Il “nuovo” Museo Egizio di Torino

TORINO – Il Museo Egizio di Torino, il secondo dedicato alle antichità egizie più grande al mondo dopo quello del Cairo (e uno dei musei più visitati d’Italia), stavolta racconta un po’ della propria storia.

Meno di cinque anni dopo la sua riconfigurazione dell’aprile 2015 e quattro anni prima del suo bicentenario, che sarà celebrato nel 2024.

Giovedi 19 dicembre, infatti, il Museo Egizio ha aperto al pubblico cinque nuove sale, fra le quali quella dedicata alla fedele ricostruzione di un ambiente museale dell’800.

Nelle cinque sale – le cosiddette “sale storiche”, che accolgono i visitatori al piano ipogeo – si alternano prodotti multimediali e immagini d’archivio: antiche litografie, stampe e fotografie d’epoca, ma anche video e supporti digitali.

Per i cinque nuovi spazi espositivi sono stati investiti, totalmente autofinanziati, 350mila euro.

Il nuovo percorso biografico all’interno dell’ex Collegio dei Nobili è stato modellato intorno agli studi condotti dal curatore Beppe Moiso e dall’archivista Tommaso Montonati.


“E’ un primo passo, un intervento strutturale e creativo, che abbiamo effettuato autofinanziandoci. A maggio saranno pronte nuove sale. Siamo proiettati verso il bicentenario che celebreremo nel 2024”, ha detto la presidente del Museo Egizio, Evelina Christillin

“Questo è un luogo vivo, in continuo divenire, che muta e si evolve in virtù dei risultati della ricerca. Abbiamo realizzato questo importante progetto grazie alla collaborazione con l’Accademia delle scienze che ci ha permesso di ricostruire i passaggi della vita del museo”, ha spiegato il direttore del Museo, Christian Greco.

La storia del Museo Egizio di Torino deriva dalla passione dei Savoia, incuriositi da questa cultura estinta e dal mondo faraonico: si dedicarono cosi a spedizioni alla ricerca di reperti o acquisirono collezioni di oggetti rari.

Un ruolo, quello della monarchia sabauda, che sarà poi determinante nel 1824, con la decisione del Re Carlo Felice di acquistare la collezione Drovetti, facendone il nucleo fondante del Museo, che nasce così in quello stesso anno.

Tra i numerosi pezzi forti del museo: la Tomba di Kha e di Merit, le statue di Ramses II e Amenhotep I e la celebre collezione di papiri, che il celebre filologo Jean-François Champollion studiò nella sua opera di decodifica dei geroglifici.

Belgio, un anno senza governo (e senza accorgersene)

Da un anno, il Belgio è senza un governo vero.
Esiste solo un governo di transizione, guidato dal 28 ottobre da Sophie Wilmès, 44 anni, prima donna premier in 189 anni di storia del Belgio.

Un poco invidiabile record, certo, eppure nessuno – in Belgio – sembra essersi accorto della mancanza di un governo. Sarà un buon segno?

Tutto è iniziato il 18 dicembre 2018, quando la coalizione di quattro partiti dell’allora primo ministro Charles Michel – ora Presidente del Consiglio Europeo – è crollata in seguito all’uscita dei nazionalisti fiamminghi del N-VA (Nieuw-Vlaamse Alliantie) che protestavano contro il “Migration Pact” dell’Onu.

Dopo la caduta del governo, neanche le elezioni politiche di maggio sono state in grado di fare uscire il paese dallo stallo politico.
Da allora, un alleanza di centro-destra senza maggioranza parlamentare ha gestito gli affari correnti e le attività quotidiane.
Oggi il governo ad interim è guidato, come detto, da Sophie Wilmès, incaricata da Re Filippo.
Grazie al suo impulso sono ripresi i negoziati per la formazione al più presto possibile di un governo con pieno mandato.
AP Photo/Matt Dunham)

L’assenza di un esecutivo non sembra aver avuto, per ora, un impatto negativo sull’economia del Belgio, sostenuta dai consumi delle famiglie… Ma per quanto tempo?

“Ho l’impressione che la politica belga, in realtà, sia inutile. `E’ solo una facciata”, commenta Adrien, 23enne studente a Bruxelles. “Perché anche se non abbiamo un governo, tutto funziona ancora bene lo stesso”.

“Tutto gira attorno ai fiamminghi e i neerlandofoni. Ma non ha nulla a che fare con questo. E’ solo politica, che ci divide, non ci si unisce”, dichiara Lionel Guyaux, residente a Bruxelles.

Secondo gli analisti gran parte dei belgi è assolutamente critico nei confronti dei propri politici.

Spiega Dave Sinardet, professore di Scienze Politiche alla Libera Università di Bruxelles: “La classe politica non è riuscita collettivamente a formare un governo. C’è l’impressione che tutti i partiti politici siano principalmente coinvolti in una logica strategica e partigiana piuttosto che pensare all’interesse generale e formare un governo”.

Il Belgio non è nuovo alla lentezza nella formazione degli esecutivi: nel 2011 ha battuto il record mondiale, dopo 541 giorni senza governo.
Riuscirà stavolta a fare meglio (o peggio, a seconda dei punti di vista)?

Greta, nascita di un’icona

È domenica pomeriggio e un gruppo di giornalisti si ritrova all’ingresso dell’Università Complutense di Madrid. Sono lontani dal complesso in cui si svolge da una settimana il summit delle Nazioni Unite sul clima, ma alcuni attivisti li hanno avvertiti dell’arrivo imminente di Greta Thunberg.

Nella calca di fotografi e operatori tv, che cercano di assicurarsi l’angolo migliore, appare la giovane svedese, circondata dai giovani del movimento Fridays for Future, che la proteggono con una catena umana. Si notano anche diversi agenti di sicurezza.

In un attimo è il caos. Giornalisti, cameraman, fotografi, tutti cercano di avvicinare la ragazza, seguendola perfino in bagno, lamentano alcuni volontari. Mentre lascia il college, una studentessa le grida con un megafono: “Greta, ti prego, parla con me”. La lunga treccia bionda si fa appena riconoscere nello sciame di persone che la circondano ovunque vada.

Questo è solo un episodio della Gretamania che ha completamente travolto la COP25.
Qualcosa di simile è avvenuto anche a Torino, nella sua prima tappa italiana. Un uragano, anche in Italia. 

Greta e la sindaca di Torino Chiara Appendino.
Poco più di un anno fa Greta Thunberg era solo un’adolescente di Stoccolma, che tutti venerdì si sedeva sui gradini del parlamento svedese con il suo cartello, “sciopero per il clima”. Un’iniziativa solitaria per richiamare i potenti all’azione contro la crisi ambientale. Ma nel giro di pochi mesi, quest’idea si è trasformata in un movimento globale.

Questa settimana, culminata con l’annuncio di Time che l’ha eletta personaggio dell’anno 2019, l’attivista svedese ha dominato le cronache dell’intera conferenza Onu sul clima, Cop25. Momento clou, la marcia per il clima, venerdì scorso a Madrid. Ma in questa occasione Thunberg è stata costretta a lasciare la piazza: la massa di persone che la seguiva le ha reso impossibile procedere alla testa del corteo.

 “È stato frustrante vederla andare via dopo mesi di preparazione – dice Alejandro Martínez, esponente del Friday for Future in Spagna, che punta il dito su chi ha rovinato l’iniziativa – Tutta colpa dei media e delle persone che non hanno voluto rispettare il nostro spazio”.

Il fatto è che intorno all’adolescente si è scatenato un circo mediatico che la segue ovunque: quando si imbarca per una traversata oceanica, quando prende un treno e quando arriva in stazione. Una mobilitazione da capo dello Stato. “Quest’attenzione sta eclissando il lavoro degli altri attivisti – lamenta Martínez – Quando ci chiamano, ci chiedono solo di lei”.

“I media si focalizzano su Greta. Ma il movimento per il clima racchiude molte voci e tutte meritano di essere ascoltate”, insiste l’attivista. “È vero che tutta questa attenzione non può che fare bene alla nostra causa, ma non è corretto mettere alcune voci al di sopra di altre”.

Per Antón Rodríguez Castromil, docente di opinione pubblica all’Università Complutense di Madrid, il fenomeno si spiega perché Greta è diventata un simbolo. Rappresenta la lotta di un gruppo sociale che non ha mai esercitato il potere contro istituzioni che lo hanno sempre avuto, come i governi o le aziende.

“Ha iniziato dal basso, dai banchi di scuola, il che la rende una persona con cui possiamo facilmente identificarci”, spiega Rodríguez. Come Martínez, anche Rodríguez Castromil pensa che Greta non sarebbe diventata un fenomeno collettivo senza l’intervento dei media.

Alexander Kaufman, giornalista dell’Huffington Post specializzato in politiche climatiche, sottolinea narrazione potente della giovane attivista, basata sull’idea che i politici stiano “rubando” il futuro dei bambini: “È riuscita a rendere virale il cambiamento climatico”, osserva.
Un raro sorriso, torinese, di Greta.

A differenza di altre manie di questa epoca, quella per Greta non si basa sul consumo, ma su una giusta causa. Eppure, le critiche di Thunberg non hanno risparmiato il ruolo i media e il loro modo di affrontare la crisi climatica. Nonostante ciò, tv e giornali l’hanno eletta a paladina dell’ambiente.

“Per i media è molto più facile raccontare storie attraverso i personaggi. Questa volta hanno scelto Greta come protagonista. Si potrebbe sostenere che questo annacqua il messaggio, ma ha anche suscitato l’attenzione di quella parte di pubblico che altrimenti ignorerebbe la crisi climatica”, dice il giornalista.

Greta è diventata un’icona dei media, ne è consapevole e ha imparato subito a usare il suo spazio pubblico non per concentrare l’attenzione su di sé, ma per farsi portavoce dei messaggi che scienziati e organizzazioni ambientaliste sostengono da anni, ignorati dal pubblico generalista e dalle istituzioni.

E gli scienziati concordano sul fatto che, finora, l’effetto Thunberg sia stato l’unica cosa davvero efficace contro l’immobilismo politico.

Saleemul Huq, direttore dell’International Center for Climate Change and Development (ICCCAD), dice che da trent’anni gli scienziati lanciano l’allarme sulle conseguenze del cambiamento climatico, ma i loro avvertimenti sono rimasti lettera morta.

“Dieci anni fa gli effetti della crisi climatica sono diventati molto concreti nei paesi meno sviluppati. In quel momento abbiamo deciso di alzare la voce, ma – ancora una volta – siamo stati ignorati”. Greta ripete oggi questo monito, in nome degli adulti del futuro, e sembra essere ascoltata. “Un risultato che non abbiamo mai ottenuto – dice lo scienziato – Per chi inquina è ora di ascoltare i propri figli”.

Non è stato l’unico ad esprimersi a favore dell’attenzione mediatica per l’attivista svedese. Santiago Martín Barajas, di Ecologistas en Acción, ha scritto su Twitter che l’impegno di Greta è “una grande gioia” perché sta facendo qualcosa di necessario, mobilitando un’intera generazione.

L’ABC dei cambiamenti climatici: cinque fatti di cui non si può dubitare

Con il Cop25, in corso di svolgimento a Madrid, il cambiamento climatico torna al centro dell’agenda politica. Nonostante se ne parli tanto da anni, anche al di fuori della comunità scientifica, è un argomento su cui il giudizio dell’opinione pubblica è ancora polarizzato: sono in molti a dubitare dell’effettiva consistenza del fenomeno e, anche quando se ne riconosce l’esistenza, lo si ritiene un semplice fenomeno naturale, non causato dall’azione umana. La conferenza mondiale sul clima è una buona occasione per ripassare i concetti chiave del cambiamento climatico. Ecco cinque fatti che, dati scientifici alla mano, non possono essere messi in discussione.

1) Aumento delle temperature
È un fatto di cui nessuno può dubitare. La temperatura globale è aumentata di 0,6°C dalla fine del XIX secolo. Il riscaldamento ha subito un’accelerazione esponenziale negli ultimi 40 anni. Le temperature sono sempre più “anormalmente elevate” rispetto alla media del periodo.
Oltre alla temperatura globale, gli scienziati hanno osservano anche un aumento della temperatura del suolo, della bassa atmosfera e degli oceani.

2) Sempre più emissioni di gas serra
Come suggerisce il nome, i gas serra riscaldano la Terra come una serra di plastica riscalda l’aria e permette ai pomodori di crescere fuori stagione.Il gas serra più noto è senza dubbio la CO2, l’anidride carbonica emessa bruciando combustibili fossili per l’attività umana (ma non solo, anche la natura genera CO2: fuochi, vulcani, piante, oceani e anche il nostro respiro). Come mostrano i dati raccolti dalla Nasa, le emissioni di CO2 sono cresciute notevolmente dal 1950.
L’anidride carbonica non è l’unico gas serra in aumento. Sono cresciute anche le emissioni di monossido di carbonio, metano, ozono, formaldeide, biossido di azoto, anidride solforosa, raggi ultravioletti (UV), aerosol e… vapore acqueo. L’incremento delle emissioni di metano (CH4) è particolarmente preoccupante: la sua concentrazione aumenta rapidamente e il suo potere calorifico è addirittura superiore alla CO2.
Anche il vapore acqueo è una causa dell’effetto serra, ma non è possibile limitarlo in un pianeta composto per il 71% di acqua (e con le temperature in aumento). Possiamo solo cercare di limitare le fonti di altri gas, in particolare la combustione di combustibili fossili: trasporti, industria, agricoltura intensiva, ma anche incendi boschivi che generano un cocktail di gas serra o lo scioglimento del permafrost – il suolo ghiacciato delle regioni polari e dei ghiacciai – che a sua volta rilascia metano. In altre parole, le conseguenze del cambiamento climatico (incendi, riduzione del permafrost) stanno alimentando l’accelerazione del cambiamento climatico.

3) I ghiacciai si sciolgono
Il 2019 non è stato così catastrofico come il 2012 per quanto riguarda lo scioglimento dei ghiacci artici, ma al Polo Nord è stato un anno particolarmente caldo con eventi estremi. Superficie e spessore del ghiaccio si sono ridotti, rilasciando milioni di tonnellate di acqua dolce negli oceani. Gli scienziati temono che questo fenomeno stia accelerando più velocemente del previsto. Anche i ghiacciai sono a rischio. Dal 1997 i ghiacciai europei hanno perso tra gli otto e i 25 metri.

Reuters/Alexandre Meneghini/File Photo


4) Meteo e clima non sono la stessa cosa

Ad ogni ondata di freddo gli scettici del cambiamento climatico – tra cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump – sostengono che le temperature in picchiata sono la prova che il cambiamento climatico non esiste. Dimostrando così di non conoscere la differenza tra meteo e clima.
Le temperature invernali sono una funzione delle condizioni meteorologiche: sono locali e limitate ad un breve periodo di tempo. Inoltre si tratta di fenomeni naturali che si verificano nella parte inferiore dell’atmosfera.
Il clima, d’altro canto, è definito da dati regionali di ampia portata, stabiliti su un lungo periodo di tempo. Il clima coinvolge l’intera atmosfera ma anche le acque, la terra e i ghiacci. Ci sono diversi climi sulla Terra con variazioni annuali: è il sistema climatico ed è soggetto a forze esterne.
Attualmente l’intero sistema climatico è fuori controllo e le forze esterne che hanno innescato questo cambiamento sono legate alle azioni dell’uomo. Come si vede nel grafico sottostante il solo impatto della natura sul clima avrebbe causato un aumento della temperatura di 0,4°C rispetto all’era preindustriale. Nel peggiore dei casi. Ma l’attività umana ha fatto si che l’aumento effettivo sia stato di 0,6°C. L’obiettivo, fissato dagli accordi di Parigi, è di limitare l’aumento a 1,5°C, anche se secondo alcuni modelli si potrebbe arrivare addirittura ad un incremento di 7°C.

5) Il 99,9% degli scienziati è d’accordo
Gli scienziati, colpiti dagli scettici secondo cui non tutti gli scienziati concordano sul cambiamento climatico, hanno iniziato a studiare il consenso scientifico in materia. Risultato: tra il 97% e il 99,94% delle pubblicazioni scientifiche afferma che il cambiamento climatico esiste ed è generato dall’attività umana. In altre parole, c’è consenso sul cambiamento climatico antropogenico (causato dall’uomo) e consenso su questo consenso.

100 anni dalla morte di Pierre-Auguste Renoir: alle origini del mito

I raggi del sole passano attraverso le tende e le discussioni dei clienti abituali del ristorante si possono già sentire al piano terra. È una mattina dell’estate del 1880. Pierre Auguste Renoir, 39 anni, affitta una piccola stanza alla Maison Fournaise, una sala da ballo alla moda sull’isola di Chatou.

Dato che il tempo è stato buono, il pittore ha in mente un solo progetto. Vuole creare una grande tela che mostri i giovani che vengono in canoa sulla Senna.
“Impossibile andare a Parigi a causa della mia pittura”, ha scritto recentemente ad un mercante d’arte che voleva vederlo. Questo famoso Pranzo in barca diventerà in seguito una delle sue più emblematiche opere.

Renoir conosce la Senna come le sue tasche e ne sente la nostalgia, quando lascia Parigi per dieci anni. Attratto dalla natura, prende regolarmente il treno per Argenteuil o Chatou per godersi la campagna. Già nel 1869, dipinge le borghesi parigine che vengono in barca a La Grenouillère.
Amico di Claude Monet, accompagna spesso chiunque sia interessato all’acqua e ai suoi riflessi. Renoir dipinge il suo celebre ritratto ad Argenteuil nel 1873.

Pierre-Auguste Renoir, Autoritratto.
Questa parte del dipartimento della Senna e dell’Oise, ora Yvelines, è esattamente ciò che Renoir vuole dipingere. “Ha viaggiato molto”, spiega Anne Galloyer, curatrice del museo Fournaise di Chatou. “Più che di paesaggi, Renoir era interessato alle persone”, aggiunge.

La passione per la canoa e ai pranzi in campagna è tramontata all’inizio del XX secolo. L’albergo-ristorante della famiglia Fournaise ha chiuso ed è caduto in rovina. Solo negli anni ’80 il comune e un’associazione hanno gradualmente restaurato i locali.
“Questa è l’ultima traccia di un edificio legato agli impressionisti della Val-de-Seine”, ha detto Eric Dumoulin, sindaco di Chatou. È grazie a Renoir che la città è conosciuta in tutto il mondo.
Tornata ad essere un ristorante nel 1990, la Maison Fournaise sta per chiudere di nuovo, per un anno di lavori. Chissà che cosa ne penserebbe Renoir…

“Tutti i nostri clienti vogliono mangiare sul balcone di Renoir”, sospira Peter Ruiter, il direttore dell’hotel.
“Bisogna continuare a sorridere, quando in molti annullano quando piove o si preoccupano più di Renoir di quello che c’è sul piatto”, aggiunge il direttore. Ma va cosi…
Renoir è ovunque.

Dopo “Il pranzo in barca”, Renoir pian pianino si stancò della Maison Fournaise.
E partì per l’Italia. Influenzato dalla pittura rinascimentale, il pittore cambiò stile e si allontanò dall’impressionismo.
Pierre Auguste Renoir si stabilì, quindi, nella regione dello Champagne per un po’ di tempo e morì esattamente 100 anni fa, il 3 dicembre 1919, a Cagnes-sur-Mer.
Un secolo dopo, l’opera che tanto lo occupò durante l’estate del 1880 è un ricordo di una giornata di festa sulle rive della Senna.
Un ricordo ancora vivo.

Invidia francese: i politici criticano la Ferrero sugli Champs-Élysées

Polemica politica, sincera preoccupazione per l’ambiente o solo invidia francese?

Dall’inaugurazione delle luci di Natale sugli Champs-Élysées, lo scorso 24 novembre, diversi candidati alla poltrona di sindaco di Parigi hanno contestato la scelta dello sponsor delle luminarie natalizie: la società Ferrero.
“Cosi il Natale sarà sotto il segno della deforestazione e dell’obesità infantile“, ha twittato il candidato ambientalista David Belliard, in riferimento all’olio di palma utilizzato dalla Nutella per produrre la celeberrima Nutella.

Il comune di Parigi ha svenduto gli Champs-Élysées come mega vetrina di Natale per la Nutella! La Nutella non solo è dannosa per la salute, ma contribuisce anche alla deforestazione nell’Asia meridionale, perché viene prodotta con olio di palma. Parigi non è in vendita”, ha commentato l’ex calciatore Vikash Dhorasoo, candidato di “Decidiamo Parigi”.

Diversi funzionari eletti sono rimasti sorpresi che il comune di Parigi abbia approvato una sponsorizzazione da parte di un’azienda che considerano “non etica”.
“Siamo molto lontani dalla cooperativa agricola, dove i nostri figli potrebbero mangiare bene”, ha risposto Isabelle Saporta (candidata anche lei, guarda un po’) al sindaco di Parigi, Anne Hidalgo, che aveva inviato un messaggio sui social network per annunciare le luminarie di fine anno, in programma fino al 2020.
Soprattutto perché nelle ultime settimane, la città di Parigi non si è astenuta dal criticare o respingere alcune sponsorizzazioni previste per i Giochi Olimpici del 2024 (Total e Airbnb, ad esempio).

Da parte del comitato degli Champs-Élysées, che ha negoziato il contratto con Ferrero, il cui nome appare su grandi stendardi rossi lungo uno dei viali più famosi del mondo, la controversia appare fastidiosa. “La città non interviene nel processo di selezione e Ferrero è un’azienda che ha prodotti venduti in tutti i negozi in Francia. Per quanto ne so, non sono proibiti“, dice Jean-Noël Reinhardt, il presidente del comitato degli Champs-Élysées.

A cui non si può nemmeno rinfacciare, visto il nome, una lontana origine italiana…

Ha aggiunto Reinhardt: “La Ferrero ha implementato molti processi e nel 2020 avranno la tracciabilità su tutti i loro prodotti. Il loro olio di palma proviene al 100% da un’agricoltura sostenibile, dal 2015. Tutta questa è solo una polemica puramente opportunistica, quattro mesi prima delle elezioni del sindaco di Parigi”.

NEI PIANI ALTI DI UEFA E FIGC NON CI SONO NERI: È UN PROBLEMA PER LA LOTTA CONTRO IL RAZZISMO?

Nei piani alti di Uefa e Figc, le due massime istituzioni calcistiche in Italia e in Europa che dichiarano di voler lottare contro il razzismo negli stadi, non esistono dirigenti di colore. Chi prende le decisioni più importanti è sempre bianco.

Nel Comitato esecutivo della Uefa non esistono infatti manager neri, mentre nel Consiglio federale della Figc c’è un solo consigliere di colore, anche se non parliamo di un dirigente sportivo ma di un’atleta: si tratta di Sara Gama, capitano della nazionale italiana femminile, eletta nella quota del sindacato dei calciatori.

Ma quanto influisce questa mancanza di rappresentanza delle minoranze etniche negli organi che poi hanno la responsabilità di debellare il razzismo dagli stadi?

Il Comitato esecutivo rappresenta il cuore decisionale della Uefa: è composto dal presidente, da altri 16 membri eletti dal Congresso Uefa – a sua volta formato dai presidenti delle federazioni calcistiche delle 55 nazioni che aderiscono all’associazione – da due membri eletti dai Club Europei e da un membro eletto dalle Leghe Europee.

Nel comitato vengono prese tutte le decisioni più importanti: qui tra tra i dirigenti l’unico a non essere di etnia caucasica è Nasser Al-Khelaifi, qatariota, presidente della Qatar Sports Investments, del Paris Saint-Germain e degli studi cinematografici di Los Angeles Miramax, nonchè membro del consiglio di amministrazione del fondo sovrano del Qatar.

Ma la struttura della Uefa non finisce qui: oltre il comitato, ci sono organi interni e minori come quelli per l’Amministrazione della Giustizia, Il Consiglio Strategico per il Calcio Professionistico e poi le Commissioni e i Panel.

Questi ultimi due rappresentano, come si legge sul sito stesso della Federazione, “la linea politica Uefa per quanto riguarda le diverse declinazioni del calcio europeo”. Dalle questioni mediche ai trasferimenti dei giocatori, fino agli arbitri e alla finanza, sono tanti gli argomenti sul tavolo di questi due organi, che possono sottoporre delle proposte al Comitato Esecutivo.

Qui troviamo dei dirigenti neri: andando a leggere i nomi resi pubblici che figurano tra le Commissioni e i Panel del mandato 2019-2023 se ne contano tre su più di 450 ruoli. Uno di questi fa parte della Commissione per il “Fair Play and Social Responsibility” – il team che si occupa di etica e delle implicazioni sociali del calcio in Europa – composta da 23 membri. Si tratta dell’ex calciatore inglese Paul Elliott.

Nonostante Uefa e Figc siano istituzioni private e non siano obbligate ad avere politiche inclusive è evidente l’impatto che il loro operato ha sulla società. E sebbene uno dei motti della Uefa sia “No to racism”il fenomeno nello sport è un problema ben lungi dall’essere debellato.

È giusto di pochi giorni fa l’ultima uscita controversa di un alto dirigente del football italiano, il presidente del Brescia, Massimo Cellino: “Balotelli è nero, ma sta lavorando per schiarirsi e ha molte difficoltà”.

L’ufficio stampa della Uefa ha dichiarato “Siamo fermamente convinti di avere un forte network di persone in grado di lavorare al problema del razzismo” e ha fatto cenno a un sondaggio condotto nel 2018 che ha dimostrato come su 820 membri dello staff della Uefa, l’86% si dichiara di etnia caucasica, mentre il 14% si identifica in una diversa etnia. L’ufficio stampa ha anche commentato: “Attualmente ci sono 48 nazionalità rappresentate nella Uefa: la nostra organizzazione ha membri del personale che rappresentano tutti i continenti del pianeta, ad eccezione dell’Antartide”.

Tuttavia, Uefa non specifica se questo 14% di persone di etnia non caucasica ricopra ruoli decisionali fondamentali o meno.

Il fatto che ci siano così poche persone nere nei piani alti nella dirigenza del calcio rende quindi la battaglia contro il razzismo negli stadi più debole?

o abbiamo chiesto al sociologo Ben Carrington, all’esperto di diritto sportivo Massimo Coccia e al primo calciatore nero ad avere indossato la maglia della nazionale italiana Joseph Dayo Oshadogan.

A detta di Carrington, professore della University of Southern California e autore di quattro libri sul razzismo e sullo sport: “Le risposte pateticamente deboli al razzismo da parte della Uefa possono, in parte, essere attribuite al fatto che ci sono troppi funzionari bianchi che non prendono sul serio il problema”.

Il sociologo commenta: “La Uefa e le altre organizzazioni sportive non riflettono adeguatamente sul fatto che continuano ad essere, come le definì l’ex direttore generale della Bbc, Greg Dyke, ‘orribilmente bianche’. Dato il gran numero di calciatori neri che giocano ai massimi livelli, la Uefa e i club sportivi dovrebbero essere più attenti a garantire una presenza multiculturale, nella sala riunioni così come in campo” continua Carrington, pur precisando: “Avere più persone nere nei piani alti aumenta le possibilità che la lotta contro il razzismo sia effettivamente una lotta invece che una presa di posizione solo simbolica, ma di per sé non garantisce nulla”.

Quel che è certo è che limitare il campo di questa battaglia ai confini dello stadio, secondo Carrington, non basta.

Il calcio è felice di vedere, celebrare e per certi aspetti utilizzare i corpi dei calciatori neri attraverso le loro prestazioni atletiche, ma sembra non avere alcun desiderio di permettergli di entrare negli spazi del potere”, spiega Carrington.

Secondo il sociologo, per ora: “La Uefa si limita a dire ‘non sono razzista’, ma essere antirazzisti è una cosa diversa. Una migliore rappresentanza dei neri e di altre minoranze etniche è un passo importante, ma se non c’è una critica e una comprensione del razzismo istituzionale, parliamo di provvedimenti soltanto di facciata, finiamo per accontentarci di un volto nero in più in mezzo a un’istituzione sempre bianca”.

Guardando al campo da gioco più ristretto della Figc, la situazione non cambia di molto: tra i dirigenti degli Organi direttivi centrali e il Comitato di presidenza non si contano persone di colore, ma nel Consiglio federale – tra i più importanti organi decisionali della federazione – si conta un consigliere nero: parliamo di Sara Gama, capitano della nazionale italiana femminile, a rappresentaza del sindacato dei calciatori AIC.

Tra le commissioni della Federazione risulta anche una apposita per l’integrazione presieduta dalla ex campionessa Fiona May. Contattato da Euronews, l’ufficio stampa della Figc non ha risposto alle nostre domande.

Massimo Coccia, esperto di diritto sportivo, nel 2006 ha partecipato alla stesura di un articolo del codice di giustizia sportiva della Figc sulla “responsabilità per comportamenti discriminatori”: nonostante da allora secondo l’esperto non si è fatto abbastanza per sconfiggere il razzismo negli stadi, la questione è molto complessa.

Si potrebbe introdurre l’obbligo di inserire nelle liste dei candidati alle cariche federali una quota per rappresentare le minoranze, come viene fatto spesso per le donne, ma non bisogna dimenticare una cosa: fare il dirigente sportivo in molti casi vuol dire avere tempo e avere un certo benessere economico. I membri del Consiglio federale della Fgic, per esempio, non prendono alcuno stipendio. Anche il presidente ha diritto solo a un’indennità” argomenta Coccia.

Mio figlio ha giocato a basket e ha avuto molti compagni figli di immigrati, di tutte le etnie. Ma quanti di quei bambini che ora giocano a basket da grandi avranno il tempo e i soldi per diventare dirigenti sportivi? Parliamo di una questione politica che riguarda tutta la società, e non solo lo sport”, conclude l’esperto.
Oshadogan, primo calciatore nero nella nazionale: “Sono stato solo il ‘primo normale’”

Per Joseph Dayo Oshadogan, ex calciatore del Foggia, primo giocatore nero ad indossare la maglia della nazionale italiana: “Parlare di razzismo è piu semplice per chi lo ha sperimentato sulla propria pelle. Sono esperienze crude e forti difficili da immaginare altrimenti ma – commenta l’ex sportivo – se parliamo di istituzioni che lavorano fuori dal campo, credo che il numero delle persone di colore nelle dirigenze sia una questione puramente meritocratica: non metto la questione sullo stesso piano degli episodi di razzismo durante le partite.”

L’ex giocatore si dichiara cautamente ottimista: “Dopo anni posso dire che finalmente siamo passati dal ‘sono solo i soliti pochi’ a ‘anche se sono pochi vanno puniti’” afferma il calciatore, che ancora oggi spiega di non sentirsi un simbolo e racconta: “Prendere la maglia è stata un’esperienza bellissima come per tutti gli altri: il caso mediatico è scoppiato dopo. Io sono capitato nella nazionale, non come simbolo, ma come il ‘primo normale’. Rappresentare l’Italia per me era soltanto il sogno di un bambino”.

L’autunno caldo del mondo

Otto anni dopo la primavera araba, è il momento di un nuovo autunno, altrettanto caldo.
Il mondo è attraversato da un’ondata di proteste senza precedenti, da Hong Kong al Cile, passando per la Francia e la Catalogna: nonostante le coordinate geografiche siano molto diverse tra loro, il minimo comune denominatore delle rivolte, a detta delle organizzazioni per i diritti umani consultate da Euronews, è la repressione.

Nonostante questa nuova ondata di proteste abbia analogie con la primavera araba del 2011 – per esempio il ruolo chiave dei social network nella rapida espansione e organizzazione delle manifestazioni – l’estensione delle rivolte della società civile, che hanno abbracciato tantissimi paesi in diversi continenti, è del tutto nuova.

Demonstrators chant slogans outside of a church at a rally marking International Day for the Elimination of Violence against Women amidst protests against Chile’s government, in Valparaiso, Chile November 25, 2019. REUTERS/Rodrigo Garrido
Non importa in che lingua vengano scanditi gli slogan dei manifestanti: l’insostenibile costo della vita, la corruzione e la contestazione politica sono i fattori che hanno portato le persone a scendere in strada, a prescindere dal contesto della rivolta.

Secondo Geneviève Garrigos, responsabile delle Americhe per Amnesty International in Francia, nonostante le complessità e particolarità delle proteste, è possibile individuare alcuni elementi comuni che caratterizzano questo momento storico così eccezionale: la lotta per la salvaguardia dei propri diritti.

“In alcuni paesi, come l’Egitto, il Libano e l’Iraq, le proteste nascono per denunciare la corruzione che nega ai cittadini i propri diritti”, afferma Garrigos.

In altri paesi, invece, si è scesi in piazza contro il costo della vita: succede in Francia, Cile o Nicaragua. In questo paese per esempio le proteste si sono scatenate a seguito della riforma delle pensioni, anche se gli studenti si erano già mobilitati contro l’incendio della riserva dell’Indio Maíz.

Molti manifestanti si ribellano contro le disuguaglianze, un caso fra tutti il Cile, che è uno dei paesi con le disuguaglianze più marcate. Contesti con equilibri precari a cui spesso si sommano i problemi derivanti dal cambiamento climatico.

Un’altra grande famiglia di proteste è quella che denuncia la privazione della propria libertà civile e politica. Lo vediamo a Hong Kong, in Catalogna o in Bolivia, dove le proteste sono scoppiate a seguito di sospetti brogli elettorali o per rivendicare una propria autonomia.

Riot police officers detain a demonstrator during protests against Chile’s government, in Santiago, Chile November 25, 2019. REUTERS/Ivan Alvarado – RC2NID9XD6Q4

Transgender Day of Remembrance: i dati della discriminazione

Mentre tutto il mondo, il 20 novembre, ha celebrato il Transgender Day of Remembrance (il Giorno del Ricordo delle vittime dell’odio e della discriminazione sessuale), un nuovo rapporto di Transrespect Versus Transphobia Worldwide sostiene 331 persone transessuali e transgender sono state uccise tra settembre 2018 e settembre 2019, calcolando tutti i paesi del mondo.
Il Brasile ha registrato il maggior numero di questi crimini motivati dall’odio, con 130 omicidi segnalati. Il Messico ne registra 63 e gli Stati Uniti 30.
Un altro dato inquietante: dal gennaio 2008 da oggi sono state uccise 3.317 transessuali e persone con identità di genere.
La discriminazione nei confronti dei transessuali e delle persone con identità di genere è reale e profonda in tutto il mondo, e fanno parte di un cerchio strutturale e continuo di oppressione che ci tiene privati dei nostri diritti fondamentali“, spiega il rapporto.
Le persone transessuali e le persone con identità di genere sono vittime di orribili violenze di odio, tra cui estorsioni, aggressioni fisiche e sessuali e omicidi. Nella maggior parte dei paesi, i dati sulle persone uccise, sia transessuali che di genere, non sono prodotti sistematicamente ed è impossibile stimare il numero effettivo di casi“.

Alcuni di questi omicidi non vengono denunciati perché le vittime sono state maltrattate dai media. Le famiglie delle vittime a volte rifiutano di riconoscere lo status di transessuale di qualcuno e forniscono informazioni errate alle autorità.

Le donne transgender di colore vivono una situazione di forte stress, perchè sono le più a rischio“, spiega il Presidente della Human Rights Campaign (HRC), Alphonso David.
Ognuna di queste vite recise tragicamente rafforza l’urgente necessità di agire su tutti i fronti per porre fine a questa epidemia, dai legislatori e dalle forze dell’ordine, ai media e alle nostre comunità“.
Secondo le informazioni dell’HRC il 91% delle donne transessuali uccise negli Stati Uniti nel 2019 erano nere. Oltre l’80% delle vittime era di età inferiore ai 30 anni. Di tutti gli omicidi segnalati, il 68 per cento delle vittime viveva nel sud degli Stati Uniti.
Secondo i dati del Federal Bureau of Investigation (FBI), 1.445 persone sono state vittime di crimini motivati dall’odio, in cui l’orientamento sessuale era la vera motivazione. Gli attacchi fisici alle persone transgender sono aumentati del 34%.
L’avvocato transgender Gwendolyn Ann Smith ha iniziato a seguire il Transgender Day of Remembrance nel 1999 per commemorare Rita Hester, una donna transgender accoltellata a morte nel Massachusetts nel 1998. L’omicidio di Hester è rimasto tuttora irrisolto.

Il Transgender Day of Remembrance cerca di evidenziare le difficoltà che dobbiamo affrontare a causa del bigottismo e della violenza anti-transgender“, ha detto l’avvocato Smith. “Non sono estranea alla necessità di lottare per i nostri diritti e il diritto di esistere, semplicemente. Con così tante persone che cercano di cancellare i transessuali e i transgender, a volte nel modo più brutale possibile, è di vitale importanza che coloro che abbiamo perso siano ricordati e che noi continuiamo a lottare per la loro giustizia e la nostra libertà“.

Govone, il “Magico Paese del Natale”

Le prime nevicate dell’inverno ci trascinano, quasi inconsapevolmente, verso l’atmosfera natalizia, e ancor di più se nelle nostre famiglie ci sono bambini: vivranno il Natale e l’attesa dell’arrivo (davvero dal camino? Oppure per strada con la slitta?) di Babbo Natale come un periodo magico.

E un’altra esperienza natalizia magica, per i bambini, ma anche per gli adulti, è “Il Magico Paese di Natale“: lo troviamo a Govone (Cuneo), tra le colline di Langhe-Roero e Monferrato, paesaggio vitivinicolo Patrimonio Mondiale Unesco.

Novità di quest’anno sono quattro weekend tematici, coinvolgenti animazioni e il ritorno del treno storico per vivere lo spirito del Natale viaggiando su carrozze d’altri tempi.

Un evento che, nella sua edizione 2018, ha visto la presenza di oltre 200.000 persone e un indotto per il territorio stimato tra i 26 e 27 milioni di euro, con un incremento sempre maggiore di visitatori stranieri ad una delle più note manifestazioni italiane dedicate al Natale.

Fino al 23 dicembre, infatti, per tutti i weekend, il borgo di Govone diventa “Il Magico Paese di Natale”, dove è possibile incontrare Babbo Natale, partecipando a un vero e proprio spettacolo musicale alla cui conclusione arriverà il leggendario Santa Claus.

Quest’anno lo spettacolo che va in scena nella Casa di Babbo Natale è dedicato alla storia di Rudolph e di come sia riuscita a diventare la famosa renna che oggi conosciamo, perseverando nell’inseguire il suo sogno oltre il comune pregiudizio, che la voleva inadatta a trainare la slitta di Santa Claus.

Torna anche il Mercatino Natalizio, che quest’anno raggiunge quota 110 selezionati espositori, diventando il primo in Italia per numero di partecipanti, ma – soprattutto – premiato con la candidatura ai Best European Christmas Markets come unico rappresentante per l’Italia.
Govone è in lizza per aggiudicarsi un risultato importante e, per farlo, sfida Tallin, vincitrice dell’ultima edizione, e numerose altre città europee, tra cui le capitali Praga, Budapest, Vienna e Bruxelles.

A celebrare il Natale cristiano, dopo la mostra dedicata al presepe dello scorso anno, quest’anno arriva un concorso dedicato ad artisti, professionisti e amanti del presepe, collocato all’interno del Castello di Govone, tra scene di vita e antichi mestieri.

“Adeste Fideles”: un’esposizione che coinvolge maestri presepai provenienti da diverse zone d’Italia, con particolare attenzione alla produzione artistica piemontese.

A tutto questo si aggiunge la possibilità di completare la propria esperienza natalizia ascoltando i Christmas Carols, che ripropongono i canti natalizi all’aperto in stile Vittoriano, visitando la splendida residenza sabauda di Govone, oppure concedendosi una pausa enogastronomica tra la Locanda, la Bottega e le postazioni dedicate allo Street Food.

Per i più piccoli è possibile divertirsi nel mini parco avventura, con il Gioco dell’Oca nel giardino all’italiana del Castello, con spettacoli e varie attività di laboratorio.

Dal 23 novembre, inoltre, ciascun fine settimana è dedicato a un tema che di volta in volta viene sviluppato.
Si parte dalla letteratura per bambini in collaborazione con il Comune di Cavalermaggiore (Cuneo), che ospita in concomitanza la Fiera Piemontese dell’editoria, passando per il Festival del Cibo, con il lavoro a quattro mani realizzato con l’Assessorato all’Agricoltura e al Cibo della Regione Piemonte, fino al weekend dedicato al tema del gioco, con proposte sia per il pubblico dei più piccoli che degli adulti, grazie alla professionalità e competenza dello staff de La Collina degli Elfi Onlus.

La 13esima edizione de “Il Magico Paese di Natale” vede, infine, il grande ritorno del Treno storico, in collaborazione con la Regione Piemonte e la Fondazione Ferrovie dello Stato.
Un viaggio indimenticabile e davvero suggestivo per tutta la famiglia, accompagnato durante il percorso da magiche figure che animano e creano una speciale atmosfera e, al ritorno, da un brindisi con le bollicine del Consorzio dell’Asti DOCG.