In pochi giorni il mondo del Dio italiano del Pallone – sempre più allo sfascio, paradigma di un Paese altrettanto catastrofico in molto aspetti della vita quotidiana – ci ha regalato il meglio e il peggio del proprio repertorio. Anzi, in ordine cronologico: il peggio e il meglio di sé. Partiamo dal derby di Torino, storicamente vinto sul campo dal Toro dopo vent’anni d’attesa, ma macchiata in maniera irreversibile da incidenti che, per la sfida della Mole, stanno diventando una pessima abitudine. Calci, pugni e sassi all’autobus dei giocatori della Juve da una parte (granata), addirittura una bomba carta fatta esplodere dentro lo stadio dai tifosi bianconeri e lanciata verso il settore dei tifosi avversari. Possiamo dirlo? Poteva pure scapparci il morto. E allora, in quel tragico caso, sarebbe stato patetico e dolorosa, il gioco dello scaricabarile tra le società e le tifoserie e la scarsa professionalità delle forze dell’ordine, che per 48 ore non sono riuscite a capire chi fosse il responsabile della bomba carta. Per fortuna non è successo il peggio: e proprio per questo, dopo i primi giorni di bufera, di titoloni sui giornali, di parole al vento e di promesse ministeriali di “ulteriore giro di vite” (ulteriore?), si rischia di tornare all’abitudinaria consuetudine degli incidenti dei nostri stadi, che sia l’assalto dei tifosi (?) ai giocatori del Cagliari, che sia le macabre messinscena degli ultras del Varese sul loro stesso terreno gioco. Da Vincenzo Paparelli (tifoso della Lazio morto allo stadio il 28 ottobre 1979, colpito da un razzo lanciato dalla curva della Roma) in poi, poco è cambiato negli stadi. E le vittime sono state tante, troppe. Ora ci sono più steward e meno poliziotti, ma la violenza cova ancora, sempre, sotto la cenere. Come fare ad estirparla? Il presidente del Coni Malagò si riempie la bocca della Thatcher, degli hoolingas inglesi e delle severe pene inflitte allora ai supporter d’Oltremanica. Forse potrebbe pure funzionare: certo la galera sarebbe un deterrente più convincente di un patetico Daspo (che peraltro qualcuno invoca anche per il picchiatore argentino dell’Atalanta Denis, autore di un cazzotto post-partita ad un avversario già negli spogliatoi). Succede di tutto in questo calcio e, sinceramente, non viene proprio voglia di portare amici, mogli, fidanzate e figli allo stadio. Certo che no. Meglio la pay-tv, sul divano, al calduccio, senza balordi attorno. Poi però…
Poi però accade di andare a vedere una partita “storica” per la promozione del piccolo grande Carpi (70.000 abitanti, in una zona laboriosa dell’Emilia, messa in ginocchio dal terremoto, ma subito in grado di risollevarsi senza troppi piagnistei), una squadretta di provincia che non piace a Lotito e ai grandi soloni del calcio italiano, ma che per la prima volta nella sua storia sbarca in serie A. E pazienza se non fa cassetta, se non fa audience, se non ha pubblico, se non ha nemmeno lo stadio a norma: nonostante tutto è arrivata prima in classifica e merita la serie A. L’altra sera, sotto una pioggia battente, ho visto amici e amiche, fidanzati e fidanzate, mogli, mariti e tanti bambini, tutti insieme allo stadio, pronti a festeggiare per una lunga notte, tutti insieme senza nessuna paura, solo per il gusto del calcio, solo per stare insieme, divertirsi, senza pericoli, senza preoccupazioni. Che sia questo il calcio del futuro? Piccole città, piccoli stadi, il calcio pane e salame del Carpi, del Sassuolo e del Chievo? Probabilmente è un’utopia, ma visto che il Dio italiano del Pallone ogni tanto si ricorda di santificare ancora il gioco più bello del mondo, allora non è tutto perduto. A parte che il Carpi e i suoi tifosi rimangano cosi come sono e non cerchino di scimmiottare i “mastini” delle curve. Se così sarà, la speranza di “salvare” il calcio – il nostro oppio della domenica (ma anche di tutti gli altri giorni, ormai) – sarà finalmente concreta. E se migliorano gli stadi, crediamo che possa migliorare anche la nostra società.
P.s. In bocca al lupo al Carpi per la prossima serie A!
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Le mie news.
LA PICCOLA GRANDE BARZELLETTA DEI MUSEI GRATIS
Dal 1° luglio 2014, la legge-Franceschini, ministro dei Beni Culturali, ha introdotto finalmente una bella novità: la prima domenica di ogni mese tutti i musei e palazzi storici italiani saranno aperti gratuitamente al pubblico! Una grande notizia, che porta l’Italia allo stesso livello di altri paesi europei, come ad esempio la Francia, che da anni adotta questo sistema di promozione turistica. Ebbene: a distanza di diversi mesi, con un colpevole ritardo, ho potuto verificare sul “campo” il non completo successo di questa iniziativa. Un classico esempio di poca chiarezza all’italiana. E’ successo la prima domenica di aprile, quando alcuni amici e parenti sono venuti a trovarmi a Torino: quale migliore occasione per visitare alcuni dei musei e palazzi storici più noti? E allora cominciamo con la Reggia di Venaria, splendida residenza sabauda riaperta nel 2007 dopo quarant’anni di abbandono, degrado e oblio. Ebbene: l’ingresso alla Reggia di Venaria è tutt’altro che gratis. Il costo della visita completa (Reggia+giardini+mostra) costa addirittura 25 euro (ma solo un euro per i ragazzi fino ai 16 anni). 25 euro per la Reggia di Venaria? Un po’ tanti se pensiamo che il Louvre di Parigi – un tantino più famoso – costa appena 10 euro e che British Museum e National Gallery di Londra hanno ingresso sempre gratuito, con offerta libera consigliata di due sterline. Ma, al di là del costo, perchè la Reggia di Venaria non è gratis la prima domenica del mese? Giriamo la domanda ai solerti inservienti (talmente solerti che, alle 18, già non vedevano l’ora di chiudere baracca e burattini): “La Reggia di Venaria non è gratis perchè non è un museo o edificio statale, ma regionale”. Capito? E noi che pensavamo che un museo regionale fosse pubblico come quello statale: e invece no! Che fregatura…
Poco male: ci spostiamo di pochi km e da Venaria ci trasferiamo a Stupinigi, nella bellissima Palazzina di Caccia, anche questa spettacolare vestigia dei Savoia dei loro tempi migliori e più rigogliosi. Ma anche qui niente da fare: pure la Palazzina di Stupinigi è regionale e non statale e quindi, anche in questo caso, niente prima domenica del mese gratis nemmeno in questo caso! Si vede che va così: i musei italiani saranno anche aperti alla domenica, ma con le dovute eccezioni. E allora scrivete: “Aperti solo i musei statali”. Insomma: una piccola grande barzelletta, quella di tutti i musei aperti. Anche se, in questo caso, la responsabilità è delle istituzioni locali, lentissime nel recepire le direttive del ministero. E così, quella domenica, con gli amici e parenti, abbiamo dovuto ripiegare sul Museo Egizio, appena rinnovato: qui si che l’ingresso è gratuito. Ma con due ore di coda! Ergo: abbiamo lasciato perdere. E quando ho accennato a lamentarmi, qualcuno ha osato zittirmi dicendomi: “Si informi meglio, guardi il sito internet!”. Detto, fatto: almeno per la prossima volta. Il sito di riferimento è www.beniculturali.it: e così ho scoperto che la prossima prima domenica del mese potrò andare gratuitamente agli Scavi di Pompei, al Colosseo, al Castello Sforzesco di Milano, agli Uffizi di Firenze, alla Pinacoteca di Brera e in decine e decine di altri musei, grandi e piccoli, in tutta Italia. Ma, tra gli altri, non si potrà entrare gratuitamente all’Arena di Verona, alla Torre di Pisa, al Palazzo Ducale di Genova (in Liguria i siti statali visitabili gratis sono solo 5: possibile che gli altri siano tutti regionali?), al Palazzo dei Diamanti di Ferrara e nemmeno al Museo Archeologico di Reggio Calabria, dove sono custoditi i famosi Bronzi di Riace: la loro riapertura è prevista solo dal 1° maggio, dopo sei mesi di lavori per il nuovo allestimento e ancora non si sa se alla domenica il museo, peraltro periferico e poco visitato, sarà aperto al pubblico. Insomma: una bella iniziativa, rovinata dalla solita pessima organizzazione all’italiana. Però, volendo, per migliorarla basta poco. Così come le tessere-sconto: meglio gli sconti per gli over 65 o, come in altri paesi, per gli under 25? Questione di scelte. Forse l’Italia non è un paese per giovani.
LA NOSTRA NUOVA COMPAGNA DI VITA: LA PAURA
Tra la tragedia di Charlie Hebdo, l’attentato di Tunisi e l’aereo della Germanwings fatto precipitare contro la montagna da un pilota depresso, il 2015 è già da annoverare fra i peggiori anni della nostra vita. E siamo solo a fine marzo! Alla faccia dei brindisi di “Buon Anno” di appena tre mesi fa. Ricordate?
E tutti questi sono avvenimenti “globali”, che riguardano indirettamente tutti, in ogni angolo di mondo. Poi, a peggiorare un anno già funesto, ci si mettono anche le piccole grandi tragedie personali. Nel mio caso, la scomparsa della mia mamma e il terribile suicidio di un giovane collega che consideravo un amico.
Già non vedo l’ora che questo maledetto 2015 si tolga dai piedi.
Sembrava impossibile fare peggio del 2014, invece…al peggio non c’è mai fine.
E, come se non bastasse, i problemi di lavoro, che ormai attanagliano tutti. Con la paura dell’incertezza. Con l’incertezza della paura.
Già:la Paura.
Ormai è diventata fedele compagna della nostra vita: abbiamo paura del futuro, abbiamo paura di non arrivare alla fine del mese, abbiamo paura di avere una brutta malattia, abbiamo paura delle bande di rumeni e albanesi (e italiani) che assalgono le nostre case, abbiamo paura dei terremoti e delle alluvioni, abbiamo paura delle facce da arabi, avremo paura di andare al museo, avremo paura di salire su un aereo, avremo paura di andare persino in spiaggia sul Mar Rosso, la nostra vita non sarà più senza paura.
E’ l’effetto del “terrorismo del Terzo Millennio” (anzi: mi sono stupito che nessuno abbia rivendicato, anche falsamente, la tragedia dell’aereo tedesco), è l’effetto di una crisi che sembra non finire mai, e’ l’effetto di una microcriminalità dilagante, è l’effetto della mancanza di fiducia verso le istituzioni, verso la scuola, persino verso la famiglia.
Come ne usciamo dal tunnel della paura?
Affrontandole, le nostre paure.
Evitando le situazioni e – soprattutto – le persone negative.
Più facile a dirsi che a farsi, certo.
Io stesso sto cercando di togliermi le piccole grandi paure che ho, nella vita di tutti i giorni. Bisogna farlo, altrimenti rimango impantanato nelle sabbie mobili di una vita sottotono, di una vita che non ci appartiene. E anche stavolta scomodiamo Paolo Borsellino: “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.
Una bella frase ad effetto, anche stavolta più facile a scriversi che a farsi.
Ma anche una sacrosanta verità.
Vi fa paura?
O ci proviamo a non aver paura?
CIAO, MAMMA!
C‘era uno splendido sole per l’ultimo saluto alla mamma…che bella l’omelia di don Gabriele…….
La famiglia Tassinari -oltre a me, mio papa’ Guido, mia sorella Susanna, mia moglie Antonietta e mio cognato Stefano- ringrazia tutti i parenti, amici e conoscenti che hanno potuto partecipare al funerale di Maria Teresa Ghisellini e tutti coloro che in questi giorni, con tutte le modalita’ possibili di comunicazione, ci hanno testimoniato le loro condoglianze e la loro vicinanza. Grazie ancora. La mamma ne sarebbe orgogliosa!
VITA DURA PER I GIORNALISTI. E UN PO’ CE LA MERITIAMO…
Dalla tragedia di Parigi del settimanale satirico “Charlie Hebdo” in poi, la vita dei giornalisti (ma anche dei vignettisti) è diventata sempre più dura. Rimestare di nuovo nella melma di quello che è successo in Francia sarebbe un esercizio complicato e superfluo: non è certo la prima volta che i giornalisti fanno una brutta fine per quello che hanno scritto (o disegnato). Penso, i momenti storici diversi, a Mino Pecorelli e Walter Tobagi in Italia, penso ai tanti giornalisti messicani sterminati nel loro paese, penso ad Anna Politkovskaja, fiera oppositrice del regime-Putin, penso ad Ilaria Alpi in Somalia, Enzo Baldoni in Iraq e Andrea Rocchelli in Ucraina, a tutti i reporter di guerra che muoiono ogni anno per raccontare le vicende umane dai fronti più caldi del mondo. Per una vignetta (per tante vignette, già tanto discusse e discutibiii), però, non era mai accaduto. Qualcuno, qui in Italia, ha voluto ricordare che, al massimo, per una vignetta non gradita, l’allora premier Massimo D’Alema querelò il mitico Forattini. Quisquilie d’altri tempi. Certo il nostro mestiere di giornalista è sempre stato pericoloso: se non ai kalashnikov, esposto quanto meno proprio alle querele per diffamazione. Ne presi una anch’io, vent’anni fa, da parte di un bravo ragazzo di buona famiglia, che però si autodefiniva naziskin, partecipava ai camp estivi in Afghanistan, marciava con i neofascisti e a casa aveva persino un busto del Duce. Chissà dov’è finito adesso…spero non sia diventato un “foreign fighters”. Dicono che per un giornalista, una querela sia come per l’arbitro un cazzotto: una sorta di necessaria iniziazione. Sarà: ma io mi sono preso 8 mesi di reclusione (con la condizionale, “se avessi picchiato tua madre avresti preso di meno”, mi disse il mio mediocrissimo avvocato) e 11.000 euro di danni morali (sentenza avvenuta nel 2009, 15 anni dopo il “fattaccio”). Fatti miei, direte voi. E’ vero. Ma il mondo del giornalismo ha perso prestigio, e un po’ ce lo meritiamo: e non è un caso se si è passati dalle grandi imprese dei giornalisti americani nel caso-Watergate, che portarono alle dimissioni dell’allora presidente americano Richard Nixon alle grandi imprese televisive di Barbara D’Urso, che non sarà simpatica, ma il suo mestiere lo sa fare (e gli altri rosicano e la denunciano all’Ordine perchè fa la giornalista senza avere l’inutile patentino…). Segno dei tempi che cambiano (e del giornalismo che cambia). Fatto da bravi cronisti locali, di provincia, e da giovani rampanti che si definiscono giornalisti solo perchè hanno fondato un blog o si sono inventati “opinion leader” sui social network. E poi, purtroppo, ci sono quelli che cercano sempre il pelo nell’uovo e scavano nel torbido: avete presente il caso delle due ragazze Greta e Vanesse rapite e poi rilasciate in Siria? Ecco, appunto. Vorrei che qualcuno, leggendomi qui o sentendomi parlare in tv, dicesse: “il nostro giornalista Cristiano Tassinari è diverso”. Sarebbe un grande motivo di orgoglio.
STAVOLTA CLINT EASTWOOD ESAGERA CON L’EROE AMERICANO…
In poco più di 24 ore avrei potuto fare una scorpacciata di film di Clint Eastwood, attore e regista ormai di culto. Per la prima volta, l’altra sera in tv, ho visto il suo “Million Dollar Baby”, con la splendida, intensa interpretazione di Hilary Swank nel ruolo di una cameriera trentenne che, stufa di una vita sottotono, cerca di affermarsi con la boxe. E, con gli insegnamenti del suo maestro, per un po’ ce la fa: fama e ricchezza. Poi succede il patatrac, fino al tragico epilogo finale. Senz’altro un eroe (anzi: un’eroina di tutti i giorni, per i perdenti della vita di tutti i giorni) che diventa il cardine di quello che viene definito forse il miglior film di Clint Eastwood da “anziano” (la pellicola è del 2004).
Su un altro canale, sempre l’altra sera, davano addirittura “Una 44 Magnum per l’Ispettore Callaghan”, un classico degli anni ’70 con un ancor giovane Clint Eastwood, poliziotto dai metodi ruvidi ma efficaci, con i capelli scuri e il ciuffo sbarazzino, alla prese con tutti i malaffari delle grandi città americane e della stessa polizia. Un altro eroe “anti-eroe”, di quelli che piacciono al vecchio Clint e agli spettatori di tutto il mondo, che un po’ si riconoscono nel riscatto sociale di chi, ogni tanto, ce la fa. Uno su mille, o giù di lì.
Il giorno dopo, in preda alla Eastwood-mania, sono andato al cinema a vedere il suo ultimo film da regista: “American Sniper”, interpretato da Bradley Cooper e Sienna Miller. Preceduto da milionari incassi a stelle e strisce e critiche divise in Italia, devo dire che non mi entusiasmava molto l’argomento: i film di guerra mi hanno un po’ stufato, dai “Cannoni di Navarone” in poi. Però è di Clint Eastwood, mi sono detto, diamine: e invece ho preso un solenne granchio. Un film di guerra che è l’apoteosi dell’uomo che diventa il cecchino più temuto di tutto l’Iraq, da Falluja fino a Mosul. Secondo me, un’americanata: nel peggior senso della parola. Ma è evidente che, proprio negli States, dove è forte il senso patriottico, il film ha avuto grande successo. A me non è piaciuto per niente: basta con “buoni contro cattivi”. Per essere un eroe, non serve imbracciare il fucile e ammazzare tutta quella gente. Nè nella realtà, nè tantomeno al cinema. Stavolta Clint Eastwood ha toppato. Lo aspettiamo al prossimo film. Farà sicuramente di meglio. Soprattutto se tornerà a raccontarci storie di quotidiano eroismo.
LE INUTILI POLEMICHE SULLE FIGLIE DEGLI ALTRI
Adesso che le acque sembrano essersi un po’ calmate, mi va di dire la mia sulla vicenda di Greta e Vanessa, le due ragazze di 20 anni che per 6 mesi sono state prigioniere in Siria e che dopo Natale erano apparse nei nostri teleschermi festivi tutte vestite di nero, implorando il nostro paese di liberarle. Sono contento che siano tornate a casa. Come lo sarò, quando torneranno a casa dall’India i due marò. La storia delle due ragazze è, però, più “pacifica”: con la spensieratezza -e l’ingenuità- dei loro vent’anni sono partite alla volta dell’Iraq e della Siria nella convinzione di poter “salvare il mondo”. Si sono sbagliate. E di grosso. Lo hanno capito, chiedendo scusa a tutti, in particolare a mamma e papà. E laggiù non ci torneranno più. Potranno fare del bene anche vicino a casa loro. Non hanno salvato il mondo, ma l’importante è che si siano salvate almeno loro. Nei giorni successivi alla loro liberazione, invece di tirare un immenso sospiro di sollievo insieme alle loro famiglie, ci siamo impegnati tutti -soprattutto certi giornali davvero di basso livello, seguiti a ruota da un becero tam tam dei social network- nel gioco al massacro più inutile degli ultimi tempi: sparare addosso alle due ragazze, inventare balle incredibili e improbabili (addirittura sesso consenziente con i rapitori, invocando persino la sindrome di Stoccolma o addirittura pensare che Greta e Vanessa fossero già al soldo del Califfo dell’Isis. E qualcuno ha pure visto che le due ragazze erano ben nutrite, come se fossero state in vacanza in Medioriente..). Che tristezza tutta italiana. E poi, la domanda più assurda di tutte le domande: l’Italia doveva davvero pagare questi presunti 12 milioni di dollari (50 centesimi per ogni italiano!) ai terroristi islamici per il rilascio delle due ragazze? Facile fare polemica con i figli degli altri. Io credo che, a questa domanda, ci sia solo una risposta: SI. Provate ad immaginare, anche solo per un attimo, che Greta e Vanessa fossero state le vostre figlie. Cosa avreste voluto? Che lo Stato le liberasse a qualunque costo? Ecco, appunto.
E ADESSO COME FAREMO A VIVERE TRANQUILLI?
L’attacco terroristico compiuto ai danni del settimanale satirico francese “Charlie Hebdo”, a Parigi, è stato definito “l’11 settembre europeo”. in realtà, negli anni scorsi, c’erano già stati attentati gravi, nel 2004 ad una stazione ferroviaria di Madrid e nel 2005 alla metropolitana di Londra, ma questo di Parigi -forse per la brutalità dei kalashnikov- ci appare come più devastante, più terribile, persino più grave. Qui, in gioco, non c’è soltanto la libertà di stampa e di espressione, ma la nostra stessa libertà. Da Al Qaeda all’Isis, da Bin Laden al Califfo, le nostre prospettive sono decisamente peggiorate. Se i terroristi islamici cominciano ad adottare il sistema dei “comuni terroristi” (le Brigate Rosse di casa nostra, per esempio), allora per noi il rischio-paura sarà perenne, giorno dopo giorno, ad ogni angolo di strada, di ogni città e di ogni paese. E, prima di addormentarci, ci domanderemo: e adesso come faremo ad essere tranquilli, almeno a casa nostra? Come invocata da più parti, serve una risposta con il pugno di ferro, senza arrivare alla guerra totale voluta da Bush dopo l’attacco alle Torri Gemelli, che è sicuramente la causa dell’attuale diffusione a macchio di leopardo del terrore islamico nel mondo, da Sydney a Parigi: magari non gruppi organizzati, forse anche soltanto una “cellula dormiente” oppure i cosìdetti “foreign fighters”, cittadini europei che vanno a combattere sotto la bandiera nera dell’Isis e poi tornano in Europa, carichi di armi, di esperienza e di rabbia contro la società occidentale. Sembra davvero di essere tornati ai tempi delle Crociate, ma alla rovescia: non sono più i cristiani a voler convertire gli “infedeli”, ma è esattamente il contrario: sono gli arabi a dare la caccia agli “infedeli”, a casa loro o a casa nostra non importa. E noi, nelle nostre comode vite rese solo più scomode dalla crisi economica, abbiamo indietreggiato troppo, passo dopo passo, crocefisso tolto dopo crocefisso tolto. Noi che, ora, ci limitiamo a guardare in cagnesco quelli che parlano in arabo, ma non abbiamo nemmeno il coraggio di dire loro qualcosa, se per caso fanno casino nel parchetto sotto casa. Perchè abbiamo paura, perchè quelli lì sono pericolosi, perchè quelli lì – diciamo noi – ci mettono un niente a tirare fuori il coltello e ad ammazzarti. E’ possibile un dialogo con l’Islam moderato presente in Europa? Non so, non vedo tutto questo Islam moderato. Ma sarebbe sbagliato dare la colpa solo ed esclusivamente alla religione musulmana: in un tremendo passato sappiamo bene cosa combinò la Chiesa Cattolica e ancor oggi, in tempi recenti, dalla ex Jugoslavia all’Israele fino al Medioriente, abbiamo visto tutti quello che il fanatismo religioso provoca, a tutte le latitudini, sotto diversi nomi, un vero oppio per i popoli. Senza voler assolutamente giustificare una carneficina come quella avvenuta a Parigi, forse i vignettisti di “Charlie Hebdo” avevano un po’ troppo calcato la mano: sapendo di avere a che fare con persone (e con religioni) poco ragionevoli, avrebbero dovuto abbassare un po’ il tiro. Alcune delle loro copertine suonavano veramente macabre, qualcuna è stata una cupa profezia. Lo sappiamo che la matita (e la lingua) può uccidere più di una pistola, ma stavolta non è stato cosi. Non so cosa sarebbe successo, da noi, se un giornale arabo avesse fatto vignette simili contro Dio, Gesù e la Madonna. Siamo sicuri che nessuno avrebbe pensato di farsi giustizia da sè? Purtroppo non ne sarei così sicuro. Purtroppo siamo rimasti ai tempi delle Crociate. L’evoluzione dell’uomo, in fondo, è stata ben poca cosa.
TRAGEDIE IN TV, LA CURIOSITA’ MORBOSA DEGLI ITALIANI
Tutto ebbe inizio con la tragedia di Alfredino Rampi, a Vermicino, vicino Roma, quel maledetto mercoledì 10 giugno 1981, quando il bambino di 6 anni precipitò in un pozzo artesiano nelle campagna attorno alla casa estiva della sua famiglia. Per 60 lunghe, lunghissime ore, milioni di italiani (21 milioni, secondo l’Auditel dell’epoca) rimasero incollati davanti alla diretta fiume del TG1 – e, successivamente anche del TG2 e del TG3 – per seguire il disperato tentativo di salvataggio del piccolo Alfredino, fallito per colpa del destino avverso, ma anche di tanta confusione e disorganizzazione nei soccorsi. Dalle ceneri di quella tragedia, che forse poteva essere evitata, nacque la vera e propria Protezione Civile Italiana. “Fu il primo vero e terrificante reality della storia delle televisione”, raccontò, molti anni dopo, il giornalista Piero Badaloni (in seguito corrispondente Rai dalla Germania e presidente della Regione Lazio), inviato dal direttore del TG1, Emilio Fede, a seguire da vicino tutta quella tristissima vicenda, culminata nella visita a Vermicino dell’allora amatissimo Presidente della Repubblica Italia, Sandro Pertini. “Volevamo raccontare una storia di vita e, invece, si trasformò in una storia di morte”, disse Giancarlo Santalmassi, a quei tempi direttore del TG2.
L’incidente di Vermicino fu seguito con trepidazione, perché il piccolo Alfredino poteva essere il figlio di tutti noi, e una disgrazia del genere poteva davvero capitare a tutti, appena fuori dall’uscio di casa. Fu quindi, se possiamo dirlo, un partecipazione totale e una curiosità “positiva”.
Qualche anno prima, nel 1978, un’altra terribile notizia poteva diventare un caso televisivo: Il sequestro, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Ma gli scarsi mezzi tecnici dell’epoca e – soprattutto – la brutalità del fatto (non una disgrazia capitata ad un bambino, ma un vero attacco terroristico ad un uomo dello Stato) relegarono quell’evento nei libri di storia della nostra Repubblica, ma non fecero altrettanto breccia nei cuori dei telespettatori. Anche se io stesso, bambino di 9 anni, ricordo tutte le edizioni speciali dei telegiornali sul caso-Moro. Quindi, qualcosa di mediatico, accadde anche in quei 55 giorni tra il 16 marzo (strage di via Fani) e il 9 maggio (ritrovamento del cadavere in via Caetani, sempre a Roma).
Qualcosa di simile, con una grande ondata di indignazione popolare, avverrà nel 1992, con gli attentati della Mafia ai giudici Falcone e Borsellino.
Della terribile strage della stazione di Bologna (85 morti) del 1980, restano solo poche immagini in bianco e nero di soccorsi disperati e la commemorazione ogni 2 agosto.
Negli anni seguenti, con l’arrivo di nuove tecnologie e il raddoppiarsi delle emittenti televisive (vi ricordate i racconti, minuto per minuto, nei telegiornali Fininvest diretti da Emilio Fede, dei due piloti Cocciolone e Bellini, abbattuti durante la Prima Guerra del Golfo? E le dirette infinite con Paolo Brosio davanti al Palazzo di Giustizia di Milano durante Tangentopoli?), la curiosità degli italiani è aumentata a dismisura, passando da curiosità “positiva” a curiosità “morbosa”.
Il caso più clamoroso rimane quello della “mamma di Cogne”, Anna Maria Franzoni, accusata (ma lei ha sempre negato!) di aver ucciso – era il 30 gennaio 2002 – il figlio Samuele, di appena tre anni. Proprio il fatto che la presunta assassina abbia sempre respinto l’accusa, scatenò un infernale finimondo mediatico: dai plastici di Bruno Vespa, a “Porta a Porta”, con la ricostruzione della villetta di Cogne, alle sue interviste al Maurizio Costanzo Show, fino alla presenza, sempre più familiare per milioni di famiglie televisive italiane, dei Ris di Parma con la loro tuta bianca anti-contaminazione e di illustri esperti, tra cui brillavano i cosiddetti criminologi, di cui ancora non ci siamo liberati tutt’oggi. Io stesso, per lavoro, ho assistito ad alcune udienze in Corte d’Appello a Torino, compresa la lettura della condanna per la Franzoni a 16 anni di galera, era il 2007, e vi assicuro che fuori dal Tribunale stazionava una fila di curiosi senza fine, pronti a tutto, anche ad ore e ore di coda al freddo, pur di accaparrarsi i primi 30-40 posti che, ogni giorno, valevano la visione “in diretta” delle udienze, proprio all’interno dell’aula, a pochi banchi di distanza dall’imputata, la Franzoni, trattata alla stregua di una star (proprio perché diventata famosa grazie alla tv).
Grande risonanza mediatica, ha avuto anche l’assassinio di Sarah Scazzi, 15 anni, avvenuto nell’agosto del 2010, ad Avetrana, in provincia di Taranto: protagonista assoluto il presunto “zio belva”, Michele Misseri, in realtà finora l’unico non in carcere, che si autoaccusò più volte per proteggere le due esecutrici materiali del delitto: la cugina Sabrina e la zia Cosima, attualmente in carcere, condannate all’ergastolo. Terribile. Anche per le nostre coscienze e per quella di chi si è inventato il “turismo del macabro”, organizzando gite fuori porta per vedere i luoghi degli ultimi episodi di cronaca nera. Per poter dire “io c’ero!”.
Succede anche a Garlasco (Pavia), dove ancora non hanno capito chi ha ucciso, il 13 agosto 2007, la povera Chiara Poggi? E’ stato il fidanzato, Alberto Stasi? Ma non è già stato assolto due volte? E allora perché adesso è stato condannato a 16 anni di reclusione? Almeno fino al processo d’appello.
E la morte della piccola Yara Gambirasio, appena 13 anni, in provincia di Bergamo? Anche qui un presunto colpevole c’è, il muratore Massimo Giuseppe Bossetti, in carcere da sei mesi. Ma anche lui si processa innocente.
E il caso di Perugia, con l’assassinio – nella notte di Halloween 2007 – della studentessa inglese Meredith Kercher? Sono davvero innocenti Amanda Knox e Raffaele Sollecito? Il colpevole è solo l’ivoriano Rudy Guede, già condannato? E a Perugia sono aumentati i turisti, anche per questo motivo…
Ma non vogliamo fare i moralisti a tutti i costi: forse un selfie davanti alla carcassa della Costa Concordia, quando era ribaltata davanti all’Isola del Giglio, l’avrei fatta anch’io, per poi postarla sui social network. Ma il vero responsabile è un altro, un certo capitano, ora sotto processo a Grosseto….
Negli ultimi mesi, la curiosità morbosa degli italiani è stata riaccesa da alcuni sconvolgenti fatti di cronaca, a cominciare dalla sparizione, e dal ritrovamento del cadavere, di Elena Ceste, la mamma e moglie di 38 anni, 4 figli, e una vita apparentemente tranquilla. Tutti a scandagliare il passato e il presente della donna e del suo rapporto con il marito, finora l’unico indagato per la morte della moglie. E tutti a dire: “Tanto è stato il marito”, una condanna mediatica (ancora prima che giudiziaria: ancora tutto da provare!) che, peraltro, negli ultimi anni ha trovato tragica conferma in tanti, troppi femminicidi.
Tutti a parlare di Elena Ceste e delle sua (probabile) doppia vita (ne parla ancora, ogni pomeriggio, in uno snervante stillicidio di macabri dettagli, la presentatrice Barbara D’Urso, odiosa per tanti e odiata da tutti, sanzionata dall’Ordine dei Giornalisti – forse perché non ne fa parte – ma una che il suo mestiere lo sa fare, e l’audience è lì a confermarlo), ma all’improvviso, alla ribalta della cronaca nera, sale un delitto ancora più efferato, ancora più sconvolgente: l’uccisione del piccolo Andrea Loris, 8 anni, a Santa Croce Camerina (Ragusa). E subito tutti a giocare all’investigatore: chi sarà stato? Sicuramente il cacciatore che ha trovato il corpo del bimbo, dicono e scrivono in tanti. Sbatti il mostro in prima pagina, in prima serata e sul web. Poi, giorno dopo giorno, fotogramma di telecamera dopo fotogramma di telecamera, si scopre che la maggiore indiziata è la mamma. La mamma: possibile? E ne parlano tutti, davanti alla tv, a casa, al bar, mentre si fa la spesa. La curiosità “morbosa” dilaga.
Ma è colpa della tv che ce l’ha fatta venire o siamo noi stessi che ce l’abbiamo dentro, e la tv non fa altro cha darci quello che veramente vogliamo? Difficile dare una risposta. Forse, la verità sta nel mezzo. Nel mezzo della nostra coscienza (potremmo anche non guardarle, certe trasmissioni) e nel mezzo della coscienza dei produttori tv (potrebbero anche fare a meno di infierire così crudelmente sulle famiglie delle vittime, già così duramente colpite). Ma, temiamo, sia una battaglia già persa in partenza.
The show must go on.