Sul tema dei crescenti casi di discriminazione abbiamo sentito Enzo Risso, direttore di SWG, autore di una indagine sulla percezione del razzismo.
– Cristiano Tassinari, Euronews:
“Questa ricerca riguarda il razzismo in generale o segnala qualcosa di particolare, semmai un rigurgito di antisemitismo? Oggi ci sono notizie di un cimitero profanato in Danimarca…”.
Enzo Risso, SWG:
“Noi abbiamo un’indagine stabile su tutti quelli che sono gli indicatori dell’andamento della società italiana, tra cui c’è un indicatore con una domanda che chiede alle persone se gli atteggiamenti razzisti, cioè di discriminazione di sesso, religione, etnia, eccetera…sono giustificabili oppure no. E ha una modalità di risposta che dice: “Non sono mai giustificabili” oppure “sono sempre giustificabili” o “talvolta, nella maggior parte dei casi, sono giustificabili”, “sono giustificabili solo in casi eccezionali” o “sono giustificabili solo per alcuni particolari eventi”. A questa domanda, abbiamo il 45% di persone che dice “No, non sono mai giustificabili”, un 10% che risponde “si, sono più o meno giustificabili” e un altro 45% che trova in qualche modo che possa esserci “qualche occasione in cui sono giustificabili”.
Non si tratta di pigiare l’acceleratore sul fatto che ci sia una recrudescenza razzista, si tratta solamente di prendere atto e segnalare con una certa preoccupazione che gli anticorpi nei confronti degli atteggiamenti discriminatori non sono cosi dinamici, non sono cosi presenti, cioè sono presenti nel 45% dei casi, ma c’è una maggioranza di persone che, in qualche modo, qualche volta, potrebbe anche giustificare gli atti di discriminazione”.
– Cristiano Tassinari, Euronews:
“Cosa intende per anticorpi?”
Enzo Risso, SWG:
“Anticorpi, cioè il ripudio assoluto. E far scattare nelle persone il fatto che si deve rifiutare qualsiasi tipo di atteggiamento discriminatorio. È chiaro che sei vado a chiedere a qualcuno se è giusto sprangare una persona, mi dice di no, sia ben chiaro, però può essere che le persone comincino aper esempio d essere più superficiali rispetto a certi atti, come l’uso di termini razzisti o discriminatori sui social, oppure non dà tutto questo fastidio che durante una partita allo stadio ci siano cori nei confronti di un giocatore di olore… Ecco, questi sono gli anticorpi. Gli anticorpi in cui un atteggiamento discriminatorio viene in qualche modo sottostimato, mettiamola così”.
– Cristiano Tassinari, Euronews:
“Ma perchè così tanta gente, secondo lei, arriva a giustificare non dico il razzismo, ma…”.
Enzo Risso, SWG: “Intanto abbiamo un 45% che non lo giustifica…“.
– Cristiano Tassinari, Euronews:
“…però c’è una bella fetta che, con i dovuti distinguo, li giustifica… È colpa dell’influenza mediatica, dei social? O è il mondo che è cambiato? Visto che parliamo di percezioni, lei che percezione ha?”
Enzo Risso, SWG:
“Sicuramente il dato principale è il fatto che in questi anni si è affievolita la capacità di trovare il confine dell’accettabile o dell’inaccettabile. La Rete ci ha abituato che si può dire qualsiasi cosa, tanto non è nulla di grave… Si è affievolito questo confine, è come se le aree di libero insulto stessero prendendo sempre più piede e ci si abituasse alla tendenza ad estremizzare e usare un linguaggio che non è adeguato ad una società civile. E poi si viene in qualche modo ad affievolire quella coscienza di cosa è successo nella storia, cosa ha portato, gli eccessi di razzismo… Come se sempre di più si allontanassero quei fatti e non se ne riuscisse a tenere conto e a tenere a memoria i danni che hanno provocato“.
– Cristiano Tassinari, Euronews:
“Poichè la vostra è una ricerca sulle percezioni, all’allerta-razzismo corrisponde un aumento reale degli episodi di razzismo e discriminazione? Quanto conta il rilancio mediatico di episodi che di volta in volta vengono a galla, come il caso, ad esempio, di Liliana Segre? Esiste un aumento reale degli episodi di intollerenza?
Enzo Risso, SWG:
“È abbastanza evidente, e credo che voi giornalistI lo testimoniate ogni giorno. È chiaro che ci sono minoranze che in questo momento si sentono più giustificate a far emergere il loro pensiero, perchè avvertono che quegli anticorpi, cosi forti in passato nella nostra società europea, oggi sono più deboli. E qui c’è un insieme di concause: non da ultimo il fatto che, in tutti i paesi europei, rispetto al tema immigrazione, c’è un aumento della recrudescenza e della spinta della dimensione di respingimento. Anche la dimensione di essere “prima noi”, “prima gli italiani, prima i tedeschi, prima gli spagnoli, prima i francesi….” è forte nel cuore del continente. E questo deve far riflettere“.
Estanislao Fernández è il figlio di Alberto Fernández, neo eletto Presidente dell’Argentina. Estanislao Fernández ha 24 anni e sul suo profilo Instagram, con il nome d’arte “Dyhzy” (190.000 followers, crescono di migliaia di unità giorno dopo giorno), si autodefinisce Drag Queen, Cosplayer e Streamer. Era già un personaggio nel nostro mondo, soprattutto in Sudamerica, ora “rischia” di diventare davvero un Vip. Il bello è che Estanislao ha un ottimo rapporto con il papà Presidente e con tutta la famiglia, a tal punto che il numero 1 dell’Argentina ha recentemente dichiarato: “Mio figlio è una delle persone più creative che abbia mai conosciuto“. E alla domanda, scontata, sul fatto che Estanislao possa essere una presenza “ingombrante” per la sua attività politica, il Presidente ha cosi risposto: “Mio figlio è un attivista per i diritti della comunità LGBT. Mi preoccuperei se fosse un criminale, ma è una bella persona. Sono molto orgoglioso di Estanislao“.
Naturalmente papà e figlioFernández sono abituati a qualche critica e sfottò “social” di troppo, dall’opposizione argentina o da Eduardo Bolsonaro, figlio del Presidente brasiliano, ma loro non ci fanno caso e tirano dritto per la loro strada: Alberto Fernández per risollevarsi le sorti, soprattutto economiche, di un grande paese perennemente in crisi come l’Argentina e Estanislao nella sua vita di tutti i giorni, vive con la fidanzata in un appartamento di Buenos Aires, lavora come impiegato in una compagnia di assicurazioni, studia design e si diverte a vivere la propria vita, sempre se stesso, anche se sotto un travestimento.
Di entrambi, padre e figlio, ne sentiremo ancora parlare, ne siamo certi.
Dopo il dietro-front di Trump e l’immediato attacco della Turchia ai curdi, ora la situazione della “sporca guerra” al turco-siriano è cosi delineata: i territori sono sotto l’amministrazione turca, con una importante supervisione russa – sono appena cominciati i pattugliamenti congiunti tra truppe di Ankara e di Mosca -, i curdi delle milizie YPG sono stati ricacciati indietro, oltre il “cuscinetto” di sicurezza voluto da Erdogan, il “Califfo” dello Stato Islamico Al-Baghdadi si è fatto saltare in aria e il Presidente siriano Assad non si fida di Erdogan e tifa per Putin.
Ma quello che succede da anni in Siria e come viene raccontato è l’ennesima prova del fatto che, per fortuna, noi la violenza della guerra la guardiamo da lontano e rischiamo di banalizzarla e non comprenderla. Non solo in Europa ma anche nei Paesi coinvolti in questa guerra direttamente.
Senz’altro coloro che attuano la guerra la legittimano attraverso i loro scenari pubblici. La legittimazione ovviamente ha bisogno di una forte propaganda e cresce facilmente su un terreno fertile. La Turchia da questi due punti di vista è un grande laboratorio.
Legittimare la guerra
L’attuale governo di Ankara sostiene di portare avanti una causa sacra e santa: la lotta contro il terrorismo. Per comprendere meglio questa legittimazione bisognerebbe guardare alcune dinamiche politiche ma anche sociologiche dominanti all’interno della società turca. Altrimenti si rischia di cadere nella banalità della “guerra tra i Turchi e Curdi”.
Una “vera” lotta contro il terrorismo
Le formazioni armate come YPG, YPJ e SDF insieme al partito politico PYD che hanno lottato contro le barbarie dell’Isis sono anche i difensori del confederalismo democratico. Si tratta di un progetto rivoluzionario ideato in parte dal filosofo socialista libertario Murray Bookchin e elaborato da Abdullah Ocalan, leader storico del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), formazione armata definita come “organizzazione terroristica” dalla Repubblica di Turchia e non solo. Ocalan è stato arrestato nel 1999 e rinchiuso in un carcere speciale, in isolamento, in un’isola nel Mar Marmara e condannato all’ergastolo.
E’ impossibile negare il legame tra le forze armate e politiche attive nel Nord della Siria con il PKK. La Turchia, attraverso numerosi governi, in questi ultimi 40 anni circa ha sempre portato avanti la lotta armata contro il PKK. In quest’ottica è “comprensibile” la posizione del governo di Ankara nel voler entrare in Rojava e “pulire il confine dai terroristi”.
Un’identità nazionale dominante
I conti rimasti in sospeso nei confronti di tutti quelli che non sono turchi-musulmani-sunniti ed eterosessuali, insieme alla “lotta contro il terrorismo” mescolata con la storia del “curdo separatista”, fanno sì che nella testa e nel cuore del cittadino ultra-nazionalista l’invasione del territorio siriano sia legittima.
Una società-esercitoA questo punto conta molto il ruolo del sistema scolastico ed il profilo sociologico fortemente militarista e nazionalista della società civile turca. E’ importante sottolineare che l’insegnamento della storia è fortemente ottomano-centrico e legittima tutte le guerre del vecchio impero. Contano molto l’inno nazionale che si canta ogni mattina, “il giuramento della gioventù turca al Padre fondatore della Repubblica”, le lezioni di “sicurezza nazionale”, contano persino i calciatori della nazionale turca che, in giro per l’Europa, festeggiano i loro buoni risultato facendo il saluto militare. Farina del loro sacco o sono stati obbligati?
Questo tema della società-esercito era stato messo in discussione da Hrant Dink, giornalista assassinato nel 2007, che parlava nei suoi articoli di come gli stessi cittadini armeni della Turchia siano stati sempre e solo visti come “una minaccia per la sicurezza nazionale” e della possibilità di convivenza pacifica con gli armeni, che passerebbe attraverso lo scardinamento di questi meccanismi paranoici. Questi stessi meccanismi, durante la rivolta del Parco Gezi nel 2013, erano alla base della campagna schizofrenica portata avanti dai media mainstream, secondo i quali erano le “forze straniere che avevano ideato e acceso i tafferugli”.
La spettacolarizzazione della guerra
Così diversi elementi della propaganda della guerra trovano successo nel trasmettere il loro messaggio con l’obiettivo di rafforzare il consenso popolare a favore delle politiche del governo centrale.
Un esempio di questi strumenti è ovviamente la televisione. “Milletin Duasi” è la “Preghiera della Nazione”, una canzone scritta e composta da Ibrahim Kalin, il portavoce del Presidente della Repubblica. Il video per questa canzone è stato realizzato dalla casa di produzione audiovisiva, Poll Production, in occasione dell’intervento militare in Siria nel 2018.
La canzone è stata animata da diversi cantanti molto famosi, veterani ed emergenti, di diversi generi musicali. Finora, su YouTube, circa 5 milioni di persone hanno visto questo video. Nel testo leggiamo delle frasi come: “Il popolo fa da scudo ai soldati in guerra che soccorrono gli oppressi. I soldati lottano con l’amore per la patria e rendono la vita insopportabile al nemico”.
Attraverso questo tipo di linguaggio e produzione audiovisiva si spettacolarizza la guerra e la si rende gloriosa. Forse persino piacevole, oltre che giusta.
Anche il linguaggio dei servizi televisivi in Turchia diventa di un certo tipo, durante la guerra. “I nostri gloriosi soldati sono in spedizione alla caccia dei terroristi. Le postazioni dei terroristi sono state colpite una per una. I terroristi escono dalle fogne e vengono presi dai soldati dell’esercito”.
In un servizio da tre minuti vengono aggiunti i rumori dei fucili nel sottofondo e dei carri che sparano, grandi scritte con il numero di “terroristi uccisi” vengono sovrapposte sulle immagini e l’avversario/il nemico viene definito come “traditore”. Così il popolo, nella sua casa calda, guarda a distanza, in tv, la guerra e l’uccisione del “brutto” come se fosse un videogioco.
La legittimazione e la spettacolarizzazione della guerra viene inculcata anche nelle teste degli studenti. In diverse città, in numerose scuole, gli allievi, nei cortili degli edifici scolastici fanno delle dimostrazioni a favore della guerra. Comporre la parola “Afrin”, disegnare con i corpi il “Ramoscello d’ulivo” oppure reggere delle gigantesche bandiere della Turchia. Non mancano ovviamente i canti collettivi dei brani ultranazionalisti che citano delle frasi come: “Ci siamo immersi nel sangue rosso per l’indipendenza. Abbiamo fatto capire al resto del mondo che il Turco è un soldato. Questo paese è turco e tutti si innamorano di questa nazione”.
Curdi, cento anni di di lotte e promesse mancate
E i curdi, i “deboli”, le vittime di questa situazione, di questa guerra?
Ai tradimenti i curdi sono abituati. Il ritiro degli Stati Uniti dalla Siria deciso da Trump, seguito dall’offensiva turca, è solo l’ultimo di una lunga serie. Il grande Kurdistan, sogno cullato da uno dei più grandi gruppi etnici senza uno stato, è sempre rimasto sulla carta.
Il primo tradimento è storia di quasi cento anni fa. È il 1920: il trattato di Sèvres sancisce la fine della prima guerra mondiale e dell’impero ottomano, ai curdi viene promessa la concessione di uno Stato autonomo nell’altopiano del Kurdistan.
Tre anni dopo a Losanna Regno Unito, Francia e Stati Uniti si rimangiano la parola, dando il via libera alla creazione di altri stati. Da quel comento comincia una storia costellata da delusioni cocenti e successi fugaci come la Repubblica di Mahabad, fondata nel 1946 e durata appena 11 mesi prima di essere rasa al suolo da Teheran.
Il 1972 è l’anno del primo tradimento americano. Lo Scià di Persia, Mohammad Reza Pahlavi, chiede agli Stati Uniti di appoggiare la rivolta dei curdi in Iraq. Il presidente americano Richard Nixon e il segretario di Stato Henry Kissinger accolgono la richiesta. Gli Usa armano i ribelli per destabilizzare Baghdad, ma tre anni dopo Iran e Iraq trovano un accordo e i curdi vengono lasciati al loro destino.
Il 1978 è l’anno di nascita del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) di Abdullah Ocalan. Il nord dell’Iraq diventa l’avamposto per la guerriglia contro Ankara: un conflitto destinato a segnare i quattro decenni successivi.
Negli anni ’80 i curdi si ritrovano ancora una volta in mezzo al conflitto tra Iran e Iraq. Saddam Hussein dà inizio al genocidio che culmina con l’attacco chimico di Halabja, dove muoiono circa 5mila persone.
La guerra del golfo nel 1991 rappresenta il secondo tradimento americano. Saddam reprime nel sangue la rivolta curda incoraggiata da Bush senior. I curdi sono costretti a rifugiarsi nelle montagne tra Turchia e Iraq. Se non altro gli Stati Uniti impongono una no-fly zone per salvarli dai bombardamenti: un accordo durato fino all’invasione americana del 2003 voluta da Bush junior.
Il resto è storia recente. Nel 2011 la guerra civile in Siria permette ai curdi siriani di formare un’amministrazione autonoma nel nord-est del Paese. Gli Stati Uniti gli danno man forte per combattere l’Isis. Un’alleanza finita con un altro tradimento.
La violenza della guerra (a cui ormai siamo abituati)
Il ritratto della storia dei curdi aiuta a comprendere l’atteggiamento aggressivo dei turchi nei loro confronti.
L’idea di una guerra “giusta, legittima e obbligatoria” rischia di far dimenticare alle popolazioni che comunque si tratta di un’azione violenta. Anche se contro gli odiati curdi. Ma questo è un “dettaglio” che importa ben poco al governo centrale che vuole ottenere un capillare sostegno. Quindi è necessario che ci sia un’entusiasmo collettivo in tutta la nazione. Facendo così, si può tranquillamente parlare del grande piacere (?) che si prova nell’uccidere le persone.
A questo punto si ricorda un grande prodotto cinematografico, “Benny’s video” del regista Michael Haneke. Film prodotto nel 1992, fa parte di una trilogia chiamata “della glaciazione” e cerca di raccontare come ormai le guerre vengono trasmesse in diretta e le persone vengono sottoposte sistematicamente alle immagini della violenza in un modo senza precedenti. Quindi, secondo Haneke, il mondo è vicino, più che mai, alle immagini di violenza e questo fatto rischia di annullare la distanza che dovrebbe esserci tra gli individui e la violenza reale.
Secondo il sociologo francese, Jean Baudrillard, le masse che non si pongono nessuna domanda sulla violenza che comprende la guerra guardano tutto come se assistessero ad uno spettacolo. Baudrillard fa un passo più avanti e sostiene che oggi, se non ci fossero i media, non ci potrebbero essere le guerre. Perché sono i media che diffondono “lo spettacolo della violenza”, rendendo la guerra una “goduria” di massa. E’ cosi che nasce il concetto di “pornografia della guerra”. Baudrillard sostiene che oggi la guerra sia l’alimento principale dei media e delle politiche repressive dei governi.
Rimanendo fedeli a questa lettura riusciamo a comprendere meglio perché le operazioni militari in Siria, volute dal governo di Ankara, si chiamino “Ramoscello d’ulivo” e “Sorgente di pace”…
Sessismo della resistenza e occidentalizzazione della lotta
Non credo che sia fuori luogo parlare dell’eventuale lavoro di spettacolarizzazione della guerra anche quando si parla dell’altra parte del confine. In questi ultimi anni l’immagine della “giovane e bella ragazza curda” ha riempito le nostre bacheche su Facebook, le copertine delle riviste e qualche volta anche il podio delle sfilate di moda. Con i suoi occhi blu, capelli pettinati e viso truccato la “resistente curda” veniva presentata quasi sempre priva di velo.
Infatti, nel 2016, le due importanti ufficiali delle Unità di Protezione delle Donne (YPJ), Jiyar Gol e Güney Yildiz hanno rilasciato un’intervista alla BBC parlando così: “Siamo rimaste deluse dalla rappresentazione sessista delle nostre compagne dai media occidentali”. Jiyar e Guney sottolineavano che facendo così i media distraevano il pubblico, allontanando l’attenzione dalle informazioni legate all’ideologia della loro lotta.
A questa riflessione va aggiunto anche il caso di Ahed Tamimi, la ragazza palestinese che diventò famosa grazie a un video del 2017 in cui aggrediva due militari israeliani dopo aver saputo che il cugino di 15 anni era stato ferito da un colpo alla testa ravvicinato durante una protesta. Condannata a 8 mesi di carcere e diventata il “simbolo della resistenza femminile palestinese”. Tuttavia, in Palestina, a resistere alle violenze non c’è soltanto Ahed.
La storia della resistenza femminile palestinese è piena di nomi importanti, come Naila Ayesh oppure Khalila Ghazal e Nimat Al Alami. Tuttavia una ragazza bianca, con un viso attraente e senza velo, forse corrisponde meglio ai canoni di bellezza occidentali e quindi risponde alle nostre “esigenze” ed “aspettative” da una donna resistente. Se fosse così, ovviamente anche qui si sentirebbe una forte puzza di sessismo, di “omologazione” e “normalizzazione”.
Quindi, grazie ad una serie di meccanismi di propaganda in tutti questi casi di guerra, di lotta contro il terrorismo oppure di resistenza contro gli occupanti, rischiamo di staccarci dalla realtà e di essere soltanto gli spettatori della simulazione. Una simulazione priva di veri contenuti della realtà, che soddisfa le nostre necessità assetate di sangue, scontro, violenza e sessismo. Che, purtoppo, nella realtà non mancano. Anzi.
“Ma com’è bella, sempre, la mia valle, in ogni stagione, dall’alba al tramonto. Di lei conosco tutto, le vette, i laghi, i canaloni, le praterie, le bergerie, i ponti, i guadi, le sorgenti, le fontane, i riu. Ma soprattutto i paesi e la gente“.
Inizia cosi l’introduzione di Claudio Bonifazio, fotografo “di alta quota”, al suo libro fotografico – interamente in bianco e nero – intitolato “Volti e Risvolti – Percorsi fotografici in Val Chisone” (Marco Valerio Editore).
Sono le parole di Riccardo Breuza, arrivato a Villaretto, nel cuore della Val Chisone, una delle valli più affascinanti del Piemonte, nel 1985.
Professione: impiegato dell’ufficio postale.
Segni particolari: amante della montagna.
Punto di riferimento: l’associazione culturale “La Valaddo”.
“Ho fatto tesoro della lezione di Riccardo Bauza“, racconta Claudio Bonifazio, “per questo lavoro che parte da una domanda: come si fa a trasmettere l’amore per la montagna, per i borghi, i suoi abitanti e le sue tradizioni, per le praterie, i fiori, gli animali, i sentieri e le cime? Ho provato a farlo: ed è questo il senso di questa mia raccolta di fotografie, per raccontare, con un pizzico di magia, grazie alla fotocamera, ciò che la montagna ci regala“.
– E che cosa ha scoperto, tra i regali della montagna?
“Il mio è stato un piccolo viaggio in un mondo che, per certi versi, è rimasto quello antico delle vecchie borgate, percorsi di transumanza, avvistamenti di flora e fauna, ambienti estivi e invernali. Un mondo di gente fiera, legata alla proprie tradizioni, tanto da tramandare di generazione in generazione usi e costumi del passato. Ma è anche un mondo che, dopo la spopolamento dei decenni passati”, conclude Claudio Bonifazio, “sta lentamente tornando ad essere abitato da chi, per scelta, vuole fare dell’ambiente montano il proprio spazio di vita”.
La storia dell’Isis affonda le radici nella seconda guerra dell’Iraq: il primo nucleo del gruppo nasce come filiale irachena di al Qaeda durante l’insurrezione contro le forze statunitensi.
Le redini Abu Bakhr al Baghdadi le prende nel 2012. Tre anni dopo essere stato liberato dal carcere statunitense di Camp Bucca – una vera e propria accademia del Jihad, dove si formano molti dei leader della futura insurrezione islamista – ricostituisce un’organizzazione ormai decimata e allo sbando: invia emissari per infiltrare la guerra civile siriana, e nel frattempo in Iraq si allea con ex militari e ufficiali del regime baathista di Saddam Hussein, dando inizio a una nuova insurrezione, che per la prima volta dal 2008 fa schizzare a 1000 la conta mensile dei decessi.
L’espansione territoriale inizia nel dicembre del 2013: la prima a cadere è la città irachena di Fallujah; un mese dopo è il turno di Raqqa in Siria, che assieme a Mosul diventerà capitale di un’entità territoriale denominata Stato islamico.
Per qualche mese, l’Isis sembra inarrestabile: cattura e decapita giornalisti e personale umanitario di fronte alle telecamere; saccheggia e distrugge monumenti e siti archeologici, si dota di una complessa macchina amministrativa, giuridica e burocratica e nel frattempo avanza verso le aree a maggioranza curda nel nord della Siria.
Proprio qui inizia, lenta ma inesorabile la disfatta del gruppo; i bombardamenti della coalizione internazionale respingono l’avanzata dei miliziani, che in Siria e in Iraq si ritrovano martellati dal cielo e inseguiti a terra da forze curde e irachene.
Nel 2017 cadono Mosul e Raqqa: perse le capitali, lo Stato islamico inizia a sgretolarsi: l’atto finale si consuma a Baghouz, cittadina siriana sulle rive dell’eufrate dove si asserragliano 5mila tra jihadisti, familiari e decine di ostaggi catturati negli anni precedenti.
La battaglia segna la fine dello Stato islamico come entità territoriale, ma non come forza combattente; dopo la morte di Al Baghdadi – subito innalzato a martire della guerra santa – i membri del gruppo attraverso la rete hanno giurato di continuare il Jihad e vendicare il vecchio leader
Siamo appena tornati dalla pizza del dopo spettacolo, un rito assolutamente immancabile per le compagnie teatrali. I “Teatroci” ringraziano tutti gli spettatori, gli amici, i conoscenti, gli sconosciuti, gli abbonati, gli appassionati di teatro che sono venuti a vederci al Teatro Cardinal Massaia di Torino (sempre grazie a Daniele Rinaldi), nella ”prima” di LO SAI LA GENTE È STRANA, la nostra sesta commedia dal 2015, un po’ diverse dalle altre con il concetto di “teatro a episodi”, sketch di variegata stranezza umana, intervallati dalla musica di Renato De Paolis e dalla voce della cantante Laura Verderone. Forse qualche grassa risata in meno, compensata da una riflessione dolceamara sulle umane debolezze… Il primo ringraziamento va alla nostra regista Erica Maria Del Zotto, sublime interprete, ad esempio, de “La moglie logorroica” e della operatrica di call center. Un applauso caloroso alle due “new entry” dei Teatroci: a cominciare da Antonella Argentini, volto e nome noto del firmamento teatrale piemontese, eccellente “single sconvinta” e “tabaccaiona” esplosiva! Bravissimo Massimo Bertocchi, altro esordiente con noi, ma studioso incallito del mondo-teatro, straordinario “bamboccione” dei giorni nostri e ripetente scolastico seriale. Onore e gloria all’autore del copione, Luca Bertalotti, oltretutto frizzante “vecchietto da cantiere” e inquietante “giocatore compulsivo”. Detto di Cristiano Tassinari nel ruolo quasi autobiografico del “giornalista incalzante”, bravissima Xhuana Giulia Ago nei panni dell’avvocato De Cavillis e dell’insospettabile Jessica Sex Bomb, convincentissima Paola Speranza come “mamma iper protettiva” e come spietata serial killer gentil…donna, flessibilissimo Francesco Lemmi, inconsapevole vittima di un’operatrice di call center, di una “moglie logorroica” e pure di una fidanzata che si annoia a seguire il calcio… petulantissima – per esigenze di copione, s’intende – Federica Fulco come “commessa adulatrice” e come professoressa Numerelli… E speriamo di riavere presto il capocomico Papus!!! Sempre mitici il nostro fotografo Claudio Bonifazio e il nostro sound and lights engineer Mirco Negri, sempre gentile l’amico Pasquale a farci le riprese tv. Ormai leggendaria la nostra precisissima direttrice di scena Patrizia Del Zotto. Bravissimo anche Santiago, che ha rallegrato il pubblico e anche il nostro dietro le quinte, senza fare troppo casino e senza far dannare la mamma, guardandoci come se pensasse “Lo sai gli adulti sono strani”…e ringraziamo Mia Martini che ci ha dato lo spunto per il titolo dello spettacolo. Tra il pubblico ringrazio per la presenza, tra gli altri, Gian CasagrandeRaffaele PetraruloDaniela Schembri VolpePatrizia la NeveMariapaola AlìLia MaroBarbara CaglieroMarina RotaPatty SolemarCarmine SalimbeneCarlotta Bisio e tanti altri, compresi Sergio Giunipero e Caterina Fera, Nicola Carnovale, Cesare Castellani e Marco Tracinà. E spero di non dimenticare nessuno! Domenica 17 novembre, replica di LO SAI LA GENTE È STRANA al Teatro Sant’Anna di Torino e domenica 26 gennaio 2020, “prima” di AMANTI…C’È POSTO al Teatro Cardinal Massaia di Torino. Seguiteci su Facebook sulla pagina “I Teatroci” o contattateci tramite i profili personali degli attori. Ciao a tutti!
CONDANNE pesantissime, ma non tanto come chiedeva la procura, né come da mesi reclamavano i partiti della destra spagnola. Due anni dopo le giornate convulse dell’ottobre 2017 – dal referendum illegale alla dichiarazione d’indipendenza approvata dal Parlamento di Barcellona – il Tribunale supremo di Madrid mette la parola fine al capitolo giudiziario della più grave crisi istituzionale degli ultimi 40 anni infliggendo pene fra i 9 e i 13 anni di carcere ai leader separatisti che all’epoca avevano responsabilità di governo.
In assenza dell’ex presidente Carles Puigdemont, da allora riparato in Belgio, e per il quale è stato emesso un nuovo mandato di cattura internazionale, la condanna più dura colpisce quello che era il suo vice, Oriol Junqueras, che è anche il leader, carismatico e indiscusso, della più forte formazione politica secessionista, Esquerra Republicana de Catalunya. Per lui, appunto, 13 anni, da scontare nella prigione catalana di Lledoners, dove è già rinchiuso da due.
Dodici anni di carcere per gli ex assessori Jordi Turull, Raül Romeva e Dolors Bassa, 11 e mezzo per l’ex presidente del Parlament, Carme Forcadell, 10 anni e mezzo per gli altri assessori Josep Rull e Joaquim Forn e 9 anni per gli unici due imputati che non avevano responsabilità dirette nell’amministrazione, Jordi Sànchez e Jordi Cuixart. “Los Jordis”, come sono conosciuti, erano i presidenti dei due grandi movimenti della società civile, Anc e Òmnium Cultural, che negli ultimi anni avevano organizzato le manifestazioni di massa dell’indipendentismo catalano. E furono loro a convocare anche la protesta del 20 settembre 2017 davanti alla sede dell’assessorato all’Economia, a Barcellona, subito dopo l’arresto di alcuni alti dirigenti dell’amministrazione regionale. Una manifestazione – maggioritariamente pacifica, ma con qualche incidente – che si protrasse per tutta la giornata, raccogliendo a sorpresa fino a 40mila persone mentre all’interno era ancora in corso la perquisizione da parte della Guardia Civile.
Quella protesta (seguita il 1° ottobre dalla giornata referendaria, con l’uso della forza da parte della polizia per tentare di impedire agli elettori di andare alle urne) è stata la base su cui la procura del Tribunale supremo ha costruito la tesi accusatoria contro gli indipendentisti, ipotizzando il reato di “ribellione”. Per il codice, una “sollevazione pubblica e violenta” nel tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale. In sostanza, un attentato alla Costituzione, un “golpe” come lo hanno definito gli stessi 4 procuratori che si sono alternati davanti al Tribunale supremo nei quattro mesi di processo, da febbraio fino al giugno scorso. Ma alla fine i sette giudici della più alta istanza giurisdizionale spagnola hanno accolto all’unanimità la tesi dell’avvocatura dello Stato (e quindi del governo) che parlava di “sedizione”. In questo caso si tratta di un reato contro l’ordine pubblico, una “sollevazione tumultuosa” per impedire l’applicazione delle leggi o non permettere all’autorità di applicare le “risoluzione amministrative e giudiziarie”.
“#poveraeuropa: nessuna posizione comune, neanche un documento comune di condanna della Ue per l’invasione turca del Kurdistan siriano.
Patetico Di Maio che dice “ora l’Europa parla con una sola voce”.
Ogni paese dovrà decidere in autonomia sul blocco delle esportazioni di armi a Erdogan. Che poi sarebbe solo una decisione simbolica perché Erdogan ha gli arsenali pieni delle armi fornite dall’Occidente con le quali sta massacrando i curdi, occupando una fetta di territorio di un altro paese, la Siria, e uccidendo i giornalisti per tenerli lontani dalla scena.
Morale: nessuno vuole fermare Erdogan. Se lo volessero fare la Nato dovrebbe decidere subito una “no fly zone” su quell’area, ma la Turchia è membro di peso della Nato quindi nisba. E si dovrebbero decidere dure sanzioni economiche. Ma gli affari sono affari e i soldi non hanno odore, neanche quelli che arrivano all’Italia, terzo partner commerciale, dal dittatore turco.
Poi c’è il ricatto dei profughi che Erdogan minaccia di far arrivare in Europa. Vorrete mica che ci facciamo invadere per difendere i curdi?
Che brutto mondo”.
Una brutta sconfitta per il Portogallo, una grande cifra per Cristiano Ronaldo.
Quota 700!
Con il rigore trasformato allo Stadio Olimpixsky di Kiev contro l’Ucraina (partita persa 2-1 dal Portogallo), il 34enne attaccante portoghese della Juventus ha raggiunto i 700 gol in carriera, cosi distribuiti: 95 con la maglia della nazionale, 605 con le sue squadre di club (Sporting Lisbona, Manchester United, Real Madrid e Juventus).
CR7 si conferma come il giocatore in attività con piiù reti realizzate: il suo rivale di sempre, Leo Messi, lo segue a distanza, con 672 gol.
Sono passati ben 17 anni dal primo gol del 17enne Cristiano Ronaldo, segnato con la casa biancoverde orizzontale dello Sporting contro la Moreirense e 17 anni dopo l’impresa del brasiliano Romario, l’ultima capacità di arrivate alla vetta delle 700 reti.
I gol di CR700 sono stati cosi ripartiti: 5 gol in 31 partite con lo Sporting Lisbona (2002-2003), 118 in 292 partite con il Manchester United (2003-2009), 450 in 435 partite con il Real Madrid (2009-2018), 32 in 51 gare con la Juventus (2018-2019).
Se il primo gol fu in Sporting-Moreirense del campionato portoghese, il 100° fu in Manchester United-Tottenham di FA Cup, il 500° in Real Madrid-Malmo di Champions League e il 600° proprio contro la Juventus, sempre in Champions.
Delle 95 reti in nazionale portoghese, 30 (in 39 partite) le ha segnate nelle qualificazioni mondiali, 7 (in 17 partite) nelle fasi finali dei Mondiali, 27 (in 32 incontri) nelle qualificazioni europee, 9 (in 21 in match) nelle fasi finali degli Europei, 17 in 47 amichevoli, 3 in due partite di Nations League e 2 in quattro partite di Confederations Cup.
Secondo una meravigliosa statistica, dei suoi 700 gol in carriera Cristiano Ronaldo ne ha segnati 442 con il piede destro, 129 con il sinistro, 127 di testa e 2 di…petto!
Sembra impossibile, semmai, l’assalto di Cristiano Ronaldo al record assoluto dell’austriaco Josef Bican, che dal 1933 al 1956 – altri tempi – mise a segno in totale 885 gol.
Ai tradimenti i curdi sono abituati. Il ritiro degli Stati Uniti dalla Siria deciso da Trump, seguito dall’offensiva turca, è solo l’ultimo di una lunga serie. Il grande Kurdistan, sogno cullato da uno dei più grandi gruppi etnici senza uno stato, è sempre rimasto sulla carta.
Il primo tradimento è storia di quasi cento anni fa. È il 1920: il trattato di Sèvres sancisce la fine della prima guerra mondiale e dell’impero ottomano, ai curdi viene promessa la concessione di uno Stato autonomo nell’altopiano del Kurdistan.
Tre anni dopo a Losanna Regno Unito, Francia e Stati Uniti si rimangiano la parola, dando il via libera alla creazione di altri stati. Da quel comento comincia una storia costellata da delusioni cocenti e successi fugaci come la Repubblica di Mahabad, fondata nel 1946 e durata appena 11 mesi prima di essere rasa al suolo da Teheran.
Il 1972 è l’anno del primo tradimento americano. Lo Scià di Persia, Mohammad Reza Pahlavi, chiede agli Stati Uniti di appoggiare la rivolta dei curdi in Iraq. Il presidente americano Richard Nixon e il segretario di Stato Henry Kissinger accolgono la richiesta. Gli Usa armano i ribelli per destabilizzare Baghdad, ma tre anni dopo Iran e Iraq trovano un accordo e i curdi vengono lasciati al loro destino.
Il 1978 è l’anno di nascita del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) di Abdullah Ocalan. Il nord dell’Iraq diventa l’avamposto per la guerriglia contro Ankara: un conflitto destinato a segnare i quattro decenni successivi.
Negli anni ’80 i curdi si ritrovano ancora una volta in mezzo al conflitto tra Iran e Iraq. Saddam Hussein dà inizio al genocidio che culmina con l’attacco chimico di Halabja, dove muoiono circa 5mila persone.
La Guerra del Golfo nel 1991 rappresenta il secondo tradimento americano. Saddam reprime nel sangue la rivolta curda incoraggiata da Bush senior. I curdi sono costretti a rifugiarsi nelle montagne tra Turchia e Iraq. Se non altro gli Stati Uniti impongono una no-fly zone per salvarli dai bombardamenti: un accordo durato fino all’invasione americana del 2003 voluta da Bush junior.
Il resto è storia recente. Nel 2011 la guerra civile in Siria permette ai curdi siriani di formare un’amministrazione autonoma nel nord-est del Paese. Gli Stati Uniti gli danno man forte per combattere l’Isis. Un’alleanza finita con un altro tradimento.