Sant’Agostino, paese in provincia di Ferrara.

Piccoli grandi eroi

di Riccardo Cestaro
Poco più di vent’anni fa, un gruppo di sconosciuti mise in ginocchio l’onore del calcio professionistico fatto di soldi, fama e infine di passione. Già la passione, questa sconosciuta che nel mondo del pallone non esiste quasi più. Ebbene fu così che il Calais Racing Union Football Club, squadra dilettantistica francese allenata dallo spagnolo Ladislas Lozano, decide di iscriversi alla Coppa di Francia 99/2000. Sì, perché a differenza della Coppa Italia, nello stato transalpino, anche i club non professionisti minori possono partecipare. Per vincere bisogna inanellare una sequela di ben 13 partite a eliminazione diretta. Sembra impossibile e invece il Calais si qualifica per i trentaduesimi di finale il 22 gennaio 2000. Da quel momento in poi ci sono le grosse squadre di prima e seconda divisione da affrontare, che equivalgono a serie A e B del calcio italiano. Ma contro ogni pronostico i ragazzi di Lozano, compiono un vero e proprio miracolo sportivo senza precedenti vincendo su tutto e tutti. Giocando in modo ottimale e mettendo in campo una tenacia e una determinazione da campioni, questi valorosi calciatori, entrarono a far parte della storia di quella coppa da protagonisti indimenticati. Prima il Lille superato ai rigori 7-6, poi il Langon-Castet nei tempi regolamentari per 3-0; e ancora il Cannes sempre ai rigori per 4-1, lo Strasburgo per 2-1 e infine il Bordeaux (la seconda squadra in carriera di Zidane) per 3-1 nei tempi supplementari. Una storica cavalcata di 12 vittorie su 13. Si arriva così alla finale del 7 maggio allo Stade de France di Parigi. Di fronte a circa ottantamila spettatori, dopo una gara combattuta fino all’ultimo, i calesiani purtroppo capitolarono per 2-1 a causa di un rigore più che dubbio. Il trofeo lo vinse il Nantes, ma la notizia era che una squadra di impiegati, giardinieri, con un presidente parrucchiere e un allenatore geometra, avevano dimostrato al mondo intero che nello sport c’è anche divertimento, fatica, spirito di squadra ma soprattutto lealtà. Al rientro dalla capitale, quella magica compagine, fu accolta da un bagno di folla che riempi la piazza del comune per accogliere trionfalmente i propri beniamini. È una vicenda che vale la pena di essere ricordata. È l’essenza del vero calcio. È la storia di piccoli grandi eroi!

Te la do io l’America!

di Riccardo Cestaro

Cosa spinge i grandi imprenditori stranieri a investire nel calcio italiano? Qual è la nuova visione di questi ultimi sul mondo del pallone? Che il sistema sia visto come un business non è certo una novità. Fino a qualche anno fa, il concetto di presidente appassionato che pur di non vendere era disposto a perdere denaro perché teneva alla società e a ciò che rappresentava era ancora presente. Vedi Moratti e Berlusconi negli ultimi anni della loro carriera a Inter e Milan per citare due nomi, ma ora tutto ciò rimane soltanto un ricordo. Si parla infatti di “franchising” del mondo del pallone quindi di magnati che rilevano grosse o piccole società, o per effettuare operazioni finanziare a breve termine, oppure considerando tali squadre vere e proprie attività industriali (asset). Questi ultimi sono molto sottovalutati in Italia, ecco perché nel nostro paese è possibile acquistare squadre con bilanci in ordine a cifre che non sarebbero nemmeno proponibili all’estero. Così si formano le cosiddette MCO (multiple club ownerships): più squadre possedute da un individuo o una singola società in campionati diversi. In poche parole, investire nel nostro paese conviene. Un classico esempio è sicuramente rappresentato da Paul Elliot possessore dell’omonimo fondo che detiene il 99,7% del A.C. Milan con un patrimonio economico che si aggira attorno ai 3,2 miliardi di dollari. Oppure altri casi noti sono quelli di Dan Friedkin neo presidente della Roma, di Joey Saputo a capo del Bologna e di Rocco Commisso che detiene la presidenza della Fiorentina e dei New York Cosmos, rispettivamente con capitali di 4.1, 5 e 9 miliardi di dollari. Senza contare del predecessore di Friedkin, James Pallotta con addirittura 10 miliardi di dollari di ricchezza. Una vera e propria colonizzazione di uomini d’affari americani, che probabilmente continueranno e svilupperanno questa politica. Insomma scordiamoci per sempre l’acquisto per amore della società. Ma allora perché le loro squadre non hanno importanti fatturati e non possono vantare prestazioni di livello con titoli annessi? Se l’obbiettivo è la valorizzazione della squadra, per quale ragione il Bologna non è il Manchester City d’Italia per fare un appunto? E ancora… Quale sarà il futuro dei nostri campionati? Che cosa manca alle squadre italiane per eccellere in Europa? Su questi e su molti altri interrogativi bisogna riflettere e non è semplice dare una risposta.

Dan Friedkin, l’ultimo boss “Made in USA” arrivato nel calcio italiano.

Il trionfo dell’umanità

di Riccardo Cestaro

In un periodo in cui lo sport è diventato sempre più agonistico e soltanto il risultato è ciò che conta, esistono ancora piccoli e grandi gesti di solidarietà sportiva fra gli atleti. Un paio gli episodi degni di nota sono infatti accaduti recentemente. Il primo risale all’11 dicembre 2017 e ha come protagoniste Chandler Self e Ariana Luterman, due studentesse partecipanti alla maratona di Dallas. La prima è stata la vincitrice anche grazie all’aiuto della seconda classificata, che a 500 m dall’arrivo invece di superarla, l’ha aiutata sorreggendola e spingendola in avanti per tagliare il traguardo. Un gesto spontaneo di grande sportività, quando Ariana si è accorta del collasso della sua avversaria, altrimenti incapace di portare a termine la gara.
Più curioso e singolare il secondo episodio accaduto il 3 gennaio 2018 in Scozia durante la partita di Championship scozzese tra Greenock Morton e St. Mirren, nella quale il terzino ospite Steios Demetriou, viene colpito da una barretta di cioccolato poco prima di eseguire una rimessa laterale. Civile e da applausi la reazione del difensore che, dopo un primo momento di stizza, risponde alla maleducazione dei tifosi avversari, raccogliendo e mangiando la barretta incriminata per poi riprendere il gioco. Una “dolce” conclusione che fa da monito a ciò che dovrebbe succedere quando si verificano eventi simili e da cui dovrebbero prendere esempio molti suoi colleghi sui campi di calcio. Troppe volte si sono viste reazioni esagerate o comportamenti antisportivi e disdicevoli. Al giorno d’oggi si presta forse troppa attenzione all’aspetto prettamente competitivo della prestazione sportiva, nella quale bisogna sempre e comunque surclassare l’avversario risultando vincenti. Fortunatamente ci pensano piccoli grandi atleti come questi a sottolineare valori che spesso vengono dimenticati, perciò bisognerebbe dare maggior risalto a queste notizie.

Il nostro idolo mentre addenta il Bounty piovuto dagli spalti.

 

Al Castello di Agliè è andata cosi…

Famoso per essere stato la location della fiction “Elisa di Rivambrosa”, il Castello Ducale di Agliè (Torino) ha ospitato anche i nostri Fruttero&Lucentini dei poveri, alias Tasso&Papus. Ce la siamo cavata bene, abbiamo presentato il nostro libro “Pesci Grossi”, ci siamo divertiti, abbiamo conosciuto persone simpatiche e interessanti…va bene cosi!!!

Rosa Parks, icona dei diritti degli afroamericani: la sua casa rivive al Palazzo Reale di Napoli

La casa di Detroit in cui Rosa Parks si è rifugiata dopo aver ricevuto minacce di morte al processo per il suo famoso “No” sull’autobus è stata ricostruita come progetto artistico a Napoli.

La sua ricostruzione ha spinto chi conosce la storia di Rosa Parks (1913-2005) a riflettere sulla sua eredità sociale, in un momento in cui le tensioni razziali aumentano. negli Stati Uniti e altrove.

Rosa Parks ha vissuto in quella casa di Detroit per poco tempo dopo il suo atto di sfida del 1° dicembre 1955.
Rosa ha 42 anni, fa la sarta e ha la pelle nera.
Questa volta si rifiuta di cedere il suo posto sull’autobus 2857 ad un passeggero bianco, come imponeva allora la legge.

Accadde a Montgomery, in Alabama.
Per Rosa Parks scattarono addirittura le manette.

Da lì, da quel gesto così significativo, da quel “No” così potente, il mondo cambiò

Il rifiuto degli afro-americani di salire sugli autobus urbani che ne seguì – e che durò un anno – è considerato la prima grande manifestazione americana contro la segregazione razziale.

Da quel giorno, anche Martin Luther King iniziò a mettere in atto la sua filosofia di azione sociale diretta e non violenta.

Al centro dell’imponente cortile centrale del Palazzo Reale di Napoli si trova una fatiscente casa di Detroit, dipinta a schegge.

Il suo significato? È il luogo dove visse Rosa Parks, simbolo della lotta per i diritti civili degli afroamericani.

È l’ultima tappa di una saga davvero familiare lunga anni, iniziata quando la nipote di Rosa Parks ha salvato la minuscola casa a due piani di Detroit dalla demolizione, dopo la crisi finanziaria del 2008.

La nipote di Rosa ha donato la casa ad un artista americano, Ryan Mendoza, che l’ha ricostruita per un’esposizione pubblica in Germania, e ora in Italia, dopo non aver trovato un luogo di esposizione permanente negli Stati Uniti.

“I membri della famiglia di Rosa Parks sono venuti da me e mi hanno chiesto di salvare la casa in cui Rosa viveva nel 1957”, spiega l’artista Ryan Mendoza.

“Era una casa sulla lista delle demolizioni, una casa che il governo americano era pronto a demolire. E la famiglia Parks ha pagato 500 dollari per salvare la casa dalla demolizione, e – dopo aver chiesto a 25 diverse istituzioni – mi hanno chiesto se sarei stato disposto ad aiutare a salvare la casa. E io, naturalmente, ho detto sì”.

La famiglia ricorda che Rosa Parks, morta nel 2005, aveva vissuto in quella casa di Detroit insieme ad altri 17 parenti.

Ryan Mendoza ha condotto una campagna di sensibilizzazione di oltre cinque anni per richiamare l’attenzione sul valore storico della casa.

“Questa casa racconta davvero la storia del perché la gente in America è così arrabbiata”, dice l’artista.

“È la memoria di quello che diremo ai nostri figli. Come considereremo la memoria e la storia? Questa casa è stata considerata spazzatura dal governo americano. È questo il modo in cui vogliamo andare avanti?”

La Fondazione Morra Greco di Napoli ha contribuito all’organizzazione della mostra “Almost Home” – in programma fino al 6 gennaio 2021 -, con il sostegno del Ministero della Cultura italiano e della Regione Campania.

Maurizio Morra Greco, presidente della Fondazione Morra Greco, afferma che la casa è un indelebile simbolo di ingiustizia razziale.

Sono convinto che, in questo momento, Napoli abbia l’opportunità di contribuire a questo fenomeno di integrazione. Credo che esporre qui quest’opera sia un dono, ma è anche un onere, perché ci obbliga necessariamente a riflettere“, aggiunge Morra Greco.

L’esposizione è accompagnata da una colonna sonora che si ripete, intitolata “8:46“, e che dura esattamente 8 minuti e 46 secondi.

È il “tempo della morte” di George Floyd, ucciso da agenti di polizia bianchi a Minneapolis, il 25 maggio 2020, tragico episodio che ha alimentato il movimento Black Lives Matter e le proteste in tutti gli Stati Uniti.
E in tutto il mondo.

Non è chi ama a dover cambiare. E’ chi odia

di Emiliano Rubbi

Vi confesso una cosa: mentre leggevo quello che è successo a Caivano, non riuscivo a togliermi un pensiero orrendo dalla testa, un pensiero di cui mi vergogno moltissimo: “speriamo che mio figlio, quando crescerà, sia eterosessuale”.

Ovviamente a me non cambierebbe assolutamente nulla se da grande amasse un uomo o una donna, o se sentisse di essere uomo o donna, ma per il mondo che ci circonda, a quanto pare, cambierebbe ancora moltissimo.
E l’ultima cosa che vorrei è che dovesse vivere una vita filtrata dallo stigma sociale, dall’odio immotivato, dalle risatine di scherno delle persone quando si allontana.

L’omosessualità, la bisessualità, la transessualità, per la nostra società sono ancora dei tabù.
E sono gli unici tabù basati non su motivazioni somatiche, etniche, culturali, ma sulla libera scelta delle persone di vivere liberamente la propria vita, la propria sessualità, i propri sentimenti.

Ti odiano perché ami qualcuno, in pratica.

E mi vergogno da morire, ma quando ho letto dell’omicidio di Maria Paola da parte del fratello ho pensato che, se potessi scegliere, vorrei evitare di far vivere anche questa difficoltà a mio figlio.
Vorrei evitargli una esistenza più difficile.
Come vorrei evitargli qualsiasi problema nella vita.

Ma essere omosessuali, bisessuali, transessuali, non è un problema.
È quello che sei.
È come avere gli occhi azzurri o gli occhi marroni, o la pelle bianca o nera.

Solo che nessuno, oggi, ti uccide se hai gli occhi azzurri o marroni, invece se hai troppa melanina per i loro gusti te la rischi, come se ami Ciro.

Allora ho pensato: meno male che mio figlio è bianco, almeno non lo picchieranno per quello.
E non è neanche nato in una famiglia ebrea, per fortuna.
Non è nemmeno una donna.

A questo punto speriamo solo che non sia gay, bisessuale, trans.
O che non decida di diventare musulmano.

Cazzo, non avevo pensato che potrebbe anche scegliere di diventare musulmano.
Lo odierebbero anche per quello, lo guarderebbero male anche per quello, lo discriminerebbero anche per quello.
E se fosse gay e musulmano?

Così, mentre questo turbinio di dubbi su come evitare a mio figlio di incorrere nelle discriminazioni dei nazisti dell’Illinois mi stava attraversando la testa, ho realizzato che l’errore più grande lo stavo facendo io.

Stavo considerando l’essere gay, bisessuale o transessuale una sorta di handicap, un “punto a sfavore”.
Non per me, d’accordo, ma per la società.
Ma non è chi ama a dover cambiare, è chi odia.

Non sono io a dover sperare che mio figlio ami “chi gli porta meno problemi”, perché sarebbero quelli che lo discriminano ad avere un problema, non lui.

Allora ho pensato che, in realtà, l’unica cosa che spero davvero è che mio figlio non diventi mai un intollerante.
Non diventi mai uno che odia.
Non diventi mai un omofobo, un razzista, un fascista.

Per il resto, spero che ami.
Chi vuole e come vuole.
Spero solo che ami tantissimo.

Maria Paola Gaglione, speronata e uccisa dal fratello, che non accettava la sua relazione con un trans.