L’Aquila, 10 anni dopo

Articolo di Saverio Tommasi

“Sono tornato all’Aquila 10 anni dopo il terremoto, e a nove anni da quando l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi diceva: “Abbiamo ricostruito un’intera città”.
L’Aquila è una città commovente, gentili e meravigliosi i suoi abitanti, ma i danni del terremoto sono ancora tutti lì, e io ve li mostro, al di là di qualche monumento restaurato e della propaganda di ogni governo che da Berlusconi in poi si è succeduto.

Il centro della città è disabitato, in molti posti i lavori neanche sono cominciati, dopo dieci anni. E, ormai è chiaro, non inizieranno mai. Le new town dovevano essere provvisorie, sono stabili ma senza una piazza, un bar, un tabacchi, un’edicola. Da lì passa solo un autobus che porta all’ospedale o al centro commerciale, nessun collegamento con il centro.
Nessuna scuola del centro storico è tornata agibile, le scuole sono in prefabbricati “di lusso” che sarebbero dovuti servire per 5 anni, siamo già a 10.
L’Aquila meriterebbe di vivere, invece è una desolazione. L’impegno dei cittadini, dei singoli, è tanto. Ma i risultati sono bassi, l’Aquila è vuota. I negozi nella zona del terremoto sono vuoti. I bar sono vuoti, i ristoranti sono quasi vuoti.
Ho conosciuto persone belle, all’Aquila. Alcune bellissime. Ma la solitudine mi ha mangiato lo stomaco”.

Ci sono stato, a L’Aquila, Nel 2011.

 

“Tottenham Hotspur Stadium”, la nuova casa degli “Speroni”

 

LONDRA (REGNO UNITO) – Stadio bagnato, stadio fortunato. Si può dire così per il nuovissimo “Tottenham Hotspur Stadium” di Londra, la casa del XXI Secolo degli “Speroni”.

L’impianto – bellissimo, dicono chi l’ha visto dal vivo – è stato inaugurato mercoledì 3 aprile, sotto la pioggia, con la partita di Premier League tra il Tottenham e il Crystal Palace, un derby londinese minore, vinto dagli “Spurs” per 2-0-
Il calciatore sudcoreano Son Heung-min entra nella storia per essere stato l’autore del primo gol nel nuovo stadio.

In realtà, prima dell’inaugurazione ufficiale c’erano stati due test semi-ufficiali: una partita del campionato Under 18, vinta dal Tottenham sul Southampton (2-0, primo gol assoluto del giovane J’Neill Bennet) il 24 marzo e – la settimana dopo – una sfida di Vecchie Glorie tra Tottenham Legends e Inter Forever, alla presenza di molti giocatori che hanno fatto la storia di entrambi i club (uno per tutti: Jurgen Klinsmann).

Il terzo stadio più grande di Londra, il secondo della Premier League

Costato una cifra attorno al miliardo di euro (e inaugurato con quasi un anno di ritardo), con un capienza di 62.062 spettatori, il “Tottenham Hotspur Stadium” è il secondo stadio più grande della Premier League(dopo l’Old Trafford di Manchester) e il terzo più grande di Londra, dopo Wembley e Twickenham, il tempio del rugby.

Inserito in un progetto di riqualificazione urbana del quartiere di Tottenham, a nord di Londra, non esattamente una delle zone pi`ù ricche della capitale, il “Tottenham Hotspur Stadium” è una incredibile ventata di novità, anche architettonica, ma con un legame indissolubile con la tradizione e con il tessuto sociale: sorge, infatti, sulle cenere dell’ormai demolito White Hart Lane, lo stadio degli “Spurs” per 118 anni.

Non a caso – in attesa del nome ufficiale, da assegnare ad un munifico sponsor, il nuovo stadio viene spesso chiamato, da tifosi e media, New White Hart Lane…

Il “Tottenham Hotspur Stadium” dà i numeri

Alcune curiosità:
– L’abbonamento per il settore di tribuna centrale pu`ò arrivare a costare fino a 23.000 euro, ma a partire dalla prossima stagione. Si può cominciare a risparmiare….

– Non si paga assolutamente in contanti, ma solo con carte di credito, bancomat, abbonamenti elettronici e drink-card (succede anche all’Allianz Arena di Monaco di Baviera). I punti di pagamento elettronico sono 878, uno dovreste trovarlo…

– Se volete dormire in zona, no problem: l’hotel dello stadio ha 180 camere. Il prezzo? Ragionevole, pare.

– Un po’ hanno copiato gli architetti che hanno costruito questo stadio: una tribuna è esattamente la copia identica – ispirata, dicono loro – dal “Signal Iduna Park” di Dortmund.

– All’interno dello stadio esiste una brasserie, quasi una fabbrica delle birra, pronta a servire 10.000 birre alla spina ogni partita. Ecco perchè, forse, ci sono 773 toilets…

Il vero derby di Londra: Tottenham-Arsenal

Insieme ad una dirigenza ricca e ambiziosa, ora al Tottenham non manca nulla per rimpolpare una scarna e impolverata sala dei trofei (due soli titoli: 1951 e 1961, ultima FA Cup nel 1991)

E magari tornare a lottare per il titolo con l’Arsenal, la vera rivale – da sempre – degli “Spurs”.
Tottenham-Arsenal, il vero derby di Londra.
Le altre vincono forse di più, ma – nella storia – contano assai meno.

“Matematiche certezze” cercasi tra Torino e Genova

Due città che si somigliano più di quanto non immaginino loro stesse, anche se Genova con il mare davanti e Torino con le montagne alle spalle, ma con quell’aria decadente di nobildonne decadute e orgogliose sono protagoniste del giallo “Matematiche certezze” (Frilli Editori) appena uscito in tutte le librerie.

Due città, due scrittori, quattro mani: la caccia al killer dei dadi – un giocatore che si prende gioco di tutto e di tutti – non solo il commissario Crema e il commissario Mariani, ma anche e soprattutto i loro creatori, il torinese Rocco Ballacchino e la genovese Maria Masella, punte di diamante – ognuno nel proprio territorio di caccia – di un fertile movimento narrativo legato al mondo del giallo e dei noir.
Per due autori che scrivono insieme, ecco una necessaria “intervista doppia”.

Scrivere “a quattro mani”

“Due stili diversi, al pubblico piace, ma due storie incastrate perfettamente l’una nell’altra per un’unica trama”, spiega Rocco Ballacchino.

“C’era il problema degli stili diversi: lui in terza e al passato, io in prima e al presente…”, aggiunge Maria Masella. “Ho proposto che il pezzo con Crema diventasse come un lungo flashback. Rocco ha scritto Torino e io ho fatto il contorno, ma imponendomi di legare le due parti alla conclusione”.

Il mistero della trama 

“Le matematiche certezze del titolo di questo giallo stanno a dimostrare che, a volte, non esistono “matematiche certezze” per gli investigatori”, racconta Rocco Ballacchino. “Sono sempre alla ricerca di una verità definitiva che non sempre arriva. E il killer dei dadi è veramente un osso duro!”.

“Mai, mai e ancora mai rivelare la trama di un noir, sussurrare frammenti”, interviene Maria Masella. “Un commissario di Torino, Crema, deve indagare su alcuni omicidi, sono i giorni di Ferragosto. Anni dopo, sempre nei giorni di Ferragosto, un commissario di Genova, Mariani, inciampa in un omicidio molto simile a quelli torinesi. Somiglianza casuale? Vi ho detto pochissimo della trama ma posso raccontarvi altro”.

I due commissari

Ballacchino: “Che personaggio è il commissario Crema? Secondo me è un investigatore speciale proprio perchè è normale, con la sua quotidianità e la vita in famiglia. Non è un uomo d’azione ma di ragionamento, anche lento a volte. E spesso vittima delle diete!”

Masella: “Che personaggio è il commissario Mariani? Un uomo normale. Fisicamente è piuttosto alto, non magro e non grasso. Ormai si avvia ai cinquanta (all’inizio era molto più giovane), capelli e occhi scuri. Lunatico. Fumatore. Con moglie, che un tempo aveva tradito. Due figlie. Una madre. Dalla madre ha ereditato una scala di valori che lui chiama: liberté, egalité, fraternité”.

Le nostre città: Torino e Genova

Ballacchino: “Torino è sempre al centro delle mie storie perchè ci vivo”, continua Rocco Ballacchino, “la percorro con i miei passi e mi piace raccontarne usi e costumi, dal mio modesto punto di vista. Penso sia d’obbligo per una scrittore descrivere ciò che lo circonda”.

Masella: “C’è tanto di Genova nei miei libri. Luoghi e quindi odori, sapori, suoni. Una curiosità? Quando ho scritto il mio pezzo avevo muratori in casa e mal di schiena (accoppiata favolosa), avevo quindi poche possibilità di ricerche sul campo. Ho ambientato il mio pezzo a meno di un chilometro da dove abito”.I ragazzi e la lettura

Ballacchino: “Sono direttore della collana per ragazzi “I Frillini”, con cui cerchiamo di avvicinare alla lettura i ragazzi (9-13 anni) con storie semplici, ma piene di riferimenti alla loro quotidianità. La lettura non va imposta come una medicina, ma bisogna trovare il modo di incuriosire i ragazzi e fornirgli un’alternativa al mondo dei social network”.

Masella: “Io sono una professoressa, insegnavo matematica, fisica e informatica. Ma ho sempre collaborato con la gestione delle biblioteche delle scuole in cui insegnavo. Gli adolescenti leggono se vedono adulti leggere. Se non si forzano i loro gusti. Il libro perfetto per uno è sbagliato per un altro. Il libro sbagliato oggi può essere perfetto domani”.

Scrittori: si nasce o si diventa?

Masella: ” Maria Masella è una scrittrice? Non ne ho la certezza matematica! Ho sempre amato leggere, raccontare storie. Ho cominciato molto presto a scrivere storie. Quando mi chiedevano cosa volevo fare “da grande” rispondevo lo scrittore. Scrivevo per me e per pochi intimi. Nel 1986 (avevo già trentotto anni e il mio percorso lavorativo come insegnante era finalmente come lo volevo) ho inviato un racconto al Mystfest. Ho dimenticato i miei dati, ma mi hanno cercata perché il mio racconto era piaciuto. Non mi sono più fermata”.
Ballacchino: “Le mie uniche matematiche certezze sono che senza l’impegno e la voglia di migliorare come autori non si può crescere”.

La prossima fatica letteraria?

Ballacchino: “Sto scrivendo il settimo episodio della serie Crema-Bernardini e poi mi piacerebbe che qualche mio testo fosse nuovamente interpretato in teatro, come accaduto ormai qualche anno fa. Un sogno nel cassetto”.

Masella: “Ho finito la prima stesura del Maritano 3 (terzo romanzo della trilogia Teresa Maritano e Marco Ardini), sto finendo la prima stesura del Mariani natalizio (sarà il ventunesimo!). Ho promesso un romance storico a Mondadori (ho perso il conto, ma sarà il dodicesimo)”.

Dove sarà ambientato il prossimo omicidio? 

Ballacchino: “Forse in uno studio televisivo”.

Masella: “Mai anticipare! Altrimenti che giallista sarei?

“Casalinghi disperati” cercano (di nuovo) famiglia

Quattro uomini in scena, nemmeno una donna, eppure il fil rouge della commedia “Casalinghi Disperati” è il proprio rapporto di coppia. Che spesso, però scoppia, come è successo ad Alberto (Max Pisu), Giulio (Gianni Ferreri) e Luigi (Danilo Brugia), che dopo il naufragio dei loro matrimoni hanno deciso di andare a vivere insieme, per risparmiare, ovviamente. I tre amici condividono un appartamento a Roma, dove sono riusciti a stabilire un buon equilibrio, fatto di turni per le pulizie, per la spesa e per la cucina. Se il ménage quotidiano procede tranquillo, è più burrascoso il rapporto che i tre intrattengono con le rispettive ex famiglie. Alberto è un ipocondriaco, in perenne “bolletta”, Giulio deve trovare il coraggio di confessare al figlio diciottenne di essere felicemente omosessuale e Luigi non ha problemi di soldi, ma la ex moglie non gli fa più vedere la figlia. Tutto sembra procedere abbastanza bene, fino a quando non arriva Attilio (Nicola Pistoia), vicino di casa appena buttato fuori dalla moglie, che scompiglia l’equilibrio “domestico”. E qui la convivenza diventa drammaticamente difficile (e dal punto di vista del pubblico, invece, molto divertente).
Regista della commedia è Diego Ruiz, da anni beniamino del pubblico teatrale torinese: stavolta non sarà sul palco, ma dietro le quinte. “Gli attori sono talmente bravi che è un piacere lavorare con loro, si sono messi completamente a disposizione, si sono affidati a me con piena fiducia. E il risultato, sul palco, credo che si veda”, spiega Diego Ruiz.
“Questo di ‘Casalinghi Disperati’ è un testo leggero, scritto una decina di anni fa da Cinzia Berni e Guido Polito, ma che affronta un tema quantomai attuale, quello dei padri separati, in difficoltà economica e affettiva, perchè spesso hanno problemi ad avere relazioni con i figli, anche solo vederli diventa complicato”, continua il regista. “Noi proviamo a riderci sopra, per sdrammatizzare”.
Dopo tanti spettacoli in tutta Italia in questi due mesi e mezzo, la tappa torinese è l’ultima, per il momento, della tournèe di ‘Casalinghi Disperati’. “Poi riprenderemo in estate, con alcune date, e in novembre saremo a Milano”, aggiunge il regista-attore.

Tra i progetti di Diego Ruiz, la ripresa – nelle prossime settimane – del tour di “Cuori Scatenati”, con Sergio Muniz, Francesca Nunziu, Maria Lauria e lo stesso Ruiz, grande successo della passata stagione teatrale. Ma il Grande Evento arriverà nel 2020: “Sarà il ventennale della nostra commedia ‘Orgasmo e Pregiudizio“, sta per debuttare la versione inglese a Londra, e io e Fiona Bettanini torneremo a grande richiesta in tutta Italia, anche a Torino. Aspettateci! Però prima mi devo mettere a dieta, visto che per tutto lo spettacolo sono in déshabillé sul letto matrimoniale…”.

I nuovi “mostri”: Ramy, Adam e Moise

In un mondo sempre più alla ricerca di personaggi o, quantomeno, di figurine da sventolare come idoli e come modelli da seguire, gli ultimi giorni hanno portato alla ribalta – per ragioni ben diverse: sport e cronaca nera – tre ragazzi che qualcuno, non del tutto disinteressato, definirebbe “la nuova Italia”. Uno di loro, Moise Kean da Vercelli, classe 2000, già la rappresenta, l’Italia: almeno con la maglia azzurra della nazionale, capace di battere tutti i record di precocità, grazie ai gol segnati contro Finlandia e Lichtenstein. Lui, un posto in Paradiso, ad appena 19 anni, se l’è già conquistato. E se saprà mantenere la testa sulle spalle (cosa, peraltro, non così semplice, quando si arriva a quei livelli), il giovane Moise avrà sicuramente un grande futuro da calciatore davanti a sè. Che poi sia diventato, inconsapevolmente, il simbolo di una fetta d’Italia che adora tutto quello che è “diverso”, questo è un altro discorso. Non so quanto siano farina del suo sacco le dichiarazioni a lui attribuite sullo Ius Soli (una cosa di sinistra) e sul fatto di aiutare i migranti nel loro paese (a casa loro: dunque, una cosa di destra). A me, a noi, a tutti, interessa solo che faccia gol. E, provocatoriamente, ho proposto una coppia d’attacco azzurra composta da Kean e Balotelli: roba da far impallidire Salvini e, forse, speriamo, pure le difese avversarie. Rimane la sensazione, fortissima, che se Kean si fosse chiamato semplicemente Cutrone (un altro giovane leone del calcio italiano) non si sarebbe fatto tutto questo can can mediatico-politico-buonista che rischia di travolgere, speriamo di no, lo stesso Kean.

Il primo gol in azzurro di Moise Kean, contro la Finlandia: 21.3.2019.

Dall’altra parte, ci sono gli altri due Eroi della settimana: Ramy e Adam, italiani, ma non cittadini italiani, per colpa (o per merito?) di una legge che – sbagliata o giusta che sia – non permette di avere automaticamente la cittadinanza italiana ai figli degli stranieri, anche se nati in Italia. Si chiama Ius Soli: esiste in alcuni paesi, come gli Usa, ma non esiste in molti altri paesi. Se n’è parlato, nella politica italiana, poi si è smesso di parlarne e, ora, si è ricominciato a discuterne. Per merito (o per colpa?) proprio di Ramy e Adam, che sono stati tra gli eroi-bambini – forse non gli unici, sicuramente i più mediatici – ad aver sventato la strage dell’autobus guidato dall’autista italo-senegalese Ousseynou Sy. Lui sì con la cittadinanza italiana, che forse presto gli verrà (giustamente) tolta. E anche qui, che bordate di ipocrisie: quasi non si può più dire – e nemmeno pensare – che un tizio senegalese con cittadinanza italiana non sia comunque di origine senegalese. Sembra quasi di essere arrivati al controsenso, al razzismo al contrario. E qui non c’entrano proprio i partiti, di destra o di sinistra, c’entra solo il buon senso. Si dice “calciatore senegalese”, non si può dire “autista senegalese, ma con passaporto italiano?”.
Liquidato l’autista con la pena che si meriterà, Ramy e Adam si sono meritati la cittadinanza italiana, “regalata” loro per meriti civili da un Salvini prima titubante e poi addirittura “padre adottivo” dei due ragazzi. A quali, sinceramente, auguriamo di cuore due cose: di tornare presto nell’ombra delle loro vite normali (dopo un episodio straordinario di vita) e di fare buon uso della preziosa cittadinanza italiana. Preziosa, si. Anche per gli italiani. Di prima, seconda, terza generazione, e quel che verrà-
Peccato che spesso ce ne dimentichiamo.

La piccola grande Greta

di Gabriele De Palma, SkyTg24

È candidata al Premio Nobel per la pace, iscritta tra i 25 teenager più influenti da Time, si è presentata davanti ai principali consessi internazionali dove ha accusato senza possibilità di appello i suoi ospiti – capi di stato e imprenditori – e annunciato l’imminente cambiamento, quello che deve portare alla salvaguardia del pianeta, malato di riscaldamento globale. È Greta Thunberg, giovane studentessa svedese nata nel 2003 che sta sensibilizzando all’azione un’intera generazione, è lei l’ideatrice dei Fridays For Future, l’artefice delle manifestazioni per promuovere politiche e comportamenti sostenibili, è lei che porta nelle strade di centinaia di città del mondo (qui la mappa aggiornata) studenti in occasione dello sciopero internazionale del 15 marzo. Ecco la sua storia.

Sensibilità per il pianeta

Greta, come tutti i suoi coetanei svedesi, viene informata dai problemi causati all’ambiente dall’inquinamento e dalle emissioni di CO2 a scuola. Lezioni e filmati di approfondimento che lasciano su di lei una traccia molto più profonda che sui suoi compagni. Allora si informa, studia, si tiene aggiornata, insomma si preoccupa dell’argomento. E rimane profondamente delusa dall’ignavia dei governi di tutto il mondo. Gli accordi internazionali sul clima non vengono rispettati, ogni nuovo dato ufficiale condiviso dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu (Ipcc) dipinge una situazione sempre più drammatica. I fenomeni del disastro imminente sono visibili a quasi tutte le latitudini. Eppure i governanti non sembrano assillati dalla sciagura, i giornali non parlano abbastanza dell’argomento.

I contenuti

La reazione della Thunberg è tanto decisa quanto semplice nei suoi contenuti. Non ha la pretesa di avere escogitato la soluzione al riscaldamento globale. Anzi, a suo parere la soluzione c’è già ed è quella indicata dall’Ipcc e dalla comunità scientifica e ratificata come impegno ufficiale nei tanti accordi sul clima, ultimo quello di Parigi del 2015: ridurre l’inquinamento e soprattutto le emissioni di anidride carbonica in atmosfera. Addio ai combustibili fossili, addio alle pratiche ecologicamente non sostenibili. La sua presa di posizione parte da una base scientifica ma è politica, è una reazione contro la mancanza di reazione a una situazione tanto drammatica da parte di chi riveste il ruolo di decisore politico. Persino la sua Svezia, tra i Paesi con le migliori politiche ambientali, non ha fatto abbastanza; anzi, le emissioni sono aumentate anziché diminuire e se non ce la fa la Svezia come possono farcela i Paesi in via di sviluppo?

La famiglia

I primi interlocutori di Greta sono i genitori. Entrambi appartengono al mondo dell’arte della Stoccolma benestante: la madre è una cantante lirica, il padre fa l’attore. Dopo aver tentato di lenire la frustrazione della figlia con risposte rassicuranti, sono costretti a fare i conti con l’ostinata determinazione di Greta che li convince ad adottare comportamenti più responsabili; e così l’auto a combustibile fossile viene sostituita da un’auto elettrica, la dieta vegana diventa la dieta di famiglia e i Thunberg si impegnano a non utilizzare più mezzi di trasporto altamente inquinanti come gli aerei. Il che rende impossibile alla madre la carriera internazionale, ma la coerenza ha un prezzo.

L’esempio di Parkland

Migliorare le abitudini di una famiglia non è abbastanza. Greta cerca nuovi interlocutori, aderisce a un’associazione ambientalista studentesca e rimane colpita dallo sciopero contro le leggi sulla detenzione di armi organizzato dagli studenti di Parkland, negli Stati Uniti, all’indomani della strage nella scuola della città della Florida. La sua associazione non riesce però a organizzarsi come gli studenti americani, così Greta passa all’azione solitaria.

Lo sciopero per il clima

La causa scatenante per l’attività che l’ha resa celebre è stata una serie di incendi catastrofici avvenuti nelle foreste svedesi la scorsa estate, ennesimo sintomo – se mai gliene servissero di ulteriori – delle conseguenze disastrose del riscaldamento globale. L’allora quindicenne decide che è più utile protestare contro il governo anziché andare a scuola. Dall’inizio dell’anno scolastico – che in Svezia parte a metà agosto – fino alle elezioni generali svedesi del 9 settembre ogni mattina si alza presto, inforca la bici e si reca davanti al Parlamento, dove rimane fino all’orario in cui a scuola terminano le lezioni. Con sé porta una tavola di legno con scritto Skolstrejk för klimatet, ‘sciopero scolastico per il clima’ in svedese, e qualche materiale informativo stampato in casa.

Fridays for Future

Il primo giorno la sua protesta rimane del tutto isolata, dal secondo però qualche passante inizia a incuriosirsi e a parlare con Greta; col passare del tempo i curiosi aumentano e qualcuno diventa solidale, fermandosi a farle compagnia. All’indomani delle elezioni Greta riprende a frequentare la scuola e limita la sua protesta al venerdì. Nascono così i FridaysForFuture, i venerdì per il futuro. Dopo la stampa locale, anche quella internazionale si accorge della protesta e la fama di Greta lievita durante l’autunno. Iniziano a sbocciare gruppi FridaysForFuture in molte città e a dicembre la Thunberg viene invitata a parlare alla Conferenza sul Clima COP24.

Il discorso di Katowice

I rappresentanti degli Stati che stavano in quei giorni di dicembre discutendo a Katowice sulla definizione delle regole attuative degli accordi di Parigi probabilmente pensavano di passare qualche minuto meno noioso del solito quando Greta ha preso la parola. Si sbagliavano, era invece il momento delle accuse senza appello. “Dobbiamo parlare chiaramente, non importa se è scomodo – sferza l’uditorio con tono  – Voi avete paura di diventare impopolari, volete andare avanti con le stesse idee che ci hanno messo in questo casino […] Non siete abbastanza maturi per dire le cose come stanno”. E se l’introduzione non fu lusinghiera, la chiosa fu decisamente una dichiarazione di esautorazione. “Non siamo venuti per chiedere ai leader di occuparsene. Ci avete ignorato in passato e continuerete a farlo. Voi non avete più scuse, noi non abbiamo più tempo. Siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, vi piaccia o meno. Il vero potere appartiene al popolo.” Tiepidi gli applausi dei politici, paralizzati sui loro scranni.

Davos e Bruxelles

Conquistatasi l’attenzione dell’opinione pubblica globale, la Thunberg viene invitata a gennaio a parlare presso un altro consesso prestigioso, il World Economic Forum di Davos. Mantenendo invariato il messaggio generale, le accuse vengono declinate in base al pubblico dell’occasione. Un pubblico arrivato quasi interamente con jet personali (millecinquecento i voli in totale per lo svolgimento della conferenza) che ascolta una ragazza giunta in Svizzera dopo trentadue ore di treno, per non contribuire ulteriormente alle emissioni di CO2. “Alcune persone, alcune aziende, alcuni decisori sapevano bene di stare sacrificando valori inestimabili per continuare ad accumulare incredibili quantità di denaro. Penso che molti di voi appartengano a quelle persone.”
Non va meglio ai commissari europei del Comitato economico e sociale che invitano Greta a fine febbraio. L’assemblea, presieduta dal Presidente Jean-Claude Juncker si sente dire che se le cose non cambieranno drasticamente “quel che lasceranno in eredità i nostri leader politici sarà il più grande fallimento della storia, e loro saranno ricordati come i peggiori farabutti (villain) di tutti i tempi perché si sono rifiutati di ascoltare e di agire”. Juncker china il capo infastidito a fine discorso, mentre fuori dall’edificio gli studenti di Bruxelles scendono in strada a manifestare per i FridayForFuture.

Asperger

Alla Thunberg nel 2016 è stata diagnosticata la sindrome di Asperger e ha sofferto di mutismo selettivo e disturbi ossessivo compulsivi. Lei stessa non ha difficoltà a parlare dell’argomento e anzi considera la sua particolare condizione un elemento che l’ha aiutata a focalizzarsi sul grande problema che affligge il pianeta. Le diagnosi “significano che parlo solo quando lo ritengo necessario”. In un’intervista rilasciata al New Yorker ha dimostrato consapevolezza del potenziale politico della sua condizione: “vedo il mondo in modo leggermente diverso, secondo un’altra prospettiva. Ho un interesse speciale. È comune che persone nello spettro autistico abbiano interessi speciali”.  In un intervento alle conferenze TED di Stoccolma ha precisato ancora meglio che quando si tratta della crisi ambientale sono le persone non autistiche a sembrare molto strane, dato che parlano del problema come se fosse urgente ma poi continuano a comportarsi come prima. La capacità di non distrarsi in questo caso aiuta.

Gli adulti

Il cambiamento di cui si sta facendo promotrice la sedicenne svedese non è riservato esclusivamente ai teenager. Anzi, la loro mobilitazione è solo l’estrema ratio contro l’immobilismo degli adulti. Gli adulti sono più che benvenuti, anzi “necessari”, come tutti. E molti infatti si stanno accodando all’iniziativa di Greta, come molti genitori che si stanno organizzando in associazioni per sostenere questa necessaria urgenza di cambiare il rapporto con il pianeta manifestata dai figli che li ha contagiati.

Pene dimezzate per femminicidio, una sconfitta per tutti

da “Huffington Post”

Dieci giorni fa si scatenava una tempesta emotiva, ora è il turno della delusione, domani chissà: il comportamento della vittima e i sentimenti (nella sentenza “i risentimenti”) di un uomo che colpisce a morte sua moglie – l’amante, la sorella, la compagna – hanno un peso nelle aule di tribunale. Una relazione burrascosa o una madre anaffettiva possono costituire attenuanti e alleggerire la condanna per un reato agghiacciante e odioso.

Nella sentenza che vede dimezzata la pena per Javier Napoleon Pareja Gamboa – 52 anni, operaio edile ecuadoriano, condannato in primo grado per l’omicidio volontario della moglie Angela Coello Reyes, per tutti Jenny – ci sono due questioni da considerare, spesso confuse dall’opinione pubblica.

La prima riguarda il rito abbreviato, ammesso anche per giudicare reati violenti come l’omicidio e la violenza sessuale. È grazie al rito abbreviato (o a causa di), se la condanna a 24 anni per omicidio volontario a Gamboa è diventata automaticamente di 16 (diminuzione di un terzo della pena). Ancora oggi chi commette un reato efferato può godere di sconti, solo perché permette alla farraginosa burocrazia statale una riduzione dei tempi processuali. Le leggi vanno rispettate, ma anche le vittime e le famiglie che restano a piangerle dovrebbero esserlo: considerare caso per caso e concedere riti speciali solo quando ritenuto opportuno potrebbe essere un primo passo.

La seconda questione ha creato sconcerto e riguarda le attenuanti: tutto ciò che deve aver portato i 30 anni richiesti dal Pm ai 24 decisi dai giudici. Tra queste, spicca lo stato d’animo dell’omicida. Gamboa secondo i giudici

“ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile… come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contraddittorio, che l’ha illuso e disilluso nello stesso tempo”.

Quando i giudici scrivono che lo stato d’animo intenso del signor Gamboa “non è umanamente del tutto incomprensibile”, affermerebbero dunque che è umanamente comprensibile.

Possiamo leggere tra le righe di questa sentenza una condanna all’atteggiamento fedifrago e contraddittorio di lei, un po’ come dire che in fondo se l’è cercata. È bene ricordare che lui ha deciso liberamente di tornare in Italia dalla moglie a suo dire aguzzina, senza essere minacciato o picchiato. Lei gli ha solo promesso qualcosa che non ha mantenuto: la fedeltà. Non è la prima e non sarà l’ultima donna a tradire il suo uomo, bisognerebbe capire se questo debba essere considerato un’aggravante o un’attenuante, quando dall’infedeltà si arriva all’omicidio.

Questa sentenza desta ancora più clamore dopo quella nei confronti di Michele Castaldo: 57 anni, ha stretto le mani intorno al collo della povera Olga Mattei fino a ucciderla – la donna con la quale aveva iniziato una relazione un mese prima – quando lei aveva provato a lasciarlo. Secondo i magistrati le difficili esperienze di vita di Castaldo lo portarono quel giorno a essere sopraffatto e la “soverchiante tempesta emotiva e passionale” acuì il suo timore di venire abbandonato.

Nei cosiddetti delitti passionali e in tutti i femminicidi compiuti da uomini che non accettano di essere lasciati, abbandonati, respinti, ci sarà sempre una componente emotiva. Una donna che sceglie un altro uomo, una moglie che decide di lavorare mentre il marito la vorrebbe a casa, una fidanzata che lascia il compagno perché non lo ama più, una figlia che si veste troppo all’occidentale: queste donne provocheranno reazioni viscerali e turbamenti che non possono in alcun modo diventare attenuanti, non solo in fase processuale, ma ancor più nella nostra cultura.

I giudici sulle pagine dei giornali confermano le loro scelte e assicurano che non ci sia in corso alcuna deriva maschilista (che il giudice sia donna non fa alcuna differenza, in quanto il maschilismo non è prerogativa dell’uomo), ma affermare che questi giudizi non abbiano nulla a che fare con il delitto d’onore è scorretto.

Queste sentenze hanno un forte impatto sull’opinione pubblica e stiamo correndo un doppio rischio: che la pena sia eccessivamente soggetta alla sensibilità del giudice di turno e che qualcuno inizi (o ricominci) a considerare il comportamento di una donna come la causa di una reazione violenta, di un atteggiamento prevaricatore, di un omicidio.

IL TRISTE RITRATTO DELLE VITTIME DELL’ARIA

Una delle cose meno divertenti del nostro mestiere di giornalista è l’impatto con la cronaca nera. Soprattutto nei casi di disastri di massa, come gli incidenti aerei. L’ultimo, in ordine di tempo, è avvenuto domenica 10 marzo, alle 8.44 del mattino, sui cieli dell’Etiopia. Un Boeing 7373 Max 8 della Ethiopian Airlines, una delle compagnie africane più affidabili, sei minuti dopo il decollo da Addis Abeba con destinazione Nairobi è precipitato portandosi via la vita di 149 passeggeri e 8 membri dell’equipaggio.
Domenica mattina ero al lavoro, nella redazione di Euronews. Il nostro è un lavoro di desk, non abbiamo la fortuna (o la sfortuna?) di essere sul campo, almeno non in questo frangente, nel momento in cui si è appresa la notizia dell’incidente. Pensando subito all’eventualità, poi confermata, della presenza di italiani a bordo. Ce n’erano otto.
Quella che doveva essere una tranquilla domenica di lavoro si è trasformata in una triste attesa di notizie, diffuse dall’agenzia Ansa e da altre agenzie internazionali, sulla scorta delle informazioni fornite dalla stessa Ethiopian Airlines alla Farnesina. E da lì è cominciato il lavoro meno divertente del mondo: il triste ritratto delle vittime dell’aria.
Informazioni che cominciavano ad arrivare come un fiume in piena, nomi, cognomi, età, origine, lavoro, attività. E poi, le foto. Meglio, se in un momento di felicità, passata. Una volta, per avere le “testine” delle vittime dei fatti di cronaca bisognava chiedere alla Questura, che le forniva alla stampa in base alle foto dei documenti di identità. Ora, esistono i social network. Si rischia di andare a frugare nell’intimità delle vittime, e su Facebook, ad esempio, poco dopo l’incidente esistevano già le pagine delle vittime con la scritta “in memoria di…”.


E allora, facciamo il nostro lavoro di ficcanaso. La foto dell’archeologo Sebastiano Tusa con la moglie durante una vacanza, il sorriso delle giovani funzionarie dell’Onu Virginia Chimenti e Pilar Buzzetti, una foto di Paolo Dieci ad una manifestazione con la bandiera della pace, i coniugi medico e infermiera, originari della provincia di Arezzo, che andavano in Sud Sudan per l’inaugurazione di un ospedale, insieme al commercialista, tesoriere della onlus Africa Tremila. E poi Rosemary Bumbi, l’unica di cui non si sono trovate fotografie, semplicemente perchè – tra le diverse omonime presenti sui social – non si sa qualche fosse la “vera” Rosemary. Il tutto per comporre un ritratto, triste, lo ribadisco, quasi un puzzle di volti un tempo sorridenti e che ora non lo saranno più. Sarà difficile persino recuperare i corpi delle vittime, l’aereo è letteralmente precipitato dentro al terreno, sprofondato in profondità. Forse non ci sarà nemmeno un corpo da consegnare ai familiari, per poter piangere i loro cari.
A volte odio questo lavoro.

«Beverly Hills 90210», grande macchina di sogni adolescenziali

di Aldo Grasso (dal Corriere della Sera)

Con Luke Perry sono morti gli anni ’90? In realtà, niente muore, tutto ritorna; per questo è giusto ricordare quella magnifica macchina da sogni adolescenziali che è stata «Beverly Hills 90210», il primo esempio compiuto di teen drama, come lo intendiamo oggi. Creata da Aaron Spelling, da Darren Star, da Charles Rosin e da altri ancora (in Usa dal 4 ottobre 1990, in Italia dal 19 novembre 1992 su Italia 1), la serie ruotava attorno alla famiglia Walsh, trasferitasi per il lavoro del padre dalla provinciale Minneapolis alla mondanissima Beverly Hills. «Beverly Hills 90210» era «Happy Days» vent’anni dopo; era la parte solare di «Twin Peaks», l’altra faccia di Gioventù bruciata.

C’era ancora Fonzie, che qui si chiamava Dylan (come Bob, come il poeta Dylan Thomas), c’erano i gemelli Walsh (come il grande regista), lei Brenda e lui Brandon (quasi come Marlon). C’era l’intellettuale del gruppo, una ragazza, che si chiamava Andrea Zuckerman (suo padre sarà certo uno dei tanti mitteleuropei finiti a Hollywood). «Beverly Hills» è stato il sogno easy chic di un mondo fatto di belle case, belle macchine, bella vita e brutti problemi. In America, alla fine delle puntate incentrate su particolari tematiche sociali (e la droga, l’alcolismo, il razzismo, la maternità indesiderata, l’Aids), venivano proposti numeri verdi di assistenza. In Italia, ci pensavano le mamme più apprensive a vietarne la visione! «Beverly Hills» è stato un luogo mitico di riflessione, il primo «parliamone» dedicato ai teenagers. Non c’è scritto da nessuna parte che per affrontare un problema sia necessario discuterne, magari in tv. L’educazione sentimentale può anche scaturire dalla lettura di un libro. O dalla visione di un film. O di una serie. E «Beverly Hills 90210» ha fatto proprio questo: ha raccontato, ha messo in scena i problemi, ha narrativizzato le paure.

“Tensioni Italia-Francia? È un problema italiano”

E’ un rapporto di amore e di odio, di simpatia (poca) e antipatia (molta) quella che unisce da secoli l’Italia e la Francia. Il Napoleone della situazione, ora, è il Presidente francese Emmanuel Macron, che non suscita grandi simpatie nemmeno nei connazionali (vero, Gilets Jaunes?) che lo hanno eletto appena un anno e mezzo fa, ma non riscuote molto successo nemmeno tra i cugini transalpini. Attenzione, però: “cugini transalpini” è una espressione tipica che vale sia per gli italiani nei confronti dei francesi, ma anche per i francesi rispetto agli italiani. Di solito, in entrambi i casi, con un velato senso di fastidio (l’antipatia di cui vi abbiamo detto sopra).
Vivendo una buona parte dell’anno in Francia, ho potuto constatare quanto – in realtà – questo accanimento sia, viceversa, quasi esclusivamente a senso unico: il flusso arriva dall’Italia e arriva in Francia con solo biglietto di andata, senza ritorno. Basta dare un’occhiata ai social, in tempo di dichiarazioni di Macron sui migranti, oppure quando l’inquilino dell’Eliseo richiama l’ambasciatore da Roma per una visita poco tempestiva di un vicepremier italiano ai leader di quei Gilet Gialli che così tanto detestano Macron. Gli “haters” di professione, in questi casi, diventano improvvisamente tra i nazionalisti più accesi, come ci accade solo una volta ogni quattro anni, ai Mondiali di calcio (quando ci qualifichiamo). Da parte francese, zero. Nessuna reazione. La loro presunta grandeur, il loro altrettanto presunto complesso di superiorità, li spinge a non esporsi, a rimanere ben coperti, a non gettarsi nell’italica mischia. Magari i francesi, in generale, non sprizzano simpatia da tutti i pori (ve lo confermo!), ma qualche eccezione, vivaddio, esiste: anche tra i colleghi giornalisti. E allora ho sondato il loro umore, a proposito di queste presunte tensioni diplomatiche italo-francesi, compreso il loro punto di vista sulla benedetta (o maledetta) TAV, la Torino-Lione della discordia. Ricordando al Ministro italiano dei Trasporti, Danilo Toninelli, che qualcuno a Lione ci va, eccome: soprattutto per lavorare.

“Sulle grandi opere, l’Italia sembra avere le idee confuse”
Il nostro primo interlocutore è Christelle Petrongari, giornalista di Euronews, di evidente origine italiana, in particolare della zona di Grosseto. “Francamente questa tensione tra Italia e Francia è soprattutto un problema politico, tra Salvini, Di Maio e Macron, quindi bel al di sopra delle nostre teste. E l’astio degli italiani nei confronti dei francesi, se davvero esiste, è un problema solo italiano. Io non mi sognerei mai di comportarmi male con un italiano solo perchè il suo governo è di destra o di sinistra e si comporta di conseguenza. Credo che nemmeno un italiano di media intelligenza farebbe la stessa cosa con un francese. Qui in Francia nemmeno sui giornali o nelle televisioni si è parlato troppo di questi rapporti tesi tra i due paesi, sono considerate normali scaramucce politiche. Per quanto riguarda la TAV, invece”, continua Christelle Petrongari, “esiste anche a Lione, anche in Francia, piccolo movimento di opposizione, ma non ci sono mai stati scontri o disordini, piuttosto esiste un movimento contratto ad un progetto autostradale sulla A45 da Lione e St.Etienne, ma questa è un’altra storia. Per quanto riguarda la Torino-Lione, la decisione da parte del governo francese è già stata presa, con determinazione, e l’opera alla fine si farà, anche perchè è parte di un corridoio europeo di transito ferroviario che non può essere interrotto. Ecco, mi sembra che in Italia, su questa attuazione delle grandi opere o meno, abbiate un po’ le idee confuse”.



“E’ solo politica!”

Interviene Joel Chatreau, da quindici anni giornalista radiofonico a FranceInfo: “Ho tanti amici italiani, che vivono in Francia o che risiedono in Italia e nessuno di loro penserebbe mai di paragonare tutti i francesi a Macron, così come noi non identifichiamo certo gli italiani in base al fatto che il loro capo del governo sia Berlusconi o qualcun altro. Quella è solo la politica! Nella vita reale, io ho molto rispetto degli italiani che, tra prima, seconda e terza generazione, compongono una fetta importante della società francese. Ma l’Italia, che adoro come paese, è fatta così, è il paese dei campanili e delle polemiche, e questa è una caratteristica tutta italiana, che può anche diventare un problema tutto italiano. Ma non credo che un italiano di buon senso possa rinunciare, che so, ad un week end a Parigi – beh, magari non in questo periodo di Gilets Jaunes… – solo perchè Macron, una volta, ha detto che l’Italia è vomitevole, riferendosi all’atteggiamento del governo nei confronti dei migranti. Per quanto riguarda la Torino-Lione”, continua Joel Chatreau, “vedo e leggo quello che vedono e leggono tutti: le manifestazioni per il SI e per il NO a Torino, l’analisi costi-benefici giudicata deficitaria dal governo italiano e giudicata straordinariamente di parte dal Comitè Transalpine Lyon-Turin, la richiesta dell’Unione Europea e della Francia all’Italia di finire l’opera o restituire i soldi ottenuti per la costruzione dei 57 km di tunnel. La mia opinione? Temo che tra vent’anni saremo ancora qui a parlarne, ma molto dipenderà dal colore futuro dei governi italiani”.

“Niente battibecchi, i capi di governo avrebbero altro di cui occuparsi”
Dalla campagna della regione Rhone Alpes-Auvergne, a Bourg-en-Bresse, una delle roccaforti degli ultimi quattordici sabati dei Gilets Jaunes, fa sentire la sua voce anche Maria Caterina Tarditi, insegnante di italiano, originaria della Toscana, zona Maremma, che da oltre vent’anni vive in Francia. “Non ho mai pensato di tornare in Italia, dove andrei mai ad insegnare?”, si domanda. E, sui rapporti tesi tra Italia e Francia visti “da dentro”, commenta. “Non per tenere la parte di chi mi ospita, ma mi sembra che la responsabilità sia soprattutto dei politici italiani, che hanno aizzato le folle, le loro folle di simpatizzanti ed elettori, contro Macron. Servirebbe un atteggiamento più maturo, non siamo a ‘Giochi Senza Frontiere’, dove l’Italia deve battere la Francia, ma siamo in un contesto europeo dove tutti dovrebbero tirare nella stessa direzione. E, purtroppo, non accade. Detto questo, è chiaro che esiste un evidente malessere sociale in Francia, di cui forse Macron non si è ancora reso conto, se non ultimamente per effetto delle proteste dei Gilet Gialli. La qualità della vita in Francia, negli ultimi quindici, è decisamente peggiorata”, conclude Maria Caterina Tarditi, “e nè alla Francia nè all’Italia servono questi inutili battibecchi tra i rispettivi capi di governo. Dovrebbero occuparsi di ben altro”.