W la tecnologia! (senza esagerare)

Ho avuto il primo cellulare a 27 anni e il primo indirizzo e-mail a 31 anni: adesso mi sembra impossibile poter vivere senza. Ma come si faceva prima? Non solo gli amici, ma anche il datore di lavoro ti chiamava al telefono di casa per comunicare qualche novità? Sembrano passati mille anni da allora. Eppure si viveva bene lo stesso, ignari della “rivoluzione tecnologica”. Ma ora, per fortuna, non si può più tornare indietro dal progresso, in nessun settore. E quelli che invocano un ritorno ai “bei tempi di una volta” si mettano l’animo in pace o vadano a fare i monaci buddisti sull’Himalaya.
W la tecnologia – magari senza esagerare a scapito dei rapporti umani – che mi permette, tra l’altro, di vedere mio figlio che, da un telefono, mi dice “Ciao” di fretta e poi scappa perchè ha mille cose da fare e non ha tempo da perdere con il vecchio babbione del suo babbo….

Non è che siamo un po’ troppo connessi con il mondo?

Una frecciatina a Greta

Andrew Bolt, giornalista di SkyNews Australia smaschera l’ipocrisia dei giovani che manifestano per il clima:

«Voi siete la prima generazione che ha preteso l’aria condizionata in ogni sala d’aula; le vostre lezioni sono tutte fatte al computer; avete un televisore in ogni stanza; passate tutta la giornata a usare mezzi elettronici; invece di camminare a scuola prendete una flotta di mezzi privati che intasano le vie pubbliche; siete i maggiori consumatori di beni di consumo di tutta la storia, comperando in continuazione i più costosi capi di abbigliamento per essere trendy; la vostra protesta è pubblicizzata con mezzi digitali e elettronici.

Ragazzi, prima di protestare, spegnete l’aria condizionata, andate a scuola a piedi, spegnete i vostri telefonini e leggete un libro, fattevi un panino invece di acquistare cibo confezionato. Niente di ciò accadrà, perché siete egoisti, mal educati, manipolati da persone che vi usano, proclamando di avere una causa nobile mentre vi trastullate nel lusso occidentale più sfrenato. Svegliatevi, maturate e chiudete la bocca. Informatevi dei fatti prima di protestare”.

Il giornalista australiano Andrew Bolt, “nemico” di Greta.

I 90 anni del “Re senza Corona”, Stirling Moss

La salute non è delle migliori, fa sapere l’amico tre volte campione del mondo di F.1 Jackie Stewart – che ancora possiede un autografo di Stirling Moss quando Jackie aveva appena dodici anni -, ma la testa di quel grande campione che è stato Sir Stirling funziona ancora bene.

Funziona ancora bene per ricordare il suo primo successo nel G.P. d’Inghilterra, primo inglese a vincerlo, nel 1955, sul circuito di Aintree, proprio a fianco dell’ippodromo.
Fu la prima delle sue 16 vittorie mondiali (con Mercedes, Maserati, Vanwall, Cooper e Lotus) e 16 pole position su 66 Gran Premi disputati.

Mai campione del mondo, però: ecco il perchè della definizione “Re senza Corona“, etichetta che non è mai dispiaciuta a Stirling Moss, anzi.
Quando Nigel Mansell si laureato campione del mondo di F.1 nel 1992 mi sono sentito sollevato. Avevo conservato la mia particolarità“, disse Sir Stirling.

La sua particolarità? Quattro secondi posti nel Mondiale di F.1 per quattro anni di fila (1955-56-57-58), l’ultima volta per un solo punto di distacco da Mike Hawthorn!

A metà degli anni ’50, la carriera di Stirling Moss – che aveva corso finora con piccole scuderie inglesi (HVM, ERA, Connaught) – ha un’impennata quando entra nella scuderia Mercedes, che – all’epoca come oggi – dominava il Mondiale di F1.
Alla Mercedes il primo pilota era il mitico Juan Manuel Fangio, ormai 44 anni carichi di gloria. Moss, a 26 anni, gli fu un perfetto “secondo”.

La leggenda narra addirittura che la vittoria nel Gran Premio d’Inghilterra del 1955, a cui abbiamo accennato prima, sia stato proprio un gentile omaggio di Fangio, che avrebbe lasciato vincere il compagno di squadra inglese nella corsa “di casa”.
Non ho mai saputo la verità“, dichiarò Moss in un’intervista a ‘Motorsport’. “Glielo chiesi, ma Fangio, con un sorriso, mi rispose: ‘Oggi sei andato fortissimo, era il tuo giorno’“.

Da compagni di squadra e amici a rivali il passo è breve.
Nel 1956, dopo il ritiro dalla corse della Mercedes, Fangio va alla Ferrari, Moss alla Maserati.
Sir Stirling vince, tra l’altro, a Montecarlo e due volte il Gran Premio d’Italia (1956 1957), ma l’argentino lo procede sempre nella classifica mondiale, nel 1956 (per appena tre punti) e nel 1957 – con Moss alla scuderia inglese Vanwall, vincendo di nuovo il G.P. d’Inghiterra -, quando Fangio conquista il suo quinto titolo mondiale piloti.

“Preferisco passare una serata a parlare di corse con Stirling Moss che una notte con Marilyn Monroe”.

Steve McQueen

Attore (1930-1980), appassionato di auto

Steve McQueen con Stirling Moss

 

Quando nel 1958 Fangio si ritira, Stirling Moss è il grande favorito per il Mondiale.
Ma lo “regala” a Mike Hawthorn su Ferrari per… troppa sportività.

Durante il Gran Premio del Portogallo, la giuria avrebbe voluto squalificare il ferrarista per un manovra pericolosa e marcia indietro dopo un testa-coda, ma Moss – vincitore della corsa – perorò la causa del rivale e la giuria confermò cosi il secondo posto di Hawthorn, con i suoi sette punti in classifica. Ecco spiegato quel punticino di differenza alla fine…

Un terribile incidente nel 1962, a Goodwood – rimasto imprigionato per oltre mezzora nella sua Lotus – gli procurò gravi ferite alla testa e, convinto di non poter tornare ad alti livelli, chiuse definitivamente con la F.1, ad appena 32 anni.

Ma il suo amore per i motori sarà consacrato negli anni a venire alle corse con auto storiche, lui che aveva vinto la Mille Miglia e la Targa Floria nel 1955 e molte altre corse, come la 12 Ore di Sebring, la 1000 Chilometri del Nurburgring e il RAC Tourist Trophy.

Una passione per le corse che, ne siamo certi, continua a scorrere nelle vene di Stirling Moss anche oggi, nel giorno del suo compleanno numero 90.

I 100 anni del “Campionissimo”

Fausto Coppi, il Campionissimo, l’Airone, uno dei più grandi ciclisti di tutti i tempi, compirerebbe 100 anni il 15 settembre.

Nato nel 1919 a Castellania, in provincia di Alessandria, Coppi è da sempre un simbolo dello sport italiano, ma anche della rinascita del nostro paese dopo la Seconda Guerra Mondiale – a cui Fausto sacrificò parecchi anni della carriera – e di un certo stile di vita nell’Italia del Dopoguerra che stava cambiando.

Ma soprattutto, è stato un grande campione.
L’albo d’oro parla chiaro: 5 Giri d’Italia (1940-47-49-52-53), 2 Tour de France (1949-52), 5 Giri di Lombardia, 3 Milano-Ssanremo, un Campionato del Mondo, il record dell’ora su pista e un’infinità di altre vittorie.

In mezzo, la Guerra, la prigionia, la tragedia del fratello Serse, l’amore per la *Dama Bianca*, la rivalità – strumentalizzata anche politicamente – con Gino Bartali.

Fino alla morte prematura, ad appena 40 anni.

Serse e Fausto Coppi.

Caserta è la città dove Fausto, dopo la prigionia in Tunisia e in Algeria, era stato trasferito nel febbraio del ’45 come attendente del colonnello inglese Towell.
A guerra finita, Coppi era partito in bici da Caserta il 30 aprile e, un po’ pedalando e un po’ grazie a passaggi di fortuna in automobile, aveva risalito la penisola semidistrutta, giungendo al suo paese nel pomeriggio di sabato 5 maggio.
Poco prima di arrivare a casa, aveva fatto una sosta a Villalvernia per salutare la fidanzata Bruna, che non vedeva da due anni e mezzo e che avrebbe sposato il 22 novembre di quello stesso anno.

La gente lo ama ancora, come prima, come sempre.
Come quei cicloamatori che – tutti gli anni a settembre – partono proprio da Caserta per arrivare a Castellania, ripercorrendo il “percorso storico” compiuto dal Campionissimo per tornare a casa.

800 km.
Semplicemente nel nome di Fausto Coppi.

In ricordo di Erika

Apprendo in queste ore, con tristezza e sgomento, la notizia della scomparsa di Erika Vaccaro, avvocato e attrice.
Per un breve e intenso periodo abbiamo condiviso la stessa passione per il teatro, con sabati pomeriggio e lunedi sera invernali di prove e con la prima dello spettacolo “Non tutti i mali vengono per…suocere”, appena 7 mesi fa.
Appena 7 mesi fa, sembra incredibile. Eravamo lì sul palco e adesso lei non c’è più.
Ci rimangono tante foto spiritose, qualche video allegro da vedere e rivedere e il ricordo di una persona tutta d’un pezzo.
Rip, Erika.

“Ma chi ti credi di essere? Gimondi?”

Quando vedevi qualcuno sfrecciare a tutta velocità su una bici persino improbabile, veniva naturale chiedergl, a guisa di bonario sfottò: “Ma ti chi credi di essere? Gimondi?

Tale era la popolarità dell’ex grande Campione del ciclismo italiano, Felice Gimondi, scomparso per un malore mentre faceva il bagno nelle acque di Giardini Naxos, in Sicilia.

L’ex corridore, vincitore di tre Giri d’Italia e un Tour de France, avrebbe compiuto 77 anni il prossimo 26 settembre e da tempo soffriva di cuore.

Gimondi, in vacanza assieme alla famiglia, quando ha accusato il malore è stato soccorso da una motovedetta della Guardia Costiera. Tuttavia a nulla sono valsi i tentativi di rianimarlo da parte dei medici, a detta dei quali sarebbe morto per un infarto.

La salma è stata trasferita nell’ospedale di Taormina, nell’attesa che venga autorizzato il trasferimento a casa.

Soprannominato “Felix de Mondi” e “Nuvola Rossa”, Felice Gimondi ha scritto la storia del ciclismo internazionale: leggendarie le sue sfide con Eddy Merckx, il suo grande rivale.
Quanto avrebbe vinto Gimondi, se non avesse incontrato sulla strada il “Cannibale*…

Gimondi vinse sorprendentemente il Tour de France nel 1965 a nemmeno 23 anni e solo dopo quel trionfo si dimise dal lavoro di postino (che aveva ereditato dalla mamma, celebre postina di Sedrina, il paese di Gimondi).

i trionfi al Giro d’Italia, invece, giunsero nel ’67, ’69 e’76.

Dopo il ritiro dall’attività agonistica, fu Direttore Sportivo della Gewiss-Bianchi nel 1988 e nel 2000 Presidente della Mercatone Uno-Albacom, la squadra di Marco Pantani, cercando – e non sempre riuscendoci – un rapporto da “fratello maggiore” con il “Pirata”.

Nato a Sedrina, in provincia di Bergamo, Gimondi è stato professionista dal 1965 al 1979: è uno dei sette corridori ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri (Giro d’Italia, Tour e la Vuelta a España, nel 1968) e anche un Campionato del Mondo, nel ’73.
Ha vinto anche tre classiche “monumento”: una Milano-Sanremo (1974), una Parigi-Roubaix (1966) e un Giro di Lombardia (1973).

Felice Gimondi in maglia gialla al Tour de France 1965

Personalmente, mi era capitato di incontrare Felice Gimondi almeno un paio di volte, ormai parecchi anni fa, almeno una decina.
Una volta per la presentazione della tappa bergamasca di un Giro d’Italia, naturalmente a lui dedicata, e – in un’altra circostanza – al via della sua “Gran Fondo Felice Gimondi“, che da anni raccoglie la partecipazione di migliaia di appassionati di bici per le strade di Bergamo, riuniti sotto l’ala protettrice del “Felice nazionale”.

Lo ricordo sempre gentile e disponibile, con i giornalisti, anche con quelli più giovani.
Mai una foto negata, mai una intervista negata, mai un atteggiamento da star, lui che è stato un grande Campione.

In queste ore tanti ex corridori, ciclisti del passato e del presente, ma anche semplici appassionati hanno ricordato Gimondi a modo loro. Anche attraverso un rito a cui nessuno di noi ragazzi di una volta si è mai sottratto: la corsa delle biglie con le “facce” dei ciclisti sulla sabbia.

E io, che veleggiavo con il tifo già verso Moser, rimasi comunque affascinato dalla biglia del “vecchio fusto” Felice Gimondi.
Devo ancora averla, da qualche parte.
Mi piacerebbe ritrovarla.
Chissà, un giorno…

Annecy, finalmente!

Non solo il lago, c’è di molto di più ad Annecy.
Dopo un paio di rinvii dell’ultimo minuto – una volta anche per i mercatini di Natale, causa eccessiva nevicata – finalmente ce l’ho fatta ad Annecy. Una città-canale, una piccola Venezia, una Amsterdam in miniatura, una Bruges in scala ridotta, giusto per rifersi ad altre città che “vivono sull’acqua”. Non a caso, infatti, viene definita la “Venezia delle Alpi”.

Tasso c’è, ad Annecy.

Siamo in Alta Savoia, a 40 km da Ginevra, ancora meno dal confine svizzero. E dai loro vicini elvetici, l’amministrazione pubblica di Annecy ha sicuramente preso esempio per mantenere un alto livello di pulizia, ordine e decoro. Nonostante le migliaia di turisti che in estate ogni giorno prendono d’assalto la città.
Lago, canali, chiese, parchi (molto bello il Parco Europa!), installazioni artistiche e il Castello appartenuto ai conti di Ginevra. Poi, per fare un break, tanti tipici ristoranti “savoiardi” con le tovaglie a quadretti bianco e rossi, dove scegliere la più tipica delle specialità: la Raclette, una sorta di tagliere di salumi e formaggi (il Raclette incluso), anche fusi, che vengono serviti con diversi tipi di accompagnamento. Buono, dicono, ma un tantino invernale. In agosto è meglio l’eccellente frittura di pesce di lago. Attenzione: i prezzi non sono propriamente economici!
La foto simbolo è quella del Palais de l’Ile, le “vecchie prigioni” (e lo erano veramente), sistemato al centro di uno dei canali, il canale di Thou. E se siete innamorati, cosa c’è di meglio del Pont des Amours, che poi vi conduce al lago, magari per una gita in motoscafo (o, romanticamente, in pedalò) all’interno del lago di Annecy.
Adesso, lo ammetto, sono curioso di tornare per i famosi mercatini di Natale.
Chi viene?

Che foto immortale!

John, Paul, Ringo e George, i Beatles, erano ormai alla fine, ma i loro scatenati fan in tutto il mondo non potevano ancora saperlo.

L’ultimo loro album in studio, “Abbey Road“, è diventato un cult anche grazie anche alla celeberrima copertina, che ritrae i Fab Four mentre attraversano le strisce pedonali proprio di Abbey Road, a Londra.
La foto fu scattata da Ian McMillan l‘8 agosto 1969, esattamente 50 anni fa.
L’album usci il 26 settembre di quell’anno e per le nozze d’oro sono previste ulteriori celebrazioni.

La foto del passaggio pedonale è imitata da tutti i turisti, nessuno resiste alla tentazione di farsi uno scatto in stile-Beatles.
Qui si respira Beatles ovunque: ci sono anche gli Abbey Road Studios, della EMI, l’etichetta discografica degli “Scarafaggi”.

L’idea della fotografia fu di Paul Cartney: “Usciamo e facciamo una foto, cosi sue due piedi“, disse.
Un poliziotto fermò il traffico, il tutto doveva durare cinque minuti, invece servirono ben sei attraversamenti pedonali e sei scatti per poi scegliere il migliore (il quinto), quello rimasto immortale.

Su Twitter, in questa giornata di infinite celebrazioni e ricordi, esce anche una curiosa foto del backstage, qualche minuto prima della iconica foto…

La leggenda narra, però, che la copertina di “Abbey Road” non rappresenti altro che il funerale del vero Paul McCartney.

Si pensa che l’abito bianco di John rappresenti il colore del lutto in alcune religioni orientali e che Ringo indossi un tradizionale completo nero. In più, Paul, a piedi scalzi, tiene una sigaretta nella mano destra. A quel tempo, le sigarette erano comunemente chiamate “chiodi della bara“.

Non dimentichiamo poi che Paul tenne i sandali ai piedi per i primi due scatti e, soltanto in un secondo momento, decise di camminare scalzo. Alcuni hanno visto in questo gesto il tentativo di darci un ulteriore indizio.

Ma è solo una leggenda…

 

 

 

 

“Block 46”: l’evoluzione della specie “noir scandinavo”

E’ l’evoluzione della specie “noir scandinavo”. Scritto nel 2016 da Johana Gustawsson, scrittrice svedese residente da anni in Francia, dove i suoi libri hanno molto successo (in Italia è pubblicata da La Corte Editore, editore indipendente e intraprendente), questa caccia al serial killer ha almeno due particolarità che lo contraddistinguono dal resto dell’offerta giallistica del Nord-Europa, un filone che sembra non finire e non stancare mai (io, un po’ si).
Intanto la scena del crimine (dei crimini) è doppia: la classica Svezia sotto la neve – qui, in particolare, la città di Falkenberg -, ma anche la Londra più metropolitana e turistica che ci sia. È in questi due luoghi cosi diversi e cosi distanti, infatti, che avviene una serie di omicidi – diversi bambini tra i 6 e gli 8 anni – e una donna, Linnéa Blix, stilista di successo, che sembra essere stata assassinata…per caso. O perchè ha riconosciuto qualcuno che non doveva riconoscere. Tutte le vittime, tuttavia, vengono sezionate in modo identico: squartata la trachea, cavati gli occhi, rasati i peli, con la lettera Y o X (ma sono veramente lettere?) incisa sul braccio. Perchè questo macabro rituale? Indaga la polizia svedese, indaga Scotland Yard, indaga la scontrosa profiler Emily Roy, indaga la scrittrice francese Alexis Castells, con un tragico passato, che scrive di altre tragedie come fosse una terapia del dolore.
Manca ancora la seconda peculiarità del libro, che ci riporta al 1944, al campo di concentramento di Buchenwald, dove un giovane deportato tedesco, Erich, presta le sue conoscenze mediche al servizio dei medici nazisti, nel famigerato Block 46…

Senza indugiare in particolari horror (tranne forse per il racconto del lager, veramente un pugno nello stomaco!), “Block 46” è un noir appassionante e “puro”, dallo stile sobrio ed essenziale. Che vi appassionerà al genere o, nel mio caso, vi riconcilierà con le troppo spesso ripetitive storie svedesi, norvegesi, islandesi…
Ma, alla fine, una domanda sorge spontanea: capisco che la neve fa il suo effetto, ma non si potrebbe scrivere un giallo scandinavo ambientato in estate?
E adesso mi leggo il nuovo romanzo di Johana Gustawsson, “L’Emulatore”…