“Lola”, il diritto di amare

“Lola” sta sbancando nei festival internazionali LGBT, in attesa di conoscere il meritato successo anche commerciale, magari grazie a piattaforme come Amazon e con una futura distribuzione cinematografica.

Ê già uno straordinario risultato per il cortometraggio (20 minuti di durata) girato dalla regista italiana Francesca Tasini con un budget molto ridotto, ma con un’altissima qualità interpretativa, per una storia delicata di adozioni nel mondo LGBT, ma non solo.

La storia di Lola (interpretata dall’attrice italo-svizzera transgender Christina Andrea Rosamilia) – ispirata ad una storia vera – è trattata con il necessario riguardo.

Lola è una donna transgender, che vive stabilmente in coppia con il compagno, insieme al quale decide consapevolmente di intraprendere il percorso dell’adozione di un bambino.
Un percorso che si paleserà pieno di ostacoli (tanti, davvero troppi!) per realizzare il sogno di Lola di essere madre.

“Il tema dominante del film è quello delle adozioni, che mi sta particolarmente a cuore”, spiega la regista Francesca Tasini, 41 anni, attrice e pedagogista originaria della provincia di Bologna, ma che da tempo vive a Berlino.

“Poi è una storia sui diritti LGBT, anche in materia di adozioni. E sul tema dell’inclusione”, spiega la regista.

Una scena cruciale del film – girato in una Berlino underground – è quella dell’assistente sociale che, pur volendo aiutare Lola, ammette: “Certo è veramente insolito dare un bambino ad una persona transessuale”.
Una frase-choc, una frase-simbolo delle mille difficoltà a cui andrà incontro Lola.

“È un film che deve far riflettere sul mondo delle adozioni”, continua Francesca Tasini, “perchè in un mondo come quello di oggi, con tutta la crisi che c’è e tutti i bambini orfani che ci sono nel mondo, non è possibile che una coppia non riesca ad ottenere in maniera semplice la possibilità di adottare un bambino. Credo che sia necessario ridiscutere tutto il nostro sistema familiare”.

Prodotto dalla casa di produzione Art-Aia La Dolce di Berlin di Francesca Tasini e Giovanni Morassutti – insieme a Anie Gombos, Luigi De Vecchi e Mauro Paglialonga – il film si è “costruito” da sè, con un low budget da 22.000 euro, “di cui ne abbiamo spesi 5.000”, afferma la regista.

Oltre alla gloria, un contributo alla produzione arriverà dai premi che il film conquisterà nei numerosi festival – sette – a cui ha già partecipato e a cui è in concorso, in Italia (il Festival dell’Isola d’Elba, ad esempio, che si svolgerà a metà settembre, poi ci sarà quello di Roma) e nel resto del mondo, come il prestigioso LGBT Festival di Los Angeles.

“Non mi aspettavo un simile successo, non mi aspettavo tutta questa attenzione attorno al film. E, naturalmente, mi fa piacere”, aggiunge Francesca Tasini.

“E non solo per la tematica LGBT. Del resto, io non faccio parte di questo mondo, ma anche chi non ne fa parte deve interessarsi ai diritti LGBT. Io voglio raccontare le storie che vanno raccontate, senza filtri nè barriere, con la mia visione femminile.”.

Christina Andrea Rosamilia, attrice italo-svizzera di Bellinzona, residente da tre anni a Londra, è l’interprete di Lola.

“È sicuramente un ruolo molto interessante. Appena ho letto il copione, mi sono detta: deve essere mio! Questo perchè il film parla di tematiche delicate, ma al tempo stesso profonde. Tematiche che, troppo spesso, vengono trattate in maniera superficiale o svendute ad un pubblico curioso che ama la morbosità.
Sulla transessualità si è detto, scritto e mostrato molto, forse troppo, ma in maniera azzardata e quasi sempre in chiave negativa. Si è solito pensare ai transessuali come delle vittime, relegati alla prostituzione, a soprusi o soggetti ad angherie di ogni sorta. Li si vede come dei vinti e quasi mai come dei vincitori. Quando non è sempre il caso!

“Il film è talmente ricco di argomenti delicati, come la transessualità, l’adozione per le persone transgender, l’amore, la rinuncia, la maternità…
Come non innamorarsi di un copione cosi bello?”

          Christina Andrea Rosamilia
          Attrice di “Lola”

“Mi sembra giusto che una persona transgender possa adottare”, riprende Christina Andrea Rosemilia, “perchè la famiglia non è per forza quella biologica, ma un posto dove stai bene, dove ricevi amore. Ci sono cosi tanti bambini che aspettano di trovare il loro focolare: perchè proibire una cosa simile? In Lola, il mio personaggio, c’è molto di me stessa, come in ogni personaggio che interpreto. Ci metto i miei sogni, la personalità, i desideri, ma soprattutto le ferite. Un vero attore usa le proprie ferite e le msotra, senza vergognarsene, se ne veste e brilla di verità. Ci sono molti silenzi nella vita di un attore…”.

“C’è molto di me in Lola, ma anche molta ricerca, c’è rispetto, c’è curiosità, c’è speranza”, conclude l’attrice. “La speranza di cambiare le cose, di cambiare le prospettive del transessualismo.”

Il coraggio dei giornalisti in Bielorussia

Ce ne vuole di coraggio ad essere giornalisti in Bielorussia…
Dopo la rielezione del presidente-dittatore Alexander Lukashenko – lo “Zar di Minsk”, in carica da 26 anni ininterrottamente – è iniziata la caccia agli oppositori del regime e ai giornalisti curiosi. Il più curioso di tutti, in senso buono, è “Nexta”, un giornalista-blogger che, attraverso una capillare rete di collaboratori, sui canali Telegram e Twitter, sta testimoniando in tempo reale quello che sta avvenendo per le strade di Minsk, la protesta popolare, la maggioranza silenziosa e la dura repressione della polizia.

Ora “Nexta” – al secolo Stepan Svetlov, punta di diamante del canale di informazione – vive al riparo in Polonia, ma il suo nome continua a girare, grazie al suo staff, sempre in primissima linea. “A parte noi, non ci sono quasi più mezzi di informazione in Bielorussia. Ma proprio oggi ho ricevuta la notizia che è stato aperto un procedimento penale nei miei confronti e rischio persino 15 anni di prigione, solo per il semplice fatto di aver ripreso avvenimenti e diffuso informazioni”.
Ma nella Bielorussia di oggi, è vietato farlo.

Abbiamo parlato anche con il caporedattore di Nexta, Roman Protasevich.

Il suo canale ha sede in Polonia, impiega meno di 10 persone e potrebbe diventare il secondo media più popolare in Bielorussia, dietro solo Tut.by, un portale di informazione online in russo.

Come funziona Nexta?

Il nostro canale si chiama “Nekhta”. Significa “qualcuno” in bielorusso. Questa è la nostra caratteristica. “Telegram” è una piattaforma anonima, trasferiamo qui le informazioni in maniera sicura. Ci sono migliaia di bielorussi che vi condividono segnalazioni o ce le inviano, quindi in Nexta viene raccontato tutto il paese. Storie che devono essere ascoltate, che non saranno mai trasmesse dalla televisione bielorussa o dai media bielorussi ufficiali.

La tua squadra è composta da giornalisti professionisti. Come controllate e verificate le informazioni?

Tutto dipende dallo specifico feed di notizie. In ciascuna delle aree abbiamo le nostre persone, fonti fidate, con le quali comunichiamo da molto tempo. Forniscono informazioni sempre accurate al 100% e ci inviano documentazione interna da vari dipartimenti, comprese le forze di sicurezza.

Per quanto riguarda le proteste di massa, in primo luogo, osserviamo la situazione perché riceviamo centinaia, a volte migliaia di messaggi all’ora. Riusciamo a ottenere un quadro completo e vediamo immediatamente dove qualcosa corrisponde alla realtà, e dove ci sono evidenti provocazioni, esagerazioni o disinformazioni – anche dal lato dei servizi speciali, che ci bombardano di messaggi abbastanza regolarmente.

Cerchiamo di effettuare una verifica incrociata. Se più persone chiaramente non legate tra loro ci scrivono e ci dicono la stessa cosa, allora in linea di principio comprendiamo che questa informazione può essere considerata verificata. Già, perché naturalmente non possiamo ricevere alcuna conferma dai funzionari.

Vi considerate un media o semplicemente un canale Telegram?

Direi che Nexta è il media decentralizzato del 21° secolo. Usiamo diversi siti, non abbiamo un sito centrale di riferimento. Abbiamo diversi canali per adattarci alle esigenze delle persone: Messenger, YouTube. La pratica dimostra che è davvero richiesto [questo tipo di approccio]. Sono proprio i formati così brevi dei messaggi Telegram che consentono di trasmettere tutte le informazioni nel modo più rapido, chiaro ed efficiente possibile.

Per una persona è tutto letteralmente in un clic: non è necessario andare su nessun altro sito, puoi leggere le notizie e i messaggi degli amici allo stesso tempo. Grazie a questa struttura, le notizie viaggiano molto più velocemente.

Perché siete così popolari in Bielorussia?

Abbiamo molte informazioni esclusive, molte fonti governative, molti documenti di alcune piccole agenzie pubbliche o imprese. Abbiamo anche molti documenti e informazioni riservate di alti funzionari, dell’amministrazione presidenziale e delle forze di sicurezza.

Le persone sanno per certo che entreranno e leggeranno ciò che non verrà detto loro da nessun’altra parte – semplicemente perché, se è scritto da media indipendenti situati in Bielorussia, questi inizieranno ad avere pressioni dei servizi speciali, avvertimenti o saranno a rischio chiusura.

Non hai paura per i tuoi informatori e dipendenti?

Non ci sono stati (o quasi) casi in cui le persone hanno avuto problemi seri, tranne in un paio di occasioni. Ci sono stati alcuni casi in cui i nostri informatori sono stati effettivamente scoperti, ma a causa della ristrettezza del loro settore.

Nelle forze dell’ordine si è arrivati ​​al punto in cui i dipendenti sono stati controllati con la forza. Coloro che non hanno superato il controllo sono stati puniti per aver diffuso qualche tipo di informazione ufficiale.

Eravete preparati al fatto che Internet venisse disattivato in tutto il paese? Come avete lavorato in questo periodo?

La cosa buona di Telegram è che si tratta dell’unica piattaforma che ha funzionato, in qualche modo. Lentamente, nessun caricamento multimediale, ma in qualche modo ha funzionato. La maggior parte delle persone in Bielorussia ha visto solo la versione testuale, ma almeno in questo modo è riuscita a ricevere informazioni su ciò che stava accadendo.

Abbiamo anche un gran numero di abbonati dall’estero, per i quali tutto funziona alla grande. Hanno diffuso le notizie in tutto il mondo, è fantastico, anche perché anche la maggior parte dei siti web del governo in Bielorussia non funziona ancora. Al momento, non si può nemmeno visitare il sito web della Commissione elettorale centrale bielorussa.

Questa è la bellezza del nuovo formato multimediale: quando non esiste un sito centralizzato, è impossibile in qualche modo bloccarlo o vietarlo. Tutti vi hanno accesso in maniera incondizionata.

Avete suggerito ai vostri follower come aggirare il blocco?

Sì, abbiamo consigliato attivamente ai nostri abbonati di utilizzare un proxy, utilizzare una VPN, utilizzare Tor e altri metodi per aggirare il blocco totale di Internet. Ma i server proxy erano così richiesti che gli indirizzi che abbiamo fornito sono risultati immediatamente “inattivi” per via di un sovraccarico.

Pertanto, abbiamo cercato di fare più informazione, attrarre sviluppatori, persone altruiste che ci hanno aiutato con i server proxy, aumentando la larghezza di banda. Alcune aziende li hanno persino lanciati in aggiunta, inviandoci i collegamenti. Abbiamo cercato di fare del nostro meglio per garantire che ogni bielorusso avesse accesso incondizionato alle informazioni.

Considerate la vostra una missione?

Facciamo ciò che nessun altro può fare al momento: diciamo in modo assolutamente onesto e aperto ai bielorussi cosa sta realmente accadendo, fornendo informazioni senza alcuna censura.

In termini di leggibilità e numero di lettori unici, siamo già diventati il ​​secondo media in Bielorussia. Penso che questo sia l’indicatore più eclatante della domanda, i numeri parlano da soli.

Vi considerate portavoce dell’opposizione?

In Bielorussia, il concetto di opposizione è vago. Non abbiamo solo canali di notizie, abbiamo un gran numero di chat, anche in regioni con 100mila persone. Facciamo solo da portavoce dell’umore delle persone: ci limitiamo a trasmettere quello che dicono.

Sì, è possibile che ciò che pubblichiamo possa somigliare ad un appello, ma in realtà è solo una trasmissione di ciò che sta accadendo. In una certa misura, siamo portavoce che raccontano informazioni più ampie e dettagliate su ciò che sta accadendo e su ciò che le persone vogliono davvero.

Come andrà a finire? Auguriamo ogni bene e ogni libertà a “Nexta” e, ovviamente, al popolo bielorusso.

Un’altra storia che viene dalla Bielorussia è quella del giornalista freelance italiano Claudio Locatelli.
Sessanta ore da incubo, prima di essere liberato da un centro di detenzione di Minsk, mentre in città infuriavano le proteste esplose dopo la contestata rielezione di Lukashenko.

 Personaggio incredibilmente poliedrico, che divide il suo tempo tra l’attività sportiva agonistica e il reportage giornalistico sul campo, Locatelli è divenuto famoso in Italia qualche anno fa, quando – insieme ad altri volontari di tutto il mondo – è partito per il nord della Siria, dove ha imbracciato le armi per partecipare, tra le fila dei combattenti curdi, alla liberazione di Raqqa occupata dallo Stato Islamico.

A Minsk, però, Claudio non ci era andato come giornalista. “Ero lì per partecipare alla Bison race, una competizione internazionale di corsa a ostacoli estrema che si è tenuta proprio in concomitanza con le elezioni. Ma proprio non immaginavo che sarebbe finita così”.

L’incubo, per Locatelli, inizia alla mezzanotte di domenica. “Tornavamo da un ristorante, dove avevo cenato con gli altri ragazzi della squadra. C’era moltissima tensione in città, la polizia aveva piazzato posti di blocco su tutto l’anello esterno della circonvallazione di Minsk”.

“Arrivato nei pressi del mio alloggio, dalle parti della stazione centrale, mi sono trovato in una strada totalmente barricata dai cordoni della polizia, mentre in lontananza si udiva un gran frastuono per via degli scontri e delle manifestazoni“.

“Mi sono fermato a parlare con dei ragazzi che erano al lato del marciapiede” continua. “Non erano nemmeno manifestanti, ma proprio in quel momento sono stati caricati dagli agenti antisommossa”.

Questo primo incontro con le forze dell’ordine sembra risolversi bene: “ho gridato che ero un giornalista italiano, e a quel punto mi hanno lasciato perdere, intimandomi di spostarmi verso un altra zona della strada”. Locatelli però non fa neanche in tempo ad eseguire, che già si trova di fronte a un altro gruppo di agenti: “loro avevano visto tutta la scena – spiega – e sono rimasti a guardarmi mentre filmavo un po’ con il cellulare. Finché, dopo una decina di minuti, mi hanno caricato“.

A quel punto Locatelli si ritrova addosso una quindicina di uomini. “La prima cosa che hanno fatto è stata strapparmi il cellulare di mano” ricorda. “Dopodiché hanno iniziato a picchiarmi sulle gambe per farmi andare a terra, e subito dopo mi hanno spruzzato in faccia una quantità spropositata di spray al peperoncino, che ho finito per respirare a pieni polmoni, predendomi un’intossicazione durata fino al mattino dopo”.

Claudio Locatelli, che per tutto il tempo continua a ripetere di essere un giornalista, si ritrova quindi ammanettato su una camionetta, diretto verso una stazione di polizia che al rilascio scoprirà essere una di quelle “in cui sono avvenute le peggiori torture in questa ondata di proteste”.

“Quando sono arrivato ero totalmente accecato e in preda alla nausea per lo spray” racconta. “Subito è stato comunicato agli agenti sul posto che ero uno straniero, e probabilmente per questo non mi è stata fatta troppa violenza. Ma il caos in quel posto era totale. C’erano gruppi di bielorussi che arrivavano con i polsi ammanettati dietro la schiena, e gli agenti li costringevano a marciare così veloce che alcuni andavano a sbattere contro altre guardie”.

“Poi – continua – mi hanno messo faccia al muro su un corridoio enorme, che attraversava un gruppo di celle. C’era un agente che continuava a darci ordini: quando ho provato a spiegargli che il mio russo non era molto buono, mi ha sbattuto la faccia contro la parete“.

La cella

Locatelli viene quindi condotto in una cella di 4 metri per 4 – “con una latrina fetida e un lavandino rattoppato con uno straccio lercio” – che nei giorni successivi ha continuato a riempirsi all’inverosimile. “Eravamo tutti stranieri lì dentro” spiega. “Oltre a me c’erano due giornalisti russi che, grazie a una telecamera go-pro sfuggita alle perquisizioni, sono riusciti a girare delle immagini. Gli altri però erano tutti comuni cittadini”.

Tra questi ultimi, oltre a un ragazzo turcomanno, c’era Tanguy Darbellai, un atleta svizzero piuttosto conosciuto in patria. “C’era inoltre un osservatore elettorale moldavo – spiega Claudio – che era addirittura stato invitato dall’amministrazione di Lukasenko: il che dimostra quanto casuali fossero gli arresti di domenica notte. L’obiettivo era spargere il terrore”.

Fame e torture psicologiche

Nei giorni successivi, la cella di Claudio Locatelli continua a riempirsi di cittadini stranieri.

“Alle fine – spiega – eravamo in 19, tutti stranieri a eccezione di una ragazza bielorussa terrorizzata. Gli ultimi quattro, tra i quali un cittadino polacco di cui l’ambasciata sta ancora cercando notizie, sono stati portati in cella completamente nudi.

Sdraiarsi per dormire, secondo Locatelli, era impossibile: “e oltre a questo – precisa – per sessanta ore nessuno ha avuto nulla da mangiare. Le guardie continuavano a chiederci se volessimo del cibo, ma presto è diventato chiaro che si trattava di una subdola forma di tortura”.

“Nella prima giornata – continua – ho vomitato quattro volte per via dell’intossicazione da spray urticante: alla fine, mi hanno mandato un infermiere che, attraverso le sbarre, mi ha misurato la pressione ed è andato via come nulla fosse”.

Il peggio, però, accade altrove. “Dalle altre celle arrivavano tonfi e urla disumane a ritmo costante, tanto che alla fine erano diventate una sorta di sottofondo. Nel corridoio intanto continuavano ad ammucchiarsi effetti personali, con centinaia di cellulari che continuavano a squillare a vuoto”.

Uno di quei telefoni apparteneva proprio a Locatelli: ed è con quello, prima dell’ultima perquisizione – avvenuta all’alba di lunedì – che appena entrato in cella era riuscito ad allertare l’ambasciata italiana.

La liberazione

“Avevo quasi perso le speranze e la cognizione del tempo – racconta – quando, mercoledì, il personale diplomatico è arrivato a prendermi. Hanno svolto un lavoro ottimo e molto delicato, perché erano almeno dieci anni che il nostro paese non si trovava in una situazione del genere con la Bielorussia”.

All’uscita dal centro di detenzione, Locatelli trova una folla di manifestanti e cittadini che intonano slogan e chiedono notizie dei loro parenti scomparsi. “A quel punto – spiega – il personale d’ambasciata ha voluto allontanarsi a tutto gas, perché dicevano che, se in quel momento fossero scoppiati dei disordini, avrebbero potuto riportarmi dentro come sobillatore”.

Anche una volta arrivati nei locali dell’ambasciata, a Claudio viene sconsigliato di uscire perfino per mangiare. “Erano convinti che avrebbero cercato di arrestarmi nuovamente. In questo momento c’è il caos nelle strade di Minsk”.

Dopo sessanta ore nelle mani della polizia militare bielorussa, in un paese così duro e repressivo da essersi meritato il soprannome di “ultima dittatura d’Europa”, Claudio Locatelli appare provato e incredulo.

“Nemmeno al fronte contro lo Stato islamico – ammette – avevo passato delle ore così incerte, angoscianti e surreali”.

Grazie, Atalanta!

Vinceva 1 a 0 al 90°: ha perso 2 a 1 contro una delle più forti squadre d’Europa e più ricche squadre del Mondo! Grazie lo stesso Atalanta! Non potevi umanamente fare di più. Sei riuscita nell’impresa di unire buona parte di un’Italia che il calcio troppo spesso divide. Grande orgoglio, tanta stima!

Bergamo meritava un sorriso.

Wout van Aert: è nata una stella?

E’ nata una stella?
Sarà il tempo a confermarcelo, ma intanto questo inizio di stagione – in agosto! – del ciclismo mondiale è sotto il segno di Wout van Aert.
25 anni, belga fiammingo, tre volte campione del mondo di ciclocross (2016-2017-2018): adesso ha sfondato anche su strada. In una settimana: primo alle “Strade Bianche”, terzo alla Milano-Torino, primo alla Milano-Sanremo. Due vittorie, le stesse di Julian Alaphilippe, l’anno scorso: proprio il francese ha battuto, di una mezza ruota, forse meno, all’arrivo di via Roma…
Una rivelazione, van Aert, soprattutto per chi se lo ricorda l’anno scorso protagonista di una brutta caduta al Tour de France, che avrebbe potuto costargli caro dal punto di vista psicologico. E non solo. Una ferita alla gamba di quasi 30 centimetri, la paura di non avere più coraggio e poi il ricorso ad un mental coach che sembra aver rigenerato il talento innato del giovane belga, aggiungendogli una vena di “follia creativa” ciclistica in più.

Faccia da bravo ragazzo, a gennaio diventerà papà, appassionato di vini italiani (“alle Strade Bianche ho festeggiato con il Brunello, dopo la Sanremo con il Barbaresco”), Wout van Aert potrebbe essere il nuovo uomo copertina di un ciclismo che ha sempre bisogno di un nuovi eroi contemporanei.
“I miei limiti? Non li conosco neppure io. I miei obiettivi? La Roubaix e il Fiandre?”.
E anche se, strafelice della vittoria alla Sanremo, si è lasciato scappare pure un “Adesso potrei pure ritirarmi”, a testimonianza dell’importanza della Classica di Primavera, seppur vinta in agosto…

Wout van Aert sarà anche al Tour de France, come luogotenente di lusso dei suoi tre capitani della Jumbo-Visma,  Dumoulin, Roglic e Kruijswijk. “Possiamo farcela a vincere il Tour”, dice.
E se facesse come Alaphilippe? Se diventasse anche lui, come il francese l’anno scorso, la mina vagante della corsa gialla?

“Mi sa che devo ancora migliorare parecchio in salita”, confessa il giovane Wout, con un sorriso soddisfatto e che promette sorprese.

Belgium’s Wout Van Aert celebrates on the podium after winning the Milan to Sanremo cycling race, in San Remo, Italy, Saturday, Aug. 8, 2020. (Gian Mattia D’Alberto/LaPresse via AP)

Andrea Pirlo, “l’allenatore fatto in casa”

 Rivoluzione Juventus in poche ore.

Accade tutto in un sabato pomeriggio di agosto: Maurizio Sarri non è piu l’allenatore dei bianconeri. Paga a caro prezzo l’inaspettata e clamorosa eliminazione agli ottavi di finale di Champions League della Juventus, che pur battendo 2-1 il Lione non riesce a qualificarsi per la Final Eight di Lisbona.

A quel punto, il presidente Andrea Agnelli rompe gli indugi e strappa il contratto di Sarri.

D’obbligo e di facciata i ringraziamenti, anche per la conquista dello scudetto firmato Sarri, il nono consecutivo della Juventus, al culmine – come ricorda il comunicato ufficiale del club – di una grande ascesa professionale del tecnico toscano.

E in poche ore cambia tutto, segno che la Juventus ci stava gia pensando.
Il nuovo allenatore – forse con il consiglio di Cristiano Ronaldo – è **Andrea Pirlo, 41 anni, campione del mondo plurititolato con Milan e Juve, ma alla primissima esperienza da allenatore, nemmeno nell’Under 23, a cui era destinato,

Contratto biennale, da 1.8 milioni di euro a stagione.

Una scelta coraggiosa, “alla Guardiola”, l’allenatore fatto in casa, si direbbe: che qualche volta funziona e qualche volta no.

Ma per la Juve è davvero una clamorosa svolta.

 

Conto alla rovescia per la “Nuova Scuola”

C’è ancora molto da fare, in vista della riapertura delle scuole, prevista per il 14 settembre. 

Tra l’altro, appena una settimana dopo, sono previste le elezioni-referendum del 20-21 settembre e le scuole rischierebbero subito un primo stop. La ministra Azzolina spinge perchè invece non si perde nemmeno un giorno di scuola. E parecchi sindaci si stanno già impegnando per spostare i seggi fuori dalle scuole, in altri spazi.

E a proposito di spazi…

Sono circa 20.000 le aule che dovranno essere allestite in spazi alternativi rispetto ai tradizionali edifici scolastici.
Per oltre il 50% non sono ancora stati trovati gli spazi idonei.

Le difficoltà a reperire spazi sono diverse da regione a regione, ma si registrano maggiormente nelle grandi città, come Roma.
E’ quanto riferisce l’Associazione Nazionale Presidi, secondo l’ultima stima effettuata.

In considerazione dei dati, il numero degli studenti che dovranno fare lezioni in luoghi diversi rispetto alla propria scuola è di circa 400.000 alunni.

E si va a caccia di pubblici spazi scuola un po’ ovunque.
Anche in abitazioni private e persino in hotel e in Bed and Breakfast, appositamente attrezzati.

“Compatibilmente con le risorse disponibili, prevediamo presto la pubblicazione di Avvisi Pubblici in diversi comuni, per il reperimento di spazi alternativi dove poter allestire le aule per ospitare le classi che dovranno fare lezioni nei luoghi alternativi al proprio istituto”.
Lo riferisce Cristina Giachi, responsabile Scuola dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI), intervenuta in merito alle apposite risorse per gli Enti locali sull’affitto degli spazi aggiuntivi, previste nel decreto legge di agosto.

“Gli avvisi pubblici, in quanto tali, saranno aperti a tutti – ha aggiunto Cristina Giachi -. Laddove sarà necessario, oltre a musei, cinema e centri congressi, potrebbero partecipare anche hotel, Bed & Breakfast e perfino appartamenti singoli, purché le strutture rispettino i requisiti di capienza e sicurezza”.

Altro che la DAD, la famigerata Didattica a Distanza che ci ha tenuto compagnia – volenti o nolenti – durante la quarantena.
Altro che scuola a casa: qui la scuola va in giro per la città, in posti che prima non c’entravano assolutamente nulla con la scuola. Ci manca solo la sala giochi…

Ma si fa di necessità virtù e, comunque vada, si tratta di una svolta clamorosa, una sorta di “rivoluzione culturale”, anche se legata più all’edificio che ospita la scuola che alla sostanza vera e propria del programma didattico.

La ricerca di nuovi spazi scolastici alternativi è un altro passettino in avanti verso la riapertura delle scuole.
Ma a che punto è il percorso che ci accompagna verso il prossimo anno scolastico? 

Naturalmente massima attenzione alla sicurezza.
E, infatti, qualche giorno fa la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, ha firmato – insieme alla organizzazioni sindacali di categoria – il protocollo sanitario per la ripresa della scuola.
Dall’help desk per le scuole, alle modalità di ingresso e uscita, all’igienizzazione degli spazi, il protocollo offre regole chiare alle istituzioni scolastiche e agli stessi studenti.

Secondo il protocollo, nel caso in cui una persona presente nella scuola sviluppi febbre e/o sintomi di infezione respiratoria quali la tosse, si dovrà procedere al suo isolamento in base alle disposizioni dell’autorità sanitaria, contenute nel Documento tecnico, aggiornato al 22 giugno 2020.

La disposizione in materia di controllo territoriale prevede: “In caso di comparsa a scuola in un operatore o in uno studente di sintomi suggestivi di una diagnosi di infezione da SARS-CoV-2, il CTS sottolinea che la persona interessata dovrà essere immediatamente isolata e dotata di mascherina chirurgica, e si dovrà provvedere al ritorno, quanto prima possibile, al proprio domicilio, per poi seguire il percorso già previsto dalla norma vigente per la gestione di qualsiasi caso sospetto”. 

La storia dei banchi tiene ancora… banco.
Gli ormai famosi banchi a rotelle sembrano destinati a rimanere solo nei progetti della fantascuola, anche perchè secondo l’accusa di una professoressa, sindaco di Rossano Veneto, sarebbero pericolosi in caso di terremoto o incendio. Sulla non idoneità di questi banchi a rotelle, insiste anche l’assessore alla scuola della Regione Veneto, Elena Donazzan, che spiega: “Si tratta di banchi non omologati in Italia, la cui struttura è incompatibile con la didattica italiana in cui si usano penne e quaderni e libri e non tablet. E non avrebbero i freni in dotazione“.

Ii banchi con i freni: non ci avevamo mai pensato.
Il rischio, però, è che si passi da i banchi ultra-moderni a quelli che si trovano ancora nei vecchi magazzini delle scuole, forse non più con il buco per il calamaio, ma probabilmente con le scritte oscene lasciate dagli studenti dell’anno scolastico 1987-88. 

Speriamo di no, però.
Secondo il sito studenti.it, invece dei discussi banchi singoli con le rotelle ora entrano in ballo i tavolini trapezoidali singoli a spicchio, che possono essere usati singolarmente oppure accorpati. Soluzione che, in qualche modo, coniuga modernità, tradizione e praticità.

Un bel dilemma, non solo per la scuola italiana.
Anche in Germania, dove le lezioni sono appena ricominciate, ogni Land fa un po’ di testa propria, in base al numero di contagi e alla prudenza di ogni singolo governo regionale.
In alcune zone, ad esempio a Rostock e nel Meclemburgo-Pomerania, la mascherina non è necessaria in nessuna aree dell’edificio scolastico, in città come Berlino e Monaco di Baviera la mascherina è obbligatoria negli spostamenti e negli spazi chiusi, ma non in classe. A Potsdam, nel Brandeburgo, invece, la mascherina è obbligatoria anche per gli insegnanti durante la loro lezione (ma non per gli studenti).
E se il caos regna sovrano anche nella ben organizzata Germania…

Anche qui, teoricamente, dovrebbe decidere la Regione, che ha autorità in materia sanitaria. Mascherine solo negli spazi comuni, durante gli ingressi e le uscite, o anche in classe? Per tutta la durata della giornata? E durante la ricreazione? 
Per razionalizzare spazi e tempi di ingresso, ed evitare assembramenti di studenti, a fine giugno si era addirittura parlato di un’entrata anticipata alle 7 del mattino, ma è arrivata la precisazione del Comitato Tecnico Scientifico: si raccomandano ingressi scaglionati sì, ma nessuno ha parlato dell’orario delle 7.
Si era parlato anche di entrate scaglionate di 15 minuti per ogni classe, a partire dalle 8 di mattina, poi un rapido calcolo del preside di una grande scuola di Torino – con 52 classi – ha evidenziato l’impossibilità della cosa: la 52esima classe avrebbe iniziato le lezioni alle 9 di sera!
Una vera scuola serale…

Gli orari delle lezioni, semmai, secondo le indicazioni dei sindacati della scuola, potrebbero accorciarsi a 40-45 minuti ogni ora e gli studenti sarebbero chiamati ad andare a scuola anche il sabato mattina, dove questo già non accada normalmente. 

Infine, c’è il discorso legato ai dipendenti delle scuole, quelli che le fanno funzionare. I dirigenti. Le maestre, gli insegnanti, i professori. Ma anche il personale ATA (amministrativo, tecnico e ausiliario).
I sindacati sono d’accordo: servono più assunzioni.
Sul sito del MIUR ci sono già le procedure per le immissioni a ruolo dei docenti.

Già il decreto “Rilancio” di maggio 2020 prevedeva il reclutamento di 16.000 insegnanti in più rispetto ai 62.000 inserimenti già programmati attraverso i concorsi 2020, per insegnare nelle scuole secondarie, primarie e dell’infanzia.

Entro l’anno scolastico 2020-2021 sono previste ben 32.000 immissioni in ruolo per il personale docente, sia nei posti comuni che in quelli di sostegno.

Qualcosa, insomma, si muove. Sembra quasi che si stia profilando una “Buona Scuola”, ma quella era di un altro governo…
Questa potremmo chiamarla “Nuova Scuola”, aspettando che dalle promesse e dalle ipotesi si passi ai fatti concreti.
Basta attendere, manca poco alla prima campanella.

Hiroshima, 75 anni dopo

Sono passati 75 anni.
Il 6 agosto 1945, un bombardiere americano di nome “Enola Gay” lanciò una bomba atomica ribattezzata “Little Boy” sulla città di Hiroshima, in GIappone. Rimasero uccise circa 140.000 persone

Tre giorni, il 9 agosto, dopo una seconda bomba atomica ancor più potente (“Fat Man”) fu sganciata su Nagasaki. Altre 70.000 vittime.

Nel giro di due settimane, la resa giapponese pose fine alla Seconda Guerra Mondiale.

Un minuto di silenzio ricorda il momento in cui la bomba colpi Hiroshima.

Sopravvissuti e parenti delle vittime si sono riuniti nel Parco della Pace della città in occasione del 75° anniversario del bombardamento.

Il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha deposto una corona di fiori

Anche sull’onda di quella terribile esperienza, in Giappone esiste ora un forte sentimento pacifista e un impegno concreto per un mondo libero dal nucleare.

Il discorso del sindaco di Hiroshima Kazumi Matsui:
“Non dobbiamo mai permettere che questo doloroso passato si ripeta. La società civile deve rifiutare il nazionalismo egocentrico e unirsi contro ogni minaccia”.

Il primo ministro Abe ha rinnovato il suo impegno a mantenere il Giappone lontano dal nucleare.
“La nostra nazione manterrà saldamente i “Tre Principi non nucleari” (di non possedere, non produrre e non permettere l’ingresso di armi nucleari nel paese), Sollecitando con insistenza la discussione e l’azione di ciascun paese, il Giappone assumerà un ruolo guida negli sforzi della comunità internazionale per la realizzazione di un mondo senza armi nucleari”.

Quest’anno gli eventi commemorativi sono stati ridimensionati a causa della pandemia di Coronavirus, ma a Hiroshima, l’emozione è sempre grande e tangibile.

Chiedi chi era Tiziano Terzani…

Un articolo di “Vanity Fair” del 2018, in occasione dell’80esimo anniversario della nascita di Tiziano Terzani, scomparso nel 2004.

Nella sua vita ha «volato tanto»: ha avuto il coraggio di farlo, di dire no, di cambiare tutto e di ricominciare da capo. Oggi Tiziano Terzani avrebbe compiuto ottant’anni. Invece il giornalista e scrittore toscano, nato a Firenze nel 1938, si è spento quattordici anni fa. Ma senza rammarico o nostalgia. «La mia vita è stata un giro di giostra, sono stato incredibilmente fortunato e sono cambiato tantissimo», aveva scritto.

È vero: la sua vita è stata un giro di giostra. Terzani non si è mai fermato fino a quando non ha trovato il lavoro che rispecchiasse la sua personalità e soddisfacesse le sue ambizioni, ha vissuto una vita famigliare intensa, ha esplorato e raccontato per decenni il continente asiatico in tutte le sue dimensioni.

Ma andiamo con ordine. Il papà Gerardo aveva un’officina meccanica, la mamma Lina lavorava come cappellaia in un negozio di sartoria: la famiglia Terzani viveva in una piccola casa modesta, e per Tiziano forse non era previsto un futuro di studi e di impegno intellettuale. Ma un professore della scuola media, Ernesto Cremasco, convocò i genitori: il ragazzo doveva assolutamente andare al liceo classico. Gerardo e Lina si convinsero, e con tutti i loro risparmi andarono a comprargli il suo primo paio di pantaloni lunghi. Non sbagliarono a puntare su quel figlio diligente: Tiziano si diplomò brillantemente.

Fu allora che la Banca Toscana gli offrì un lavoro. Una proposta che aveva elettrizzato i genitori, ma terrorizzato il giovane. «Per me era la morte civile. Però avevo tutta la famiglia contro». Disse comunque di no e continuò a studiare. Tentò l’ammissione al collegio Medico-Giuridico annesso alla Scuola Normale di Pisa: c’erano cinque posti a disposizione, e lui arrivò secondo. Con la sua laurea con lode in mano, entrò alla Olivetti e fece il manager per cinque anni. Un lavoro che gli permise di viaggiare in tutta Europa e in Oriente, e di rendersi conto di che cosa davvero gli facesse battere il cuore.

In quegli anni Tiziano, che si era sposato con una ragazza di origine tedesca, Angela Staude, iniziò a innamorarsi della Cina. E quando la Olivetti lo mandò in Sud Africa, lui tornò indietro con un reportage sull’apartheid pronto da pubblicare su l’astrolabio, settimanale diretto da Parri. Passò ancora qualche anno nell’azienda prima di riconoscere che la sua vera, unica e grande passione era il giornalismo. E che non aveva più intenzione di sprecare tempo facendo altro.

Trovò lavoro a Il Giorno, fece il praticantato e diventò professionista. Ma lui voleva fare il corrispondente dall’Oriente, e quando il direttore gli disse che il giornale non ne aveva bisogno, si dimise. Iniziò a girare l’Europa per trovare quel posto di lavoro, finché approdò al settimanale amburghese Der Spiegel, diretto da Rudolf Augstein, che gli diede la possibilità di scrivere dal Sud-Est asiatico, da freelance. L’avrebbe poi fatto per trent’anni.

Da Singapore, dove si stabilì con la moglie e i figli Folco e Saskia, cominciò anche la collaborazione con diverse importanti testate italiane, da L’Espresso, a Il Messaggero, da La Repubblica al Corriere della Sera. Il suo primo libro, Pelle di leopardo, è dedicato alla guerra in Vietnam. Nel 1975 rimase a Saigon insieme a pochi altri giornalisti per assistere alla presa del potere da parte dei comunisti, e scrisse Giai Phong! La liberazione di Saigon, che fu tradotto in molte lingue. Dopo l’aggressione della Cambogia da parte del Vietnam, Terzani fu tra i primi cronisti a tornare a Phnom Penh, e raccontò il suo viaggio in Holocaust in Kambodscha.

Scriverà altri libri preziosi, e scriverà anche di se stesso: nell’aprile del 2004, poco prima di morire, pubblicò Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo. Ancora un’osservazione giornalistica, ma questa volta della delle tecniche più moderne di quella medicina che stava tentando di curare il suo tumore all’intestino, senza riuscirci. Ma sappiamo che Terzani se ne è andato in pace. «Senza alcun rimpianto, di promesse mancate, di cose incompiute, senza pena aggiunta mi preparo a volare un’altra volta».