I balli senegalesi in chiesa per beneficenza scatenano la polemica sui social

da “Torino Oggi” – di Marco Bertello

“Cos’è sto schifo!? Il Bunga Bunga almeno lo facevano a casa loro”. Questo è solo uno dei tanti commenti che popolano il Web e che impallinano la serata che si è tenuta sabato in chiesa a None con il concerto di percussioni dell’associazione Tamra, che aveva anche il fine di raccogliere fondi per i lavori che si stanno tenendo in parrocchia.

La serata voleva essere un momento di incontro con la cultura senegalese, ma un video che si è diffuso in maniera virale su Internet ha scatenato una serie di polemiche ed attacchi al vetriolo, che hanno lasciato interdetto il parroco don Giancarlo Gosmar, che non si dà pace per una reazione così feroce: “Mi hanno fatto vedere i commenti e mi chiedo cosa ci sia di dissacrante in quanto è successo? – commenta basito –. È una serata che nasceva dall’esigenza dei giovani dell’oratorio di conoscere una realtà diversa e di confrontarsi con loro”.

Non è la prima volta, peraltro, che la musica Griot di Magatte Dieng e dei musicisti che collaborano con lui, viene suonata in chiesa a None: “C’era già stata una serata qualche tempo fa e nessuno si era lamentato” ricorda don Gosmar.

Stavolta invece un video di un paio di minuti che riprende l’esibizione ha scatenato il putiferio. Basta vedere le reazioni sul profilo del giornalista Cristiano Tassinari, che abita in paese e ha pubblicato il filmato con il commento “E poi, in certe chiese, come a None, il parroco permette le danze tribali senegalesi…”.

Ne è seguita una sfilza di commenti più disparati: “Questo è uno spettacolo da circo”, “Siamo alla frutta”, “Solo più perenne carnevale”. E non mancano attacchi al prete come “Il parroco di sicuro è buonista e del Pd”.

Ovviamente non mancano le voci in difesa, anche se sono numericamente di meno: “Buondì, scusate l’intromissione. Qualcuno ha avuto l’idea di andare a chiedere ed informarsi sull’evento? Delle sue finalità? Non vi angustiate, andate pure nelle vostre tranquille chiese, nessuno viene a giudicare l’operato che fate dentro” oppure “Questi ragazzi fanno volontariato per bimbi in difficoltà. Vi turba perché in chiesa? Perché sono lavoratori integrati e non hanno alcun tipo di fanatismo. Il ballerino è una persona da conoscere. È morta la moglie e la figlia. Un gigante buono. Vorrei lo conosceste”.

Nel dibattito, è intervenuto anche il vice sindaco nonese Roberto Bori Marrucchi che sul suo profilo Facebook ha commentato duramente: “Sabato sera scorso, nella Chiesa Parrocchiale di None, c’è stato un concerto di musiche africane con percussioni e balli. Il tutto organizzato per raccogliere dei fondi per il restauro in corso dell’edificio di culto. Ieri sera mi sono imbattuto, su questo social, su un filmato della serata. Quello che più mi ha sconvolto sono stati i commenti lasciati. Dire razzisti è fare un complimento. Una sequela di insulti, con il corollario di frasi tipiche razziste, verso il parroco, il Papa, i preti, i cristiani complici di tale sacrilegio, le scimmie nere. Decine e decine di questi commenti. Che desolazione! Che schifo! Stiamo veramente divenendo un popolo xenofobo. O forse lo siamo sempre stati ed ora qualcuno ha sdoganato l’anima più nera che c’è in noi”

Il video come succede sul web, ha fatto il giro ed è finito anche sul profilo dello speaker di Radio Padania Libera Sammy Varin, dove si è scatenata un’altra raffica di commenti del tipo: “Qualcuno chiami Salvini”, “Via fateli tornare in Africa”, “Vomitevole vergognoso”.

Una reazione e una diffusione che nessuno in parrocchia e all’oratorio si sarebbe aspettato, men che meno il parroco: “La chiesa non è una balera, questa serata serviva per conoscere l’espressività del popolo africano che passa anche attraverso la musica e il ritmo – conclude don Gosmar –. Abbiamo anche fatto cena con il gruppo per parlare di loro e della loro cultura e farli sentire a casa”.

Ortoressia, questa sconosciuta (e pericolosa)

L’ortoressia è un disturbo che porta ad ammalarsi…di troppa salute. L’ossessione per il cibo sano, questa una possibile definizione di “ortoressia”, è un disturbo alimentare relativamente nuovo, ma già in forte crescita. Non è ancora riconosciuta come patologia dal DSM-5, il principale manuale di diagnostica dei disturbi mentali, ma tra le malattie psichiatriche classificate come ARFID (Avoidant Restrictive Food Intake Disorder), che riunisce le persone che non mangiano per ragioni non legate al dimagrimento, può rientrare anche l’ortoressia.
“Si tratta di un disturbo insidioso, perché inizialmente può essere scambiato per un corretto stile di vita. Il paziente stesso è portato a pensare che gli altri non si rendano conto di intossicarsi con cibi malsani, si sente l’unico a fare la cosa giusta”, spiega Dora Aliprandi, psicoterapeuta presso Aba (Associazione per lo sviluppo e la ricerca sull’Anoressia, la Bulimia e altri disturbi alimentari), intervistata dalla rivista “Donna Moderna”.
“Da noi, gli ortoressici arrivano solo quando realizzano di essere socialmente isolati e di stare male fisicamente. Assumendo pochissimi nutrienti, oltre a perdere peso, continuano ad ammalarsi, sono anemici e soprattutto malnutriti. Li riconosci perché hanno la carnagione pallidissima”, aggiunge la dottoressa Aliprandi.
E non è finita: perchè il passaggio dall’ortoressia all’anoressia sembra davvero breve.
Ortoressia, un problema più maschile dell’anoressia
“L’ortoressia è il sintomo d’esordio dell’anoressia. Succede in molti casi”, aggiunge Stefano Erzegovesi, responsabile del Centro disturbi del comportamento alimentare dell’Ospedale San Raffaele Turro di Milano, intervistato da “Donna Moderna.
“Si diventa vegeteriani, poi vegani, poi crudisti, quindi si comincia da una qualunque restrizione, ma di fatto si sta sviluppando un disturbo anoressico mascherato da salutismo. In entrambi i casi si tratta di problemi alimentari che hanno a che vedere con il controllo e “l’evitamento”. Ma a differenza dell’anoressia, che colpisce quasi solo donne (90%), nell’ortoressia c’è una leggera prevalenza degli uomini”.
Nel 2017, secondo i dati del Ministero della Salute, quasi 3 milioni di italiani soffrivano di disturbi dell’alimentazione e di questi circa 500mila erano ortoressici”.
Appetito corretto? Non proprio
Il termine ortoressia viene dal greco: ortos, “corretto”, e orexis, “appetito”. Letteralmente, dunque, si tratta di “appetito corretto”. Il termine richiama alla memoria, ovviamente, l’anoressia (che significa letteralmente “mancanza di appetito”).
Come ricorda il sito psicolinea.it, “ortoressia”, o “ortoressia nervosa”, è un termine coniato dal dottor Steven Bratman per definire l’ossessione patologica per i cibi sani, che porta alla malnutrizione e a disturbi di salute anche gravi.
Lo stesso dottor Bratman, specializzatosi in medicina alternativa, era diventato un maniaco dell’alimentazione, al punto da consumare i propri pasti nel silenzio più assoluto, si alzava da tavola quando il suo stomaco non era ancora sazio, non mangiava mai una verdura se questa era stata colta da più di quindici minuti e masticava il boccone di cibo, prima di ingerirlo, per più di cinquanta volte. Mangiare del formaggio pastorizzato poteva farlo sentire male al punto di temere di contrarre, dopo questa ingestione di cibo ‘avvelenato’, una polmonite, se non addirittura il cancro. Riconosciuto di avere qualcosa che non andava, il dottor Bratman si è curato da solo ed ha anche divulgato le caratteristiche e la sintomatologia di questo disturbo alimentare fino ad allora sconosciuto (si può consultare il sito http://www.ortorexia.com, comprendente il test-fai-da-te elaborato proprio dal dottor Bratman.

Quasi come Braccio di Ferro con gli spinaci….
Il soggetto che soffre di ortoressia vuole a tutti i costi evitare determinati alimenti, come quelli contenenti grassi, conservanti, coloranti artificiali, carne rossa, uova, zuccheri, latticini, e sceglie una dieta povera. Le persone che soffrono di ortoressia non sono interessate al gusto di ciò che mangiano: l’unica cosa che conta è sapere che quel determinato cibo può fare bene, evitare le malattie, ricevere forza ed energia per affrontare la vita, un po’ come Braccio di Ferro e i suoi spinaci. I cibi preferiti per nutrirsi sono vegetali crudi e cereali, o cibi macrobiotici.

Salute, ad ogni costo
Le persone ossessionate dal cibo sano, come intuibile, sono anche quelle della  ‘salute, a qualsiasi costo’, dunque il loro interesse non riguarda solamente l’alimentazione, ma anche l’ossessione per il fitness, la pulizia, i massaggi, il rilassamento, la meditazione… Possono esservi poi altre fissazioni che portano ad esempio ad evitare, nei luoghi pubblici, stoviglie (piatti, pentole, posate) “contaminate” da un uso precedente con la carne, oppure considerate tossiche, come quelle di alluminio o di plastica. Al ristorante capita pure di chiedere un piatto di insalata con foglie non tagliate, per non far perdere alla verdura le sue qualità nutritive, mangiare solo (e soltanto) verdura e frutta di stagione, o escludere dalla propria dieta anche i latticini e le uova, per essere vegetariani totali, o ‘vegetaliani’, come molti si definiscono.

Occhio al supermercato
Un altro segnale di ortoressia è la conoscenza precisa di tutte le etichette dei cibi in vendita al supermercato: chi soffre di questo disturbo conosce i componenti nutritivi di ogni genere di prodotto, per cui sa benissimo, in termini assoluti e in percentuale, quanti grassi saturi e insaturi contiene quel determinato prodotto, il suo valore calorico, i carboidrati…
In pratica questi ‘estremisti del cibo’ focalizzano tutte le loro attenzioni ed energie solamente sugli aspetti dietetici, trascurando completamente gli altri aspetti della loro vita quotidiana, come ad esempio le relazioni sociali. Il che, alla lunga, crea problematiche psicologiche associate che rendono ancor più complicata una terapia “disintossicante”.

Esiste una cura?
“La cura è basata sul modello dell’anoressia: dobbiamo aiutare il paziente ad allentare il controllo ossessivo sul cibo e l’alimentazione”, conclude il dottor Erzegovesi, responsabile del Centro disturbi del comportamento alimentare dell’Ospedale San Raffaele Turro di Milano. “Ma il supporto psicologico e umano dei familiari e delle persone care risulterà fondamentale nella buona riuscita, in tempi ragionevoli, della cura”.

Come sopravvivere a San Valentino (anche il giorno dopo)

Vademecum gentilmente offerto dall’esperto Luca Colantoni e dal suo blog…
https://lucacolantoni.wordpress.com/2019/01/
 

AVVERTENZE E MODALITA’ D’USO:La prima avvertenza è quella di non lasciarvi fuorviare dalla foto che può sembrare contro la giornata di San Valentino. In realtà si tratta di una nota contro tutto quello che ruota intorno a a questa giornata. La seconda avvertenza è quella di non capire male quel “fucking” della foto perché il “vaffa” in questo caso è solo per chi fa di questo giorno un business dove non conta più il sentimento. La modalità d’uso, invece, è che questa è una nota per tutti, per i single, ma anche per quegli innamorati che decideranno di festeggiare in maniera tranquilla, tra regali utili e qualche bacio in più. Per le coppie di ogni genere, per l’amore verso i propri genitori, per ogni tipo di buon sentimento. Buona lettura !!!

Happy “fucking” Valentine’s Day
Il freddo e i “Giorni della Merla”, i fatti di cronaca, le vicende politiche dove, da sempre, se le danno di santa ragione. Ma anche la D’Urso che spazia, alternando finti occhi lucidi e faccia preoccupata e sorrisi a mille denti, dal parlare dell’Isola dei Famosi e la faccia del Ken Umano fino a far finta di fare la giornalista intervistando politici e sguinzagliando in giro “i miei giornalistiiiii”, ma ancora, le vicissitudini della propria squadra di calcio, finanche un polemico Sanremo con un Ultimo che è arrivato secondo e un Mahmmud che ha vinto. Ecco, per tutte queste ed altre situazioni il pensiero è stato distolto dalla “fatidica data”, nessuno ha realmente pensato a quello che sta per accadere.
Ovvio adesso uno sguardo al calendario del vostro computer e vai, è fatta, il pensiero adesso vi assale, un tremolio leggero delle mani, il cuore a mille: il 14 febbraio, ovvero San Valentino è implacabilmente planato sulle nostre vite. Già, proprio il giorno della famosa Festa degli Innamorati. Ma parliamo dei giorni precedenti a questa fatidica data.
Cominciamo da qui: alzi la mano chi passando davanti alle vetrine di tutti i bar e di tutte le pasticcerie non si è imbattuto in addobbi, scatole di cioccolatini, cuori di panna ed orsacchiotti vari. Ed alzi ancora la mano chi di voi, di fronte a tanto scempio, non ha mai provato l’irrefrenabile desiderio di trasformarsi nel più acceso degli hooligans da stadio e spaccare tutto oppure, anzi, non ci si fa neanche troppo male, prendere una bella tanica di benzina e dare fuoco a tutto. E poi, scusate, ho dimenticato i cuori rossi gonfiabili… rialzi la mano chi non ha mai sentito l’impulso di armarsi di spillone e bucarli tutti?
Ma sì, non è certo per odio verso San Valentino anche perché il santo di Terni, in realtà, non ha nessuna colpa visto che, poveraccio, si è ritrovato in mezzo a questa storia quando ormai non poteva fare più nulla chiuso dentro il suo bel sarcofago. A dire il vero la premessa è nei confronti di tutto quello che è altamente commerciale in questa festa e il discorso comprende tutti, nessuno escluso, innamorati veri e single. Facciamo un esempio: perché pagare una caramella, un fiore, un peluche, tre volte di più di quanto la paghi gli altri 364 giorni dell’anno? Che cosa cambia? E i regali? Volete scommettere che la vostra “lei” o il vostro “lui” appena torna a casa guarda il vostro ninnolo con il bigliettino a forma di cuore e la frasetta sdolcinata ed esclama: “Ma guarda, oggi regali, dolci, fiori, baci e carezze … e gli altri giorni”?

E ancora. Le prenotazioni nei ristoranti dove si rischia di pagare tutto il doppio degli altri giorni? Vogliamo parlare di locali che, “per l’occasione” si agghindano con degli orribili drappi e palloncini rossi e vi propongono non la semplice pizza e birra di tutti i giorni, ma un menù completo e ovviamente fisso dall’antipasto al dolcetto (a forma di cuore ovviamente), per la “modica” cifra di minimo una cinquantina di euro a testa. Ma è possibile?

Insomma, ovvio che un po’ si scherza (ma neanche tanto), ma una cosa è certa: questa è la classica giornata dove spesso, anzi sempre, ci si dimentica di che cosa vuol dire veramente amare qualcuno. Si pensa solo a fare bella figura con il regalo più grande, il locale più bello ed il resto non conta più. Si pensa solo ad apparire, mentre ci si dimentica che è con il cuore che si ama una persona, tutti i giorni dell’anno senza distinzioni, e non con i soldi spesi in pasticceria, dal fioraio e con qualche peluche che da lì in poi prenderà solo polvere. E’ solo una riflessione: così come a Natale, Pasqua e tutte le altre feste comandate: ormai siamo delle pedine in mano al grande giocoliere del consumismo e non va bene, bisognerebbe ribellarsi.
Amare è una cosa difficile, trovare la persona giusta ed essere ricambiati è difficilissimo. Ci si ama su delle basi solide ed è impensabile che un bel giorno qualcuno, nei suoi messaggi pubblicitari, venga a dirci che quelle basi sono fatte di pasta frolla, panna e cioccolato. E soprattutto è altrettanto impensabile pensare che il metro di giudizio per i nostri sentimenti, secondo loro, dovrebbe essere rappresentato da frasette melense scritte dentro dei cioccolatini, comprati, magari, senza neanche troppa convinzione… no, non ci sto!
E allora? Fatevi regali utili se proprio dovete, ma continuate a farveli durante tutto il resto dell’anno, quando uno meno se lo aspetta, non è più bello? Coppie senza distinzione di sesso, amicizie profonde, l’amore verso i propri genitori, ci si deve voler bene, ci si deve amare tutti i giorni, non solo il 14 febbraio, ricordatevelo!
Lo sdegno, il “fucking”, quindi, è solo per tutto il contorno di questa festa e verso chi ci specula sopra. Poi urliamo pure a squarciagola “viva l’amore” ed “evviva i buoni sentimenti” specialmente per chi in questa sera avrà al fianco una persona importante senza vergognarsi di non aver comprato quel famoso peluche o quel cioccolatino col biglietto o di aver preso due pizze a portar via da mangiare sul divano davanti la tv, ma promettendosi stima, voglia di stare insieme e di costruire qualcosa di importante, magari, sarò pure ripetitivo, ma giova ripeterlo, guardandosi negli occhi e abbracciandosi teneramente. Oppure promettendo fedeltà al proprio amico del cuore, o ribadendo il proprio amore verso chi ci ha cresciuti.
E poi, un piccolo consiglio a chi (e ahimè ce ne sono) questa festa, invece, lo fa sentire ancora più solo, ma se vogliamo un consiglio un po’ per tutti.
La sera del 13 febbraio, fate una cosa: mettete semplicemente un bigliettino sul tavolo del salotto, in cucina o all’ingresso, dove volete. La mattina del 14, andatelo a prendere e, guardandovi allo specchio, leggete ad alta voce quello che avete scritto la sera prima:
“Buon San Valentino dalla persona che più di tutte ti vuole bene e ti ama… te stesso…”
Una presa in giro? No, assolutamente. Forse soltanto un pizzico di autentica realtà in mezzo a tanta, tantissima ipocrisia… !!!
AUGURI A TUTTI

Houellebecq? No, grazie.

Ho finito il deludentissimo SEROTONINA di Michel Houllebecq. Metà libro a scrivere sesso e volgarità, la seconda metà a raccontare la triste solitudine di un “Fu Mattia Pascal” francese, un funzionario del ministero dell’Agricoltura, che a 46 anni, imbottito di pastiglie di serotonina per non morire di depressione, molla tutto (lavoro e fidanzata) per vivere da solo, in un grigio hotel, senza più rapporti umani. In mezzo, una lunga noiosa battaglia sindacale dei contadini della Normandia che sfocia in tragedia e mille rimpianti per le donne della sua vita, che ormai si sono rifatte una vita altrove e senza di lui.
Un romanzo tristissimo, senza alcun contesto sociale, come invece fu per il suo libro precedente, “Sottomissione”. Ora, per cercare di capire se esiste una grandezza nel sopravvalutato Houllebecq, mi sottoporrò dolorosamente alla lettura de “Le particelle elementari”, già preso in biblioteca. Non ho più voglia, infatti, di spendere un solo centesimo per Houllebecq. Ma, nel caso, sono pronto a ricredermi.

Michel Houllebecq e l’inquietante copertina in lingua spagnola del suo libro.

 

Sanremo è davvero sempre Sanremo?

Sanremo? Tutti lo criticano, ma poi lo guardano. Perché? Perché Sanremo è Sanremo. Lo slogan – sigla di Pippo Baudo spiega ancora in sole 4 parole il motivo del successo di questo appuntamento che può essere definito una vera e propria festa popolare.

Insomma 11 milioni di italiani sono già pronti. Nello specifico in stile Fantozzi, quando l’amato Ugo decide che per nulla al mondo sarebbe stato disturbato durante la partita della nazionale condita da una straordinaria “frittatona” di cipolla. Un Fantozzi però versione 2019. Immaginiamo infatti il ragioniere alle prese con il cellulare per scrivere sui social in tempo reale il proprio commento sullo spacco della conduttrice, sul fischiare lo stonato di turno o sui fiori che non si vedono.

I ricordi

Da show musicale degli anni 50/60 il Festival si è trasformato negli 80 in vero e proprio fenomeno mediatico. Nello specifico il più nazional-popolare con il suo mescolare alto e basso. Gli episodi del passato legati alle critiche? Basta andare nel 1982, quando Vasco, allora sconosciuto e ora re Mida dei concerti, si presentò con “Vado al massimo”. I commenti più benevoli furono: ”Chi è questo ubriacone? Rispeditelo a casa”. Oppure Zucchero che arrivava sempre agli ultimi posti. Ogni anno partiva la solita critica davanti alla tv: “Ancora tu, ma non dovevamo vederci più?”. Eppure da “Vita Spericolata” a “Donne”, il Festival è pieno di gioielli che resteranno per sempre nella storia della musica italiana.

Sanremo è social

Sui social intanto i criticoni alla vigilia di Sanremo si scatenano. Guardi il Festival? Alcune risposte: “No, da quasi sempre”, “Festeggio allegramente il mezzo secolo di vita senza più aver guardato un solo minuto del pallosissimo e pompatissimo festival dei fiori!”. Oppure “Se mi pagano bene, sì. Altrimenti non ci penso neanche”.

(Massimo Casale, Radio Sound Piacenza)

Si somigliano?

“UN POSTO AL SOLE E DINTORNI”: QUANDO IL TURISMO E’ “TELEVISIVO”

Agli appassionati della soap-opera “Un posto al sole” – tra cui si annovera modestamente il sottoscritto -, in onda da 23 anni su Rai3 e con un bel malloppo di milioni di telespettatori ogni giorno, non è certo sfuggita una trasferta, almeno virtuale, di una parte del cast. Ambientato nelle zone più belle di Napoli, solo raramente qualche protagonista di “Un posto al sole” si è spostato più in là di Posillipo: qualche puntata girata a New York, qualcuna in una clinica svizzera, e poco altro.
Da prima di Natale, uno dei personaggi, il giovane Patrizio Giordano, promettentissimo chef già vincitore di un talent televisivo di cucina, ha deciso di mollare tutto (Napoli e pure la fidanzata Rossella) per trasferirsi ad Alba, per un prestigioso stage nel ristorante stellato di tale chef Niki Panero, altrettanto stellato.
Sfruculiando su Google, non esiste nessun Niki Panero, bensì Enrico Panero, chef poco più che 30enne di Savigliano. Difficile pensare che i produttori della Rai non abbiano fatto caso all’omonimia, almeno nel cognome, a meno che dietro non ci sia una qualche operazione pubblicitaria. Tantè: la scelta di un cognome tipicamente piemontese e di un locale di Alba – con tutte le zone d’Italia che potevano essere scelte: certo, doveva essere parecchio lontano da Napoli, per creare più pathos nella storia d’amore tra Rossella e Patrizio, che finiscono per lasciarsi – è sicuramente una certificazione di qualità per Alba e la sua gastronomia. Non che ci fosse bisogno di “Un posto al sole” per saperlo, ma il messaggio arrivato ad un grande pubblico nazional-popolare è “Ad Alba si mangia bene”, spingendo magari qualcuno dei telespettatori a cliccare “Alba” e a scoprire che è terra di tartufi, nocciole, Nutella e buon vinto…ed è pure una bella città!
Aumenteranno i turisti grazie a queste puntate di “Un posto al sole?” Temo di no. Troppo “virtuale” la pubblicità di Alba, non ci sono riprese esterne nemmeno quando Rossella va a trovare Patrizio per le feste di Natale, troppo poco la guida del Monferrato e Roero che lui le manda prima di partire, per mostrarle in quali posti andranno (e poi non ci sono andati, si lamenta Rossella, visto che Patrizio era troppo preso dal lavoro).
Una pubblicità virtuale (e involontaria, forse) come quella fatta da Checco Zalone, nel suo ultimo film, a Roccaraso: in quella famosa scena, lui relegato al Polo Nord, dice alla mamma al telefono che là è molto più freddo che a Roccaraso, di fatto regalando una bella notorietà nazionale alla località montana abruzzese.
Per lanciare il fenomeno-Alba ci voleva una bella puntata interamente girata in città, allora si…ma siamo sulla strada buona. Non è cosi facile uscire dal dominio di Roma (e, in second’ordine, Milano e Palermo, in questo caso per gli ormai insopportabili e innumerevoli telefilm sulla mafia) nelle fiction italiane. E, infatti, chi lo ha fatto ha avuto grandi risultati, in termini di share e di turismo.
Patrizio & Rossella…

I casi più famosi di turismo “televisivo”
Il caso più eclatante è quello di “Montalbano“, inimmaginabile fuori da quel suo pezzetto di Sicilia che è l’immaginaria Vigata. Girato in diverse zone della Sicilia (il commissariato, in realtà è il comune di Scicli, casa sua è a in riva al mare a Punta Secca, poi ancora a Modica e Ragusa e altrove), ha creato un aumento vertiginoso del turismo in quella zone della provincia ragusana: tutti a voler vedere i luoghi di Montalbano.
Un caso simile è quello di “Don Matteo“, la lunga serie tv che vede Terence Hill nei panni del parroco di Gubbio. Una pubblicità straordinaria per la cittadina umbra, che anche in questo caso ha avuto un’impennata considerevole di arrivi turistici e, per lo meno, non è più conosciuta solo per la storia di San Francesco e il lupo. Quando, per una stagione della serie, Don Matteo viene trasferito in un’altra chiesa, a Spoleto, il pubblico non ha particolarmente apprezzato. Che almeno il prete sia fedele alla sua comunità!
Meno storiche, ma di uguale successo, altre fiction ambientate fuori dai soliti luoghi comuni televisivi: “Provaci ancora Prof” con Veronica Pivetti a Torino, “Vento di Ponente” a Genova, “L’ispettore Coliandro” a Bologna, “Il commissario Manara” a Orbetello, in Maremma, “Il Giudice Mastrangelo” con Abatantuono in Salento, “I Bastardi di Pizzofalcone” con Alessandro Gassman a Napoli, “Il Restauratore“con Lando Buzzanca a Trieste e il recentissimo “Rocco Schiavone” del romano Marco Giallini in Val d’Aosta. Tutte fiction di successo, di pubblico e di “ambiente”. Ed ecco, allora, che potrebbe essere un’idea – anche delle istituzioni – promuovere, commercialmente, una serie tv dalle nostre parti. Provate ad immaginare un “Commissario Roagna“, un “Ispettore Sciaccaluga” o un “Giudice Mondino“, con panorami locali incorporati: meglio di uno spot pubblicitario, sicuro.

“Torinese per sempre, anche se emiliano”.

Sto firmando così – “Torinese per sempre, anche se emiliano” – le copie del libro di racconti “Torinesi per Sempre” che sto autografando alle presentazioni in giro per Torino. In realtà, finora, ne ho fatta una sola, di presentazione, in un luogo che non conoscevo e che trovo bellissimo: “La Piola-Libreria da Catia“, che non si capisce bene se è più piola o più libreria, ma in entrambi i casi è favolosa!
Il libro, edito dalla casa editrice romana “Edizioni della Sera“, sta andando letteralmente a ruba e gran parte del merito, oltre ai racconti che vi fanno parte, è della straordinaria curatrice Loredana Cella, che sta facendo un eccezionale lavoro di marketing, portando il libro ovunque – in librerie, supermercati e centri commerciali – e, visto il successo, ricevendo insperati inviti laddove sembrava difficile, se non impossibile, entrare. Ma, poi, naturalmente, i protagonisti, sono i racconti. C’è il mio, certo, ambientata in uno dei luoghi che amo di più di Torino: il mercato di Porta Palazzo. “Un viaggio emozionale” – come dice il sottotitolo del libro, nella sua stupenda copertina giallo e blu e con la prefazione di Enrico Pandiani – ma anche “sensoriale e olfattivo”, aggiungo io, avendo ben stamapto in mente il ricordo di quella mia volta, di sabato mattina, quando mi persi incredibilmente al mercato… Vi risparmio il finale, anche perchè non è un giallo, ma soprattutto per non farvi perdere il gusto della suspence, per scoprire se, alla fine, mi sono “ritrovato”.
Per fortuna, oltre a me, ci sono anche tanti altri scrittori, anche famosi, e molti altri che hanno provato semplicemente a scrivere le loro emozioni di “torinesi”. E ci sono riuscii! E, molti di noi, non lo siamo proprio, torinesi, nel senso stretto del termine. Ma, del resto, è la storia stessa della città, fatta di immigrazione, sudore, fatica, lontananza e integrazione.
Io sono arrivato a Torino un freddo giorno del febbraio di 12 anni fa, nel 2007, un anno dopo la fine delle Olimpiadi, il tanto celebrato spartiacque tra la Torino di prima e la Torino di dopo. C’erano ancora i “Gianduiotti” dell’Atrium in Piazza Solferino e persino un pupazzone gigante, di cui non ricordo il nome, con cui feci subito una foto (i selfie sarebbero stati inventati da li a poco). In 12 anni, in mezzo a qualche andata e ritorno, ormai mi sento torinese quasi DOC e il mio sguardo sulla città, da quello benevolo di un turista è diventato quello critico di un residente. Forse è persino un bel segno.
Per fortuna, dicevo, ci sono i veri scrittori, che in questo libro di racconti, in poche pagine, hanno vissuto e vivisezionato solo una città, ma anche un’epoca, come ha fatto l’amico Darwin Pastorin, ricordando i favolosi anni ’60, quelli della sua adolescenza, segnata dalla grande passione per il calcio, per la Juve, ma anche per un mito come Gigi Meroni, che morì all’improvviso, in una domenica sera d’ottobre del 1967, dopo una partita vinta.
Per fortuna che c’è la Torino raccontata da Rocco Ballacchino, che sotto la Mole Antonelliana, il simbolo sabaudo per eccellenza, ambienta un episodio inedito di un’avventura del suo commissario Crema, personaggio che si può ritrovare nei suoi libri. E quelli si che sono gialli…e anche il suo racconto è molto giallo, ci lascia con il fiato sospeso!
Per fortuna che ci sono tutti gli altri – in ordine alfabetico, da Serena Artom a Lorenzo Vergnasco – che, come me, hanno contributo a questo omaggio ad una città che, natale o adottiva, ci è entrata nel cuore. E magari succederà anche a voi, dopo aver letto tutti i racconti.
Ma proprio tutti, mi raccomando.

Il Tasso e il Papus alla presentazione del libro alla “Piola-Libreria da Catia”, sabato 19.1.2019.

Quando essere “ignoranti” è una nota di merito

Io stesso sono, da almeno dieci anni, un assiduo “praticante” del mondo dei social network, quindi lungi da me criticare un sistema di trasmissione delle notizie e delle opinioni che ha rivoluzionato al 1000% il modo di fare informazione. Tutti, ormai, ci siamo accorti di quanto velocissima sia la diffusione di una notizia tramite i social (Twitter, ma soprattutto il molto più “popolare” Facebook). Prendiamo l’esempio di una scossa di terremoto: dopo pochi secondi, l’evento è riportato da decine, centinaia, migliaia di persone, che hanno appena “subito” l’evento stesso e l’hanno descritto immediatamente sulla loro bacheca social, scatenando un immediato moto di solidarietà e preoccupazione. Non c’è radio, non c’è tv all news, non c’è sito, non c’è giornale che possa stare umanamente al passo con questa pazzesca velocità di reazione garantita da un dito su un touchscreen.

Per qualcuno, ad esempio i tanto temuti “Gilet Jaunes” francesi, l’unica vera informazione è quella dei social network. Qualcun altro, sui social e sui blog, ci ha costruito una carriera politica, da parlamentare o da vice-ministro.
Tutto assolutamente fantastico, certo, A parte un paio di controindicazioni (e lasciamo perdere quello che pensava Umberto Eco). La prima, va da sè, è quella delle fake-news, il cui proliferare è diventato direttamente proporzionale all’aumentata percentuali di “creduloni da tastiera” pronti a credere ciecamente a quello che si scrive sui social. Non siamo ai livelli di “l’ha detto la televisione” di qualche tempo fa, ma poco ci manca. Con la possibilità, oltretutto, di replicare in tempo reale: e questa è la vera rivoluzione culturale dell’informazione del Terzo Millennio. Se Nunzio Filogamo, Niccolò Carosio e Enrico Mentana (e, nel suo piccolo, Cristiano Tassinari) pontificavano in televisione o alla radio, nessuno poteva controbattere, se non spegnendo il televisore. Adesso, invece, è il trionfo dei “leoni da tastiera”, dei cosiddetti “haters”, coloro che odiano tutti e tutti, ma anche dei “professori di Facebook”, che sanno sempre tutto e sono insopportabili come il primo della classe che non passa il compito da copiare, bastardo lui…

Un altro grande difetto dei social network, forse sottovalutato, è quello di ingigantire tutto. Prendiamo, anche in questo caso, alcuni esempi: non tanto il caso-Battisti, decisamente “pompato” con dirette televisive fuori luogo del suo arrivo in Italia, quando altre piccole storie, quisquiglie di cronaca che senza i social non avrebbero mai raggiunto gli onori delle prime pagine: le dichiarazioni “pro migranti” di Baglioni, direttore artistico del Festival Sanremo o, notizia di ieri, la presenza di un corazziere nero al Quirinale proprio nel giorno dell’arrivo di Salvini, quasi fosse uno sgarbo del Presidente della Repubblica, Mattarella, al ministro dell’interno.
Sono notizie degne di particolare attenzione, quasi morbosa? Direi proprio di no. Anzi: la storia del corazziere potrebbe essere anche interessante da raccontare (e qualcuno l’ha fatto: 29 anni, brasiliano, adottato insieme alla sorella da una famiglia siciliana), ma senza l’ideologia “stranieri o italiani?” di questi cinici tempi.
Quindi: senza i social, queste due micro-notizie non sarebbero arrivate sui siti, sui telegiornali, sui giornali. Notizie e polemiche stucchevoli ingigantite dai social. Ma, del resto, quando migliaia di persone si prendono la briga di commentare, immediatamente la notizia vola alta, vive di vita propria e di un elevatissimo numero di click. O no?
In definitiva: beati quelli che non frequentano Facebook o Twitter, e si accontentano di radio, tv e quotidiani, perchè cosi rimangono piacevolmente all’oscuro di notizie inutili e polemiche fastidiose.
E, per una volta, essere “ignoranti” diventa una nota di merito.