Ce ne vuole di coraggio ad essere giornalisti in Bielorussia…
Dopo la rielezione del presidente-dittatore Alexander Lukashenko – lo “Zar di Minsk”, in carica da 26 anni ininterrottamente – è iniziata la caccia agli oppositori del regime e ai giornalisti curiosi. Il più curioso di tutti, in senso buono, è “Nexta”, un giornalista-blogger che, attraverso una capillare rete di collaboratori, sui canali Telegram e Twitter, sta testimoniando in tempo reale quello che sta avvenendo per le strade di Minsk, la protesta popolare, la maggioranza silenziosa e la dura repressione della polizia.
Ora “Nexta” – al secolo Stepan Svetlov, punta di diamante del canale di informazione – vive al riparo in Polonia, ma il suo nome continua a girare, grazie al suo staff, sempre in primissima linea. “A parte noi, non ci sono quasi più mezzi di informazione in Bielorussia. Ma proprio oggi ho ricevuta la notizia che è stato aperto un procedimento penale nei miei confronti e rischio persino 15 anni di prigione, solo per il semplice fatto di aver ripreso avvenimenti e diffuso informazioni”.
Ma nella Bielorussia di oggi, è vietato farlo.
Abbiamo parlato anche con il caporedattore di Nexta, Roman Protasevich.
Il suo canale ha sede in Polonia, impiega meno di 10 persone e potrebbe diventare il secondo media più popolare in Bielorussia, dietro solo Tut.by, un portale di informazione online in russo.
Come funziona Nexta?
Il nostro canale si chiama “Nekhta”. Significa “qualcuno” in bielorusso. Questa è la nostra caratteristica. “Telegram” è una piattaforma anonima, trasferiamo qui le informazioni in maniera sicura. Ci sono migliaia di bielorussi che vi condividono segnalazioni o ce le inviano, quindi in Nexta viene raccontato tutto il paese. Storie che devono essere ascoltate, che non saranno mai trasmesse dalla televisione bielorussa o dai media bielorussi ufficiali.
La tua squadra è composta da giornalisti professionisti. Come controllate e verificate le informazioni?
Tutto dipende dallo specifico feed di notizie. In ciascuna delle aree abbiamo le nostre persone, fonti fidate, con le quali comunichiamo da molto tempo. Forniscono informazioni sempre accurate al 100% e ci inviano documentazione interna da vari dipartimenti, comprese le forze di sicurezza.
Per quanto riguarda le proteste di massa, in primo luogo, osserviamo la situazione perché riceviamo centinaia, a volte migliaia di messaggi all’ora. Riusciamo a ottenere un quadro completo e vediamo immediatamente dove qualcosa corrisponde alla realtà, e dove ci sono evidenti provocazioni, esagerazioni o disinformazioni – anche dal lato dei servizi speciali, che ci bombardano di messaggi abbastanza regolarmente.
Cerchiamo di effettuare una verifica incrociata. Se più persone chiaramente non legate tra loro ci scrivono e ci dicono la stessa cosa, allora in linea di principio comprendiamo che questa informazione può essere considerata verificata. Già, perché naturalmente non possiamo ricevere alcuna conferma dai funzionari.
Vi considerate un media o semplicemente un canale Telegram?
Direi che Nexta è il media decentralizzato del 21° secolo. Usiamo diversi siti, non abbiamo un sito centrale di riferimento. Abbiamo diversi canali per adattarci alle esigenze delle persone: Messenger, YouTube. La pratica dimostra che è davvero richiesto [questo tipo di approccio]. Sono proprio i formati così brevi dei messaggi Telegram che consentono di trasmettere tutte le informazioni nel modo più rapido, chiaro ed efficiente possibile.
Per una persona è tutto letteralmente in un clic: non è necessario andare su nessun altro sito, puoi leggere le notizie e i messaggi degli amici allo stesso tempo. Grazie a questa struttura, le notizie viaggiano molto più velocemente.
Perché siete così popolari in Bielorussia?
Abbiamo molte informazioni esclusive, molte fonti governative, molti documenti di alcune piccole agenzie pubbliche o imprese. Abbiamo anche molti documenti e informazioni riservate di alti funzionari, dell’amministrazione presidenziale e delle forze di sicurezza.
Le persone sanno per certo che entreranno e leggeranno ciò che non verrà detto loro da nessun’altra parte – semplicemente perché, se è scritto da media indipendenti situati in Bielorussia, questi inizieranno ad avere pressioni dei servizi speciali, avvertimenti o saranno a rischio chiusura.
Non hai paura per i tuoi informatori e dipendenti?
Non ci sono stati (o quasi) casi in cui le persone hanno avuto problemi seri, tranne in un paio di occasioni. Ci sono stati alcuni casi in cui i nostri informatori sono stati effettivamente scoperti, ma a causa della ristrettezza del loro settore.
Nelle forze dell’ordine si è arrivati al punto in cui i dipendenti sono stati controllati con la forza. Coloro che non hanno superato il controllo sono stati puniti per aver diffuso qualche tipo di informazione ufficiale.
Eravete preparati al fatto che Internet venisse disattivato in tutto il paese? Come avete lavorato in questo periodo?
La cosa buona di Telegram è che si tratta dell’unica piattaforma che ha funzionato, in qualche modo. Lentamente, nessun caricamento multimediale, ma in qualche modo ha funzionato. La maggior parte delle persone in Bielorussia ha visto solo la versione testuale, ma almeno in questo modo è riuscita a ricevere informazioni su ciò che stava accadendo.
Abbiamo anche un gran numero di abbonati dall’estero, per i quali tutto funziona alla grande. Hanno diffuso le notizie in tutto il mondo, è fantastico, anche perché anche la maggior parte dei siti web del governo in Bielorussia non funziona ancora. Al momento, non si può nemmeno visitare il sito web della Commissione elettorale centrale bielorussa.
Questa è la bellezza del nuovo formato multimediale: quando non esiste un sito centralizzato, è impossibile in qualche modo bloccarlo o vietarlo. Tutti vi hanno accesso in maniera incondizionata.
Avete suggerito ai vostri follower come aggirare il blocco?
Sì, abbiamo consigliato attivamente ai nostri abbonati di utilizzare un proxy, utilizzare una VPN, utilizzare Tor e altri metodi per aggirare il blocco totale di Internet. Ma i server proxy erano così richiesti che gli indirizzi che abbiamo fornito sono risultati immediatamente “inattivi” per via di un sovraccarico.
Pertanto, abbiamo cercato di fare più informazione, attrarre sviluppatori, persone altruiste che ci hanno aiutato con i server proxy, aumentando la larghezza di banda. Alcune aziende li hanno persino lanciati in aggiunta, inviandoci i collegamenti. Abbiamo cercato di fare del nostro meglio per garantire che ogni bielorusso avesse accesso incondizionato alle informazioni.
Considerate la vostra una missione?
Facciamo ciò che nessun altro può fare al momento: diciamo in modo assolutamente onesto e aperto ai bielorussi cosa sta realmente accadendo, fornendo informazioni senza alcuna censura.
In termini di leggibilità e numero di lettori unici, siamo già diventati il secondo media in Bielorussia. Penso che questo sia l’indicatore più eclatante della domanda, i numeri parlano da soli.
Vi considerate portavoce dell’opposizione?
In Bielorussia, il concetto di opposizione è vago. Non abbiamo solo canali di notizie, abbiamo un gran numero di chat, anche in regioni con 100mila persone. Facciamo solo da portavoce dell’umore delle persone: ci limitiamo a trasmettere quello che dicono.
Sì, è possibile che ciò che pubblichiamo possa somigliare ad un appello, ma in realtà è solo una trasmissione di ciò che sta accadendo. In una certa misura, siamo portavoce che raccontano informazioni più ampie e dettagliate su ciò che sta accadendo e su ciò che le persone vogliono davvero.
Come andrà a finire? Auguriamo ogni bene e ogni libertà a “Nexta” e, ovviamente, al popolo bielorusso.
Un’altra storia che viene dalla Bielorussia è quella del giornalista freelance italiano Claudio Locatelli.
Sessanta ore da incubo, prima di essere liberato da un centro di detenzione di Minsk, mentre in città infuriavano le proteste esplose dopo la contestata rielezione di Lukashenko.
Personaggio incredibilmente poliedrico, che divide il suo tempo tra l’attività sportiva agonistica e il reportage giornalistico sul campo, Locatelli è divenuto famoso in Italia qualche anno fa, quando – insieme ad altri volontari di tutto il mondo – è partito per il nord della
Siria, dove ha
imbracciato le armi per partecipare,
tra le fila dei combattenti curdi, alla liberazione di Raqqa occupata dallo Stato Islamico.
A Minsk, però, Claudio non ci era andato come giornalista. “Ero lì per partecipare alla Bison race, una competizione internazionale di corsa a ostacoli estrema che si è tenuta proprio in concomitanza con le elezioni. Ma proprio non immaginavo che sarebbe finita così”.
L’incubo, per Locatelli, inizia alla mezzanotte di domenica. “Tornavamo da un ristorante, dove avevo cenato con gli altri ragazzi della squadra. C’era moltissima tensione in città, la polizia aveva piazzato posti di blocco su tutto l’anello esterno della circonvallazione di Minsk”.
“Arrivato nei pressi del mio alloggio, dalle parti della stazione centrale, mi sono trovato in una strada totalmente barricata dai cordoni della polizia, mentre in lontananza si udiva un gran frastuono per via degli scontri e delle manifestazoni“.
“Mi sono fermato a parlare con dei ragazzi che erano al lato del marciapiede” continua. “Non erano nemmeno manifestanti, ma proprio in quel momento sono stati caricati dagli agenti antisommossa”.
Questo primo incontro con le forze dell’ordine sembra risolversi bene: “ho gridato che ero un giornalista italiano, e a quel punto mi hanno lasciato perdere, intimandomi di spostarmi verso un altra zona della strada”. Locatelli però non fa neanche in tempo ad eseguire, che già si trova di fronte a un altro gruppo di agenti: “loro avevano visto tutta la scena – spiega – e sono rimasti a guardarmi mentre filmavo un po’ con il cellulare. Finché, dopo una decina di minuti, mi hanno caricato“.
A quel punto Locatelli si ritrova addosso una quindicina di uomini. “La prima cosa che hanno fatto è stata strapparmi il cellulare di mano” ricorda. “Dopodiché hanno iniziato a picchiarmi sulle gambe per farmi andare a terra, e subito dopo mi hanno spruzzato in faccia una quantità spropositata di spray al peperoncino, che ho finito per respirare a pieni polmoni, predendomi un’intossicazione durata fino al mattino dopo”.
Claudio Locatelli, che per tutto il tempo continua a ripetere di essere un giornalista, si ritrova quindi ammanettato su una camionetta, diretto verso una stazione di polizia che al rilascio scoprirà essere una di quelle “in cui sono avvenute le peggiori torture in questa ondata di proteste”.
“Quando sono arrivato ero totalmente accecato e in preda alla nausea per lo spray” racconta. “Subito è stato comunicato agli agenti sul posto che ero uno straniero, e probabilmente per questo non mi è stata fatta troppa violenza. Ma il caos in quel posto era totale. C’erano gruppi di bielorussi che arrivavano con i polsi ammanettati dietro la schiena, e gli agenti li costringevano a marciare così veloce che alcuni andavano a sbattere contro altre guardie”.
“Poi – continua – mi hanno messo faccia al muro su un corridoio enorme, che attraversava un gruppo di celle. C’era un agente che continuava a darci ordini: quando ho provato a spiegargli che il mio russo non era molto buono, mi ha sbattuto la faccia contro la parete“.
La cella
Locatelli viene quindi condotto in una cella di 4 metri per 4 – “con una latrina fetida e un lavandino rattoppato con uno straccio lercio” – che nei giorni successivi ha continuato a riempirsi all’inverosimile. “Eravamo tutti stranieri lì dentro” spiega. “Oltre a me c’erano due giornalisti russi che, grazie a una telecamera go-pro sfuggita alle perquisizioni, sono riusciti a girare delle immagini. Gli altri però erano tutti comuni cittadini”.
Tra questi ultimi, oltre a un ragazzo turcomanno, c’era Tanguy Darbellai, un atleta svizzero piuttosto conosciuto in patria. “C’era inoltre un osservatore elettorale moldavo – spiega Claudio – che era addirittura stato invitato dall’amministrazione di Lukasenko: il che dimostra quanto casuali fossero gli arresti di domenica notte. L’obiettivo era spargere il terrore”.
Fame e torture psicologiche
Nei giorni successivi, la cella di Claudio Locatelli continua a riempirsi di cittadini stranieri.
“Alle fine – spiega – eravamo in 19, tutti stranieri a eccezione di una ragazza bielorussa terrorizzata. Gli ultimi quattro, tra i quali un cittadino polacco di cui l’ambasciata sta ancora cercando notizie, sono stati portati in cella completamente nudi.
Sdraiarsi per dormire, secondo Locatelli, era impossibile: “e oltre a questo – precisa – per sessanta ore nessuno ha avuto nulla da mangiare. Le guardie continuavano a chiederci se volessimo del cibo, ma presto è diventato chiaro che si trattava di una subdola forma di tortura”.
“Nella prima giornata – continua – ho vomitato quattro volte per via dell’intossicazione da spray urticante: alla fine, mi hanno mandato un infermiere che, attraverso le sbarre, mi ha misurato la pressione ed è andato via come nulla fosse”.
Il peggio, però, accade altrove. “Dalle altre celle arrivavano tonfi e urla disumane a ritmo costante, tanto che alla fine erano diventate una sorta di sottofondo. Nel corridoio intanto continuavano ad ammucchiarsi effetti personali, con centinaia di cellulari che continuavano a squillare a vuoto”.
Uno di quei telefoni apparteneva proprio a Locatelli: ed è con quello, prima dell’ultima perquisizione – avvenuta all’alba di lunedì – che appena entrato in cella era riuscito ad allertare l’ambasciata italiana.
La liberazione
“Avevo quasi perso le speranze e la cognizione del tempo – racconta – quando, mercoledì, il personale diplomatico è arrivato a prendermi. Hanno svolto un lavoro ottimo e molto delicato, perché erano almeno dieci anni che il nostro paese non si trovava in una situazione del genere con la Bielorussia”.
All’uscita dal centro di detenzione, Locatelli trova una folla di manifestanti e cittadini che intonano slogan e chiedono notizie dei loro parenti scomparsi. “A quel punto – spiega – il personale d’ambasciata ha voluto allontanarsi a tutto gas, perché dicevano che, se in quel momento fossero scoppiati dei disordini, avrebbero potuto riportarmi dentro come sobillatore”.
Anche una volta arrivati nei locali dell’ambasciata, a Claudio viene sconsigliato di uscire perfino per mangiare. “Erano convinti che avrebbero cercato di arrestarmi nuovamente. In questo momento c’è il caos nelle strade di Minsk”.
Dopo sessanta ore nelle mani della polizia militare bielorussa, in un paese così duro e repressivo da essersi meritato il soprannome di “ultima dittatura d’Europa”, Claudio Locatelli appare provato e incredulo.
“Nemmeno al fronte contro lo Stato islamico – ammette – avevo passato delle ore così incerte, angoscianti e surreali”.