Prima di esprimermi sui fatti tragici di due settimane fa, venerdi 13 novembre – tanto lo hanno fatto tutti gli altri, in tv, sui giornali, sul web, persino nei bar dello sport – ho preferito attendere e riflettere. Ripensando anche alla mia esperienza di vita in Francia, paese che conosco, che apprezzo e che è stato così violentemente colpito dagli attentati terroristici di Parigi. Conosco abbastanza bene la capitale, ma la mia città di riferimento è Lione. La più “italiana”, la più vicina all’Italia, al Piemonte, a Torino. A Lione ho vissuto due anni, per lavoro. Una città poco conosciuta, ma bellissima. Con tanti cittadini francesi di chiara origine araba e musulmana, con netta prevalenza dei maghrebini delle ex colonie (algerini, tunisini e marocchini), ma con tante altre etnie sparse per i sei angoli dell’Esagono. Per un anno almeno, ho vissuto nell’ottavo arrondissement, in periferia, quella che loro (e anche noi che facciamo i fighi poliglotta) chiamiamo banlieu. Vicino a Venissieux, città dormitorio della prima cintura lionese, da cui – tanto per intenderci – provenivano due degli attentatori dell’11 settembre. Un humus fatto cosi, una mescolanza non sempre riuscitissima – anzi, a volte esplosiva – di differenti culture. Per un anno ho vissuto li, in Rue Philippe Fabia. In casa con la mia fidanzata dell’epoca, Malika Takssemt (chissà che fine ha fatto!), in un quartiere a netta maggioranza nordafricana. E, vi assicuro, non ho mai avuto un problema. Nemmeno se nella pizzeria vicino casa, quella con il salame hallal migliore della città, ad un certo punto mi sono reso conto di essere l’unico “uomo bianco” in mezzo a cinquanta arabi (fidanzata compresa). Nessun problema. Nemmeno una sera che ho lasciato la mia macchina con targa italiana inopinatamente aperta. E il giorno dopo, dentro, c’era tutto, al suo posto, come prima. Mica un mondo di ladri. E in Italia? Chissà cosa sarebbe successo. Da allora sono passati dieci anni. Forse i rapporti tra le varie culture si sono incancreniti, forse le tensioni covate sotto la cenere sono esplose in maniera inaspettatamente (?) fragorosa, forse sono io che – nonostante tutto – sono troppo buonista, una parola che mi fa orrore, se paragonata ad altro orrore. Ma, per la mia esperienza in Francia, mi sento di dire: gli arabi, i musulmani, sono tutti cosi…non sono tutti terroristi. Mi basta questa considerazione per farmi sentire più sicuro e più sereno? No, non mi basta. Ma, secondo me, è una dato di fatto.
Mese: Novembre 2015
RISPETTOSO SILENZIO PER DIESEL…
di Riccarda Balla
www.free-italia.net
Si, lo so ci sono gli umani, gli umani innocenti che muoiono per colpa di bastardi che vengono armati da mani che si fingono anche amiche.. Ma in queste terribili storie ci sono altre vittime innocenti e non è la prima e non sarà ultima.
Nel quartiere di St. Denis oggi, durante un’irruzione per scovare terroristi, nel rispetto del suo lavoro, con la dignità che solo un cane poliziotto o soldato può avere, viene ucciso dai bastardi..la sua vita salva la vita dei suoi compagni umani…questi cani hanno un driver….credo che per il suo driver sarà un dolore immenso…ma credo anche che gli umani sanno che quel cane di nome Diesel ha salvato loro la vita…quel cane io credo che sapeva perfettamente quello a cui andava incontro…l’ha fatto…onore e lacrime per quel cane..Eroe…e lezione di vita per gli uomini….
Diesel sei volato sull’arcobaleno…per colpa della bastardaggine degli uomini…troverai li altri cani eroi e tanti cani, inclusi i miei … Un bacio sul naso umido..
GRAZIE A TUTTI!
Grazie ai 150 spettatori che sabato 14 novembre sono venuti a vederci a Cento (Ferrara) per lo spettacolo di beneficenza che abbiamo fatto alla “Pandurera”, grazie al quale abbiamo raccolto 1500 euro per il restauro del Teatro Borgatti di Cento, danneggiato e reso inagibile dal terremoto in Emilia del 20-29 maggio 2012. Grazie ancora a tutti.
ARRIVIAMO A CENTO!
SABATO 14 NOVEMBRE I TEATROCI SBARCANO A CENTO, CON LO SPETTACOLO “CANI, GATTI, PARENTI E AFFINI”, IN BENEFICENZA PER IL RESTAURO DEL TEATRO BORGATTI DI CENTO, DANNEGGIATO DAL TERREMOTO DEL 2012. LO SPETTACOLO SI TERRA’ AL CENTRO POLIFUNZIONALE PANDURERA, CON INIZIO ALLE ORE 21. NOI CI SAREMO…E VOI????
LA LEGGE DEL MERCATO? E’ “DISUMANA”. MA SI PUO’ DIRE NO.
Quando mi capita di vedere un bel film, non perdo l’occasione per riflettere sul significato che il regista ha voluto dare alla sua opera. E’ il caso di “La Legge del Mercato” (La Loi du Marchè), film francese di Stephane Brizè uscito in questi giorni con una grandiosa interpretazione di Vincent Lindon, vincitore della Palma d’Oro di Miglior Attore al Festival di Cannes. Un film molto attuale, sulla crisi, economica ed individuale: una pellicola amara, malinconica, triste, rassegnata. Solo nel finale, negli ultimi istanti, si concede un attimo di speranza, speranza di un futuro migliore. La trama del film arriva direttamente dalla vita di tutti i giorni: il protagonista è un ultracinquantenne licenziato dalla propria azienda in crisi e che, tra inutili corsi di formazione e curriculum spediti ovunque, cerca disperatamente un posto di lavoro. Alla fine, dopo mille tentativi e peripezie, lo trova: guardiano in un grande supermercato, con il walkie talkie in dotazione e 100 telecamere per sorvegliare i poveracci che provano a rubare un caricabatteria o un pezzo di carne. E con i “ladri” (giovani sbandati, anziani disperati, cassiere che nascondono i buoni spesa) il nostro anti-eroe in uniforme si comporta da uomo integerrimo, senza cuore, spietato, “mors tua vita mea”, tutto pur di conservarsi il posto di lavoro. E’ la legge del mercato, no? Fino a quando, una delle cassiere “infedeli” – scoperta dal direttore – si toglie la vita proprio all’interno del supermercato. E il protagonista, a questo punto, non ce la fa più. Si toglie la divisa, la butta nel cestino e lascia per sempre il supermercato. E quel lavoro. Che lui non vuole assolutamente più fare. E quel tipo di vita. E’ anche una questione di dignità. Alla fine del film, mi è venuto da chiedermi: cosa fareste se a 50 anni vi trovaste senza lavoro e senza prospettive? Pur di sbarcare il lunario, accettereste qualunque lavoro, anche quelli “disumani” dove è necessario denunciare i poveri cristi come voi? Domanda difficile, forse senza risposta. E forse, a pensarci bene, non è nemmeno necessario andare al cinema. Basta confrontarsi con la vita di tutti i giorni. Una amara realtà per tanti di noi.
ONORE A VALENTINO ROSSI!!!
Dopo come è finito – in maniera prevedibile – il mondiale di motociclismo (con gli spagnoli in carrozza, a fare uno il galoppino dell’altro), rendiamo onore a Valentino Rossi (che può piacere o non piacere, ma è un grande campione!) e vi presentiamo in anteprima come saranno i Gran Premi del prossimo anno: primo Jorge Lorenzo e secondo il campione del mondo dell’antisportività Marc Marquez!!! Ma Valentino ci sarà!
“ADDIO A VERA, GIORNALISTA GENEROSA E ANTICONFORMISTA”
di Stefano Tallia
Giornalista Rai Piemonte e segretario Associazione Stampa Subalpina
“L’ultimo scambio di mail è di ieri mattina: una riflessione condivisa su come avvicinare i più giovani al sindacato, un appuntamento per parlarne ancora a quattr’occhi e trovare le parole giuste.
Era così del resto da venticinque anni, da quando, giovane attivista del movimento studentesco, incontrai Vera sulle strade della protesta torinese: giornalista attenta, curiosa e interessata anche alle tante sciocchezze che dicono i ventenni quando sognano un mondo migliore. Il confronto e lo scambio con lei erano quotidiani, ancor più intensi nelle rare volte in cui ci capitava di avere opinioni divergenti. Ma non è questo ciò di cui vorrei scrivere. I ricordi di un’amicizia è giusto che restino racchiusi dentro al cuore.
Fatemi parlare invece di quello che da oggi ci mancherà e del tanto lavoro che dovremo fare per rendere meno pesante la mancanza di Vera nel mondo del giornalismo piemontese.
Se in molti siamo diventati giornalisti, lo dobbiamo infatti a lei, a quel suo entusiasmo nell’interpretare la professione, a quella sua voglia che ci ha spinti a non mollare anche nei momenti peggiori. A quell’idea etica e al tempo stesso libera e non dogmatica del giornalismo. A quel cercare risposte che non fossero mai scontate.
Vera Schiavazzi, come hanno scritto molti colleghi, è stata per lunghi anni una delle colonne portanti della redazione torinese di Repubblica e ha arricchito con la sua firma molte altre testate. Lo ha fatto con curiosità e scegliendo sempre le parole giuste, ma è stata anche molte altre cose. Dirigente del sindacato, donna impegnata nel politico e nel sociale, c’è un filo rosso che ha legato la sua attività: l’essere al fianco dei più deboli e dei più giovani. Non a caso lo spazio che ha forse amato di più nella sua ricca carriera professionale è stato quello del Master di Giornalismo di Torino. Una scuola che ha fortissimamente voluto e difeso in più di dieci anni di lavoro, spesso sfidando solitudini e silenzi. E’ in quelle stanze che la sua missione per il giornalismo ha raggiunto il punto più alto. Non era una maestra con la penna rossa, Vera. Spesso, il suo modo di farci comprendere un errore, era quello di porre una domanda, quella domanda che ti costringeva a fare il passaggio successivo. Lo ha fatto decine di volte con me, lo ha fatto di certo con i suoi allievi del master.
Discussioni che poi si chiedevano sempre con un sorriso, con una battuta.
Oggi nessuno di noi ce la fa a sorridere, ma dovremo andare avanti nelle tante cose giuste che Vera ci ha insegnato. Lo dobbiamo a lei, lo dobbiamo a noi, lo dobbiamo a una società e a un mondo che non dobbiamo smettere di sognare migliori. E che solo quel buon giornalismo, lontano dalle ideologie ma vicino alle persone che ci ha insegnato Vera, può aiutarci a raggiungere”.