Libertà di stampa, rapporto 2018: peggiora la situazione in Europa

di Antonio Storto, Euronews

L’ultimo in ordine di tempo è stato Jan Kuciak, giornalista slovacco ucciso a colpi di pistola lo scorso ottobre. Qualche mese prima, a Malta, un’autobomba si era portata via a Daphne Caruana Galizia, reporter investigativa specializzata in corruzione. Che la libertà di di stampa in Europa non se la passasse bene era già chiaro, ma secondo l’organozzazione Reporters sans frontières, che ha appena pubblicato il suo rapporto annuale, per i giornalisti il Vecchio Continente rischia di trasformarsi in una grande zona di crisi.

“Questo continente – spiega il segretario generale di Rsf, Chstophe Deloire – è ancora classificato come il migliore per la libertà di stampa ma sta peggiorando, con i leader politici che ostacolano il giornalismo, negandone talvolta la legittimità. È un gioco pericoloso per l’Europa e per le democrazie nel resto del mondo. “

Nella classifica annuale dell’organizzazione, molti paesi europei – interessati dal boom dei movimenti populisti – perdono posizione: è ad esempio il caso della Repubblica Ceca – precipitata dal 23esimo al 34esimo posto – dove a Ottobre, il presidente Milos Zeman si è presentato in conferenza stampa con un Kalashnikov su cui era impressa la scritta: “per i giornalisti”.

Non va meglio negli Stati Uniti – che in realtà rispetto al 2016 perdono appena due posizioni – dove la libertà d’informazione sarebbe messa sotto stress dalla retorica spicciola del presidente Trump.

“La situazione in realtà – continua Deloire – sta peggiorando al di là del fenomeno Trump: se si scava in profondità, negli Stati Uniti, almeno in alcuni stati, è possibile osservare condizioni più difficili per i giornalisti: arresti durante le proteste, maggior difficoltà nell’accesso alle fonti, una legge sulla libertà di informazione sempre meno rispettata”.

A guadagnare sei posizioni, rispetto all’anno scorso, è invece l’Italia, fino al 2016 in caduta libera. Ma anche nel Belpaese, 46esimo in classifica, il rapporto conta almeno 10 giornalisti sotto protezione per via di minacce da parte di organizzazioni criminali e gruppuscoli anarchici.

Olimpiadi 2026 a Milano/Torino? Piu’ no che si

Il 29 marzo scorso il Coni (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) ha presentato al Cio (Comitato Internazionale Olimpico) la “manifestazione d’interesse” delle città di Milano e Torino per una candidatura comune per l’organizzazione dei Giochi Olimpici Invernali del 2026. Non una vera e propria candidatura ufficiale, dunque, ma almeno un’alzata di mano per dire “mi interessa”, resa necessaria dalla scadenza prevista dal Cio per il 31 marzo. Poi, bisognerà darsi da fare sul serio, anche perchè la decisione ufficiale sulla città che ospiterà le Olimpiadi da qui a otto anni verrà presa nel settembre 2019, che – organizzativamente parlando – è un periodo di tempo molto breve. Le avversarie ci sono, e pure competitive: Calgary (Canada), che già ospito’ le Olimpiadi nel 1988, l’anno dell’esplosione di Alberto Tomba, Graz (Austria), Sion (Svizzera), Stoccolma (Svezia), Erzurum (Turchia) e, soprattutto, Sapporo (Giappone), città che ha ospitato i Giochi nel 1972, quando Gustav Thoeni conquisto’ l’oro nello slalom gigante. Inoltre, dettaglio da non trascurare visto che ogni paese puo’ presentare solo una candidatura, anche Cortina d’Ampezzo – 70 anni dopo i cinque cerchi del 1956 – ha presentato la propria “manifestazione d’interesse” per l’evento olimpico.

Milano/Torino o Torino/Milano?
Di Milano e Torino, in realtà, si era già parlato. Ma mai insieme. C’è quello slash (/) nella candidatura che non piace tanto, nè a Torino nè a Milano, nè ai sindaci Chiara Appendino e Beppe Sala, nè agli stessi residenti delle zone interessate (in particolare gli albergatori e gli operatori turistici della Val di Susa, che dalle Olimpiadi del 2006 hanno ottenuto – dicono loro – solo le briciole). E poi: Milano/Torino in ordine alfabetico o Torino/Milano in ordine di strutture già esistenti?
Un bel dilemma. Ed è un peccato. Perchè, insieme, la candidatura delle due città sarebbe forte e convincente, forse la piu’ forte e convincente di tutte, a patto che il Comitato Internazionale voglia assegnare nuovamente un evento cosi globale come le Olimpiadi alla stessa città che le ha organizzate appena 12 anni fa (gli anni saranno 20 nel 2026). Riteniamo che sia improbabile. Ma poichè in una decisione così importante e delicata – non solo per le medaglie in palio, ma soprattutto per gli interessi economici e di investimenti in infrastrutture che muovono le Olimpiadi – il pronostico sfugge ad ogni logica, tutto puo’ accadere. Sebbene una logica, nella candidatura milanese e torinese, ci sia eccome. A cominciare dal livello metropolitano delle due città e dalle infrastrutture già in buona parte esistente. Nel progetto del Coni, ci sono alcuni aspetti molto interessanti: l’idea di portare lo sci di fondo al Castello Sforzesco, di conservare le prove di slittino, bob e skeleton a Cesana Torinese, il salto con il trampolino a Pragelato, il curling a Pinerolo (un vero fenomeno, ora lo praticano anche nelle scuole) e il pattinaggio su ghiaccio al Palavela di Torino (come nel 2006), aggiungendovi la chicca dello sci alpino a Bormio e a Santa Caterina Valfurva (la patria di Deborah Compagnoni), in Valtellina, su piste degne della Coppa del Mondo. L’alleanza Milano/Torino (e Lombardia/Piemonte) consentirebbe, in effetti, una candidatura forte.


C’è chi dice no
Ma nella politica c’è chi dice no, a cominciare proprio dal sindaco di Torino, Chiara Appendino, che giusto il 18 aprile ha dichiarato: “Torino non ha mai pensato ad una candidatura con Milano. E con Milano non ci sono stati contatti”. Ma se è davvero cosi, a quale genio del Coni (il presidente Malago’?) è saltato in mente di presentare una bozza di candidatura comune targata Mi-To (sigla, peraltro, già usata per un evento musicale)? Da Milano, nessun commento particolare. Attendono sviluppi concreti, secondo lo stile milanese. Ma qualche mese addietro, lo stesso sindaco Beppe Sala era stato molto tiepido: “Troppa confusione, Milano non si candida”, disse. “Ma se il Coni ritenesse che Milano è una buona candidatura, allora guarderemo alla cosa con interesse”. Tiepido, quasi gelido. Allora, probabilmente, è tutta farina del sacco del Coni e di Malago’.
In realtà esisterebbe uno studio di fattibilità economica e sportiva dell’evento (nel 2006 il costo complessivo delle Olimpiadi di Torino fu di 2 miliardi e 600 milioni di euro, compresa l’autostrada Torino-Pinerolo e 11 fermate di una metropolitana nuova di zecca), preparato non si sa bene da chi (dal Coni, immaginiamo) ad inizio 2018 e che dovrà essere presentato al nuovo governo italiano, per la promozione o la bocciatura definitiva. Politicamente parlando, dobbiamo citare – tanto lo sanno tutti – l’atteggiamento ambiguo del Movimento Cinque Stelle, ora particolarmente interessato alla candidatura di Milano/Torino, ma dopo aver boicottato e bocciato miseramente la candidatura di Roma per le Olimpiadi estive 2020 Comunque la pensiate, o le Olimpiadi sono da considerarsi interessanti per tutti o un potenziale disastroso “magna magna” per tutti. Ma per tutti, davvero. Che siano Milano, Torino, Roma o Cortina d’Ampezzo.
 
Non è tutto oro…
Non è tutto oro quello che luccica, in realtà, nemmeno per gli impianti già esistenti, eredità di una edizione olimpica 2006 ben organizzata, questo si (riconosciuto anche dagli stranieri, almeno per i 15 giorni di gare) ma che ha lasciato strascichi e scheletri su impianti in seguito ben poco utilizzati, come spesso capita in questi casi (basta chiedere dei “sepolcri” di Atene 2004). Io stesso, nel 2010, realizzati un documentario in quattro puntate sull’eredità olimpica, 4 anni dopo (si possono vedere su YouTube digitando “inchiesta Olimpiadi Torino 2006“). E già allora, qualcosa “puzzava di marcio”. Figuriamoci adesso…
Per intenderci: la pista di bob di Cesana, cosi cara al mitico Armin Zoeggeler, è stata parzialmente smantellata. Costava troppo (un milione di euro all’anno solo di ammoniaca!, necessaria per mantenere la pista ghiacciata), veniva utilizzata poco e il tentativo di farne un noleggio-bob è, ovviamente, finito male. I trampolini di Pragelato non esistono piu’, stroncati dall’inutilizzo, dopo aver abbattuto centomila alberi della valle per costruirli. Il villaggio olimpico di Torino, beh, è addirittura occupato dai rifugiati e le 25 colorate palazzine low-cost costruite in cartongesso per gli atleti, già cadono a pezzi.
Milano, forse, puo’ fornire parte dell’Area Expo di Rho come villaggio olimpico (ma è davvero fattibile?) e lo stadio San Siro per la cerimonia inaugurale, ma i problemi da affrontare sembrano comunque troppi. Soprattutto se i primi a non volere questi Giochi sono proprio i sindaci. Intanto, se ne parla. Questo si. Anche con convegni pubblici a cui è ben lieto di partecipare Valentino Castellani, il sindaco di Torino che conquisto’ le Olimpiadi (poi, a godersele, fu Sergio Chiamparino). Ma anche i cittadini e gli operatori turistici sembrano scettici.
Forse è meglio conservare il ricordo bellissimo di quelle “notti magiche”, belle e irripetibili. A volte, puo’ bastare il ricordo di essere stati felici. 
Chiara Appendino e Beppe Sala, sindaci di Torino e Milano

La guerra “dimostrativa”

di Vittorio Zucconi
(Repubblica)

No, non è l’inizio della Terza Guerra Mondiale. L’attacco di Cruise e altri missili e bombe teleguidate sulla Siria e sulla capitale Damasco è finito ed emerge quello che si era capito da giorni, da quando impulsivamente Donald Trump aveva preannuciato un attacco “entro 24 o 48 ore”:  i militari americani e russi aveva avuto cura di ‘deconflict’, di evitare le condizioni di un confitto diretto.

Nei piani abbozzati da Trump alle 21 di Washington e confermati da Londra e Parigi l’intenzione è quella di eventualmente ripetere questi attacchi a distanza avendo estrema cura nell’ evitare scontri diretti con aerei o truppe russe che ormai infestano la Siria e hanno il vero controillo della forze armate siriane.

L’attacco è dunque, per tragico che sia dirlo in questi momenti, sostanzialmente dimostrativo, un’operazione di ‘deterrenza’ come ha detto Theresa May contro il futuro impiego di armi chimiche da parte del dittatore – il ‘mostro’ lo chiama Trum – Bashar Assad, ammesso che sia state effettivamente usate.

È il genere di operazioni militari a distanza già tentato in passato senza nessun altro risultato che rafforzare la presenza dei forza russe e iraniane a sostegno di Assad.

Ma nella vaghezza degli obiettici strategici, nella totale mancanza di risultati concreti da poter sfruttare per risolvere l’osceno gomitolo di sangue siriano, la campagna aerea voluta da un presidente americano che aveva bisogno di un tremendo diversivo per uscire dalla gabbia dell’inchiesta che si sta stringendo attorno a lui, sta il tremendo rischio di questa operazione.

Il rischio è l’incidente, l’imprevisto,  il missile stupido che colpisce un reparto russo, una base iraniana, un base aerea con velivoli russi o, al contrario, il missile antiaereo russo che abbatte un caccia bombardiere americano o inglese o colpendo una nave al largo.

I pianificatori di questa campagna hanno cercato di minimizzare i rischi utilizzando quelle che nel gergo si chiamano armi ‘stand-off’, sparate da navi, sottomarini, aerei fuori dalle acque o dai cieli siriani e facendo le solite, desolanti promesse di ‘evitare danni collaterali’, civili uccisi. Ma solo due risultati possono uscire da queste avventure: il nulla, lasciando Assad nel guscio protettivo dei russi che gli Usa non osano attaccare. O l’incidente, la scintilla involontaria che scatena l’incendio.

La Storia ha un lungo elenco di guerre cominciate “per caso”. E l’operazione, annuncia il Pentagono, potrebbe riprendere. Dunque il rischi di imprevisti cresce.

Vinitaly, quando il made in Italy si fa i complimenti da solo

Sono reduce da tre giorni – piuttosto sobri, anche se non astemi – di Vinitaly, la grande fiera internazionale del vino italiano, che da 52 anni di svolge alla Fiera di Verona. Un appuntamento a cui bisogna assolutamente partecipare, come dicono le migliaia di produttori di tutt’Italia presenti negli enormi stand di ciascuna regione italiana.
A parte grosse pecche nell’organizzazione (il traffico impazzito è davvero così impossibile da prevedere e da dirottare in percorsi alternativi? Perchè nel 2018 bisogna ancora stampare gli accrediti a carta, quando basterebbe qualche lettore ottico funzionante in piu’?) che sembrano proprio non risolvibili, il Vinitaly è ancora e sempre un evento capace di calamitare un numero imprecisato ma spropositato (le cifre ufficiali non ci sono ancora) di “wine lovers” e un buon numero di addetti ai lavori e buyer (compratori), soprattutto dall’estero e dai mercati emergenti (la Cina è l’Eldorado, la Scandinavia una frontiera in costante crescita).
Quindi, lunga vita al Vinitaly. 
Per chi non è giornalista o espositore, il prezzo del biglietto è mostruoso: è salito quest’anno a 80 euro (l’anno scorso erano 60).
Ma come? Avete presente spendere tutti gli 80 euro di renziana memoria in una affollatissima domenica di aprile, non all’aperto nei vigneti, ma dentro ai capannoni di una Fiera?
Ebbene sì. Anche perchè con 80 euro e il vostro pass, potete poi bere tutto quello che volete, è vero, mischiando in un colpo solo una Barbera del Piemonte ad un Vermentino di Gallura, un Lambrusco di Parma a un Montepulciano d’Abruzzo e chissà cos’altro, perdendo un po’ la testa e un po’ la bussola. E pure la strada di casa. E’ vero che, se chiedete ad un bagarino fuori dalla Fiera (piu’ numerosi che al San Paolo di Napoli!), magari si riesce ad entrare con 50-60 euri. Comunque tanti: ma l’intento degli organizzatori è proprio questo, vale a dire ridurre gli “wine lovers” (e qualcuno alza un po’ il gomito) e aumentare gli “wine business men“, quelli che – novelli Re Mida – trasformano il vino in oro colato e colante. E ce ne sono, per fortuna.
A sentire i produttori, le cantine sociali e i consorzi dei produttori, il made in Italy del vino va fortissimo: e meno male che abbiamo l’enogastronomia, nel nostro Belpaese! Pero’, quando sento una donna manager italiana – Erika Ribaldi, della Marchesi de’ Frescobaldi – che da tredici anni lavora sul mercato asiatico, dire giustamente: “Perchè mai i cinesi dovrebbero comprare il nostro vino e capire la differenza tra un Barolo e un Chianti, quando noi non compreremmo mai del loro vino e non conosciamo la differenza tra i loro vini”, capisco che c’è ancora molto da fare. Anche per uscire dal nostro provincialismo del made in Italy che si fa i complimenti da solo.
Poi, per fortuna, il brand-Italia tira sempre fortissimo ed è sacrosanto puntare sui mercati stranieri, con aziende che esportano ormai il 70 e passa per cento dei loro milioni di bottiglie prodotte, riservando le briciole e le gocce al mercato italiano, sempre piu’ in difficoltà. Poi magari trovi l’eccellente Moscato d’Asti a Shanghai, ma non in un ristorante del centro di Asti….
Paradossi del mondo (e del vino) globalizzato. 
E se è vero che la qualità premia sempre, il vino italiano – di qualità (e controllo di sicurezza) lo è sicuramente – sa di essere tra i migliori al mondo, ma senza la presunzione di essere il migliore. Perchè la concorrenza cresce e il buon vino ormai lo trovi anche in Cile, in Nuova Zelanda, un po’ ovunque.
Perchè ci sarà pure un motivo se Peppino di Capri canta “Champagne” e non “Spumante” e se per festeggiare la vincita all’Enalotto da 130 milioni di euro, il fortunato vincitore stapperà una bottiglia di champagne e non di spumante….
Un motivo ci sarà. Il vino bisogna anche saperlo vendere.
E lo spumante – meglio se dolce – io lo trovo molto piu’ buono. Lo champagne, al massimo, per un risottino al vino bianco.
I gusti personali sono una cosa, ma il mercato globale è tutta un’altra cosa.

Intervista al Vinitaly 2018 per Canale Italia.

Grande Fratello: ma era proprio necessario?

di Luca Colantoni (lucacolantoni.wordpress.com)

Signore, signori e popolo di instancabili voyeur di tutta Italia e dintorni, in carrozza. Onestamente, a poco tempo dalle polemiche e dalle schifezze mediatiche varie ed eventuali andate in scena nell’edizione Vip non ne sentivamo la mancanza, ma purtroppo riaprono le porte di un nuovo Grande Fratello. La casa che tutti odiano e dove tutti però vorrebbero stare, la casa dove guardare anche mentre uno si fa la doccia è lecito, la casa dove alloggiano e bivaccano vecchie glorie semi-dimenticate della tv ed emeriti sconosciuti che credono di essere arrivati e la casa dove, da anni, nascono nuovi “talenti” (ad esclusione di qualche sporadico caso di talento vero) di ogni tipo, nuovi attori, nuovi giornalisti, nuovi conduttori, nuovi cantanti. Tutti senza un minimo di gavetta alle spalle e tutti, rigorosamente, in nome dell’apparire sempre e dovunque, dell’ascolto a tutti i costi e, ovviamente, alla faccia di chi ha studiato e gettato lacrime sudore e sangue per intraprendere una delle carriere sopra citate.

Questa che sta per iniziare si autodefinisce “Edizione NIP”. Se esiste quella Vip dove l’acronimo sta per “Very Important Person”, viene da se che questa è considerata una “No Important Person”. Ma a dire il vero, in pochi ne capiranno la differenza visto che, fortunatamente, i Vip veri, quelli che non hanno bisogno della visibilità, disertano certi teatrini.

Tornando alla famosa casa e ai suoi inquilini. Cosa cercano, cosa vogliono? Presto detto anche questo: una ribalta improvvisa, le attenzioni mediatiche di qualcuno, il lauto compenso che hanno pattuito agenti e manager. Altri, i più giovani, magari alla ricerca del “posto fisso” in una tv nazionale? Nel corso degli anni di programmazione, la dimostrazione è stata palese: ma quale gavette varie, meglio il GF e un probabile futuro tra lustrini e paillettes o, nella peggiore delle ipotesi, inviati e inviate per qualche programma di approfondimento o opinionisti (opinionisti???) in qualche talk show. Tutte cose, queste, molto, ma molto più interessanti piuttosto che una sedia, una scrivania e uno stipendio, poco, ma fisso. Tutto con buona pace dei migliaia di disoccupati in tutta Italia che lottano per arrivare a fine mese.

Che cosa stucchevole, bisogna avere il coraggio di dirlo: ormai il Grande Fratello (“Vip” o non Vip) ha fatto il suo tempo, idem per l’Isola dei Famosi (che altro non è che un Grande Fratello Vip sopra un’isola) dopo le centinaia di polemiche scaturite, tra canne, bestemmie, litigi poco edificanti, sesso come niente fosse in prima serata, tette e culi al vento, non mancava proprio a nessuno e forse non era proprio il caso di riproporlo e la cosa che più lascia l’amaro in bocca è che tutti lo criticano (in fondo ne stiamo parlando anche in questo post), ma tutti lo vedranno, dando ragione a chi lo produce, conduce e lo fa.

E’ pure vero che ormai i provini per partecipare al Grande Fratello somigliano molto di più a un ufficio di collocamento e molti disoccupati si presentano con la speranza di essere presi in considerazione. Qualche tempo fa gli autori, che la sanno lunga, scomodarono addirittura il termine di “Primarie”, preso in prestito dalla politica, ma è ovvio che non può funzionare così in un Paese che si ritiene civile e all’avanguardia nonostante la crisi di questi anni. Ovvio che anche televisivamente non può andare avanti così a lungo e sperare nel “Dio Sponsor”. Ci sarà bisogno, prima o poi di qualità. e pensate che in Italia ci sono fior di autori giovani che inventano format e programmi tutti i giorni (autori che senza le giuste conoscenze restano a casa ovviamente), fate fare a loro, nuovi programmi, idee nuove e innovative piuttosto che accendere la tv e rivedere, di nuovo, sempre le stesse cose nonostante le premesse e le interviste di rito di presentazione del programma.

Sarà l’ennesimo festival della nazionalopolarità fatto di bellocci in bella vista, bruttini presi in giro, sfoghi e piantarelli nel confessionale, trombatine fugaci sotto improbabili “capanne” fatte con le coperte, gente che non azzecca un congiuntivo, ma prontissima a mettersi in mostra modello “gallo nel pollaio”, muscoli con o senza cervello, scene isteriche, egocentrici incalliti, finti simpatici, oche giulive che sganciano urletti da quindicenni, gli immancabili piacioni ai quali le donne non possono dire di no e le varie code durante i daytime della trasmissione di Barbara D’Urso (anche qui, servirebbe però un post a parte vista l’onnipresenza della signora in questione che probabilmente condurrà il daytime di se stessa).

Ah, dimenticavo. Una volta usciti dalla Casa questi emeriti sconosciuti pretenderano un bel gettone di presenza per ogni ingresso in qualsiasi locale d’Italia e soprattutto la patente di “VIP”. E questa patente è stata sesso affibiata ad emeriti sconosciuti che fanno fatica ad essere riconosciuti anche dal barista sotto casa loro e quasti hanno anche un agente che li rappresenta. Ma ormai le abbiamo viste tutte, compresa la nascita dell’ esperta di tendenze o del’influencer. Mestieri che non esistono, ma tanto basta per far parlare l’opinione pubblica. Far parlare bene o male del programma, purché se ne parli e si arrivi al “calcio d’inizio” con una audience fatta sia di aficionados (purtroppo) che di detrattori che lo vedranno per criticarlo. Che fatica. In questo modo non se ne esce da questa spazzatura televisiva.

Certo però, che la riflessione finale è amara, anzi, amarissima: se solo una quindicina (poco più) di anni fa tutti i precari d’Italia avessero saputo che non serviva per niente studiare, laurearsi, cercare un lavoro per aumentare il proprio curriculum professionale a suon di esperienze, lacrime e sudore, ma bastava soltanto andare in tv a ballare in mutande dentro una casa davanti a mezza Italia, tutti noi ci saremmo (chi più e chi meno) adeguati…

Questa incredibile meta’ settimana di Coppa…

Siamo tutti reduci da un incredibile metà settimana di Coppa. Non solo il mercoledi della Juve, ma anche il martedi della Roma.
Non mi vergogno a dire che – per queste partite – sono tornato all’antico: niente tv, solo radio, soltanto radiocronaca, niente telecronaca. Sia all’andata che al ritorno. E non mi vergogno neppure ad ammettere che, dopo i risultati della gara d’andata, avevo già dato per spacciate sia la Roma che la Juve.
E invece…e invece la meraviglia della Coppa con le partite di andata e ritorno resta intatta (altro che la fase a gironi…).
E cosi la Roma ha realizzato una clamorosa “Romontada” (neologismo bellissimo, coniato dal sito Tuttosport e copiato dalla prima pagina de L’Equipe) ai danni del Barcellona, facendo piccolo piccolo il povero Leo Messi.
E cosi la Juve stava per realizzare una impresa ancora piu grande (vincere 3-0 al Santiago Bernabeu a un minuto dalla fine é già una grande impresa), ma un rigore dubbio e fatale – c’era o non c’era? – ha vanificato il sogno della semifinale, ma non ha cancellato la meravigliosa prestazione del condottiero Buffon e dei suoi compagni, che sono usciti a testa alta dal campo ed entrati direttamente nell’almanacco della storia del calcio.

Il resto è mancia: i rigori si ricevono e si subiscono (tra Italia e Europa, per la Vecchia Signora, le cose cambiano e pure parecchio…), ma é inutile gridare al complotto: a parti invertite cosa avremmo fatto? Avremmo sfruttato il rigore e ci saremmo qualificati, con il sorriso sulle labbra per lo scampato pericolo, come ha fatto Zidane ieri sera. Percio’…
Percio’ godiamoci – comunque sia andata – questa incredibile metà settimana di Coppa. Augurandocene tanti altri ancora.
Per quanto mi riguarda, con il suono della radio, fedele compagna di pomeriggi e notti di pallone. 

Gli juventini assediano l’arbitro inglese Michael Oliver dopo l’assegnazione del rigore al Real Madrid. 

I cross al bacio di Raymond Colin Wilkins

di Giuseppe Rasolo

Il segno dei tempi che passa quando un idolo della tua gioventù, quello per cui tifavi ai tempi dell’università milanese e che ti portava a San Siro a godere delle sue giocate come Razor Wilkins trapassa, è inevitabile. E allora andiamo di coccodrillo. Le frontiere erano riaperte da poco tempo , dopo il poco brillante esordio di Joe Jordan e la meteora Luther Blisset, ecco la coppia inglese che precedette il Milan degli olandesi Raymond Colin Wilkins e Mark Hateley, un doppio indovinato in grado di aumentare l’autostima dei tifosi del Milan. La capocciata di Hateley fu il preludio a un periodo di successo, l’avvento di Berlusconi la consacrazione, il suo stile pacato pulito in grado di aprire le difese avversarie. Era un Milan da Coppa Uefa ancora non in grado di scalfire lo strapotere del Napoli di Maradona e della Juve di Platini, ma ci fece fare quel salto di categoria quanto mai indispensabile e malta per i successivi traguardi raggiunti dopo. Un quinto posto e una finale di Coppa persa contro la Sampdoria di Souness l’epilogo di quella stagione, ma i cross di Raymond Colin erano una spettacolo, allora ci divertivamo con poco.

 

Quel Milan: Rossi, Hateley, Virdis, Wilkins.

Il “celebrismo”, innanzitutto. Poi, la vita vera.

La morte improvvisa di Fabrizio Frizzi, ad appena 60 anni, ha mandato in tilt milioni di italiani. Anzi, per meglio dire: milioni di telespettatori italiani.
Lungi da me l’idea di criticare il popolare conduttore, uno dei personaggi più amabili e meno “divi” del mondo della tv, definito da tutti “una bravissima persona”. Non lo metto in dubbio, anche se non ho avuto il piacere di conoscerlo. Mi ha colpito, tuttavia, il sentimento popolare di affetto nei confronti di un personaggio famoso, che entrava sì tutti giorni nel nostro tinello di casa e nelle nostre famiglie, ma che – per l’appunto – non faceva parte della nostra famiglia, nè della nostra vera vita. A meno che la tv non sia la nostra vera vita.
Sui social network ho letto commenti commoventi, come ad esempio: “Sto piangendo da giorni interi, come se tu facessi prte della nostra famiglia“.
Ecco, il punto. Si piange disperatamente per Fabrizio Frizzi – mai conosciuto di persona, se non dall’altra parte del tubo catodico – e magari non si va mai a trovare i genitori nella casa di riposo e la nonna al cimitero.
Quando, su Facebook, mi sono azzardato a fare questo parallelo, sono stato subissato di critiche. Guai a toccare Frizzi. Ma io non ce l’ho con lui, pace all’anima sua. Ce l’ho con questo “celebrismo” imperante che permette qualunque cosa ai personaggi famosi, soprattutto da vivi. Solo perchè sono famosi. E che, da morti, li rende “bravissime persone” ed immortali. Poi, nel caso di Frizzi, sono pure parole spese bene. Tanto meglio. Anche se non c’era bisogno di arrivare alla “beatificazione” come si è fatto. Credo che sarebbe stato lo stesso Frizzi a riderci sopra, su questo, con la sua inconfondibile risata.
Sono convinto che, per fortuna, nemmeno di fronte al “celebrismo” tutti siamo uguali. Facciamo un esempio? In caso di morte – speriamo il più lontano possibile – di Flavio Insinna, Paolo Bonolis o Teo Mammuccari – insigni colleghi di Frizzi – l’ondata emotiva non sarà la stessa. Scommettiamo che…? E questo dimostra che Fabrizio, qualcosa di suo, di simpatico e di umano, ce lo ha messo. Eccome.
Per ricordare un “pianto nazionale” di questo calibro bisogna tornare alla morte di Marco Simoncelli, nel 2011, sul circuito di Sepang, in Malesia. Tutti si ricordano dove si trovavano – quella domenica di ottobre – quando ricevettero la terribile notizia. La morte di Simoncelli fu, se cosÌ si può dire, più eroica: su una pista, in sella ad una moto, con i capelli al vento sotto il casco, da giovane, nel fiore degli anni.
E quando accadrà ancora, il “pianto nazionale”? Forse per un’icona altrettanto nazional-popolare come Gianni Morandi, anche in questo caso, il più tardi possibile.
In fin dei conti, abbiamo tutti bisogno di eroi.
Il “celebrismo”, innanzitutto. Perchè della gente famosa vogliano sapere tutto: vita, morte e miracoli. E nel pacchetto, come leggete, c’è anche la morte.
E pazienza se non andiamo mai a trovare la nonna al cimitero: magari non era nemmeno la nonna più simpatica del mondo. Forse, al suo posto, avremmo voluto avere un altro familiare, l’avremmo sostituita volentieri, la nonna. Magari con uno zio, uno zio bonario, proprio come Fabrizio Frizzi.
Bonario e, naturalmente, famoso.

Continuano gli spettacoli dei Teatroci…

Dopo il successo al Teatro Cardinal Massaia, al Piccolo Teatro Comico e al Salone-Teatro Casa Montalbano, il teatro dei Teatroci torna in scena per far ridere il pubblico DOMENICA 8 APRILE alle ore 18, al TEATRO SANT’ANNA di Torino. Uno spettacolo organizzato in collaborazione con la Confartigianato.
Ecco la locandina firmata dal nostro attore-designer Marco Tancredi.