di Cristiano Tassinari
Adesso che sono passati un po’ di giorni e le polemiche sembrano essersi ormai placate, possiamo commentare a mente fredda (che di solito è buona consigliera) quello che è successo con il referendum sulle trivellazioni in mare dello scorso 17 aprile: un fallimento, visto il previsto risultato (al voto nemmeno il 32% degli aventi diritti, quorum lontanissimo), un buon risultato se si considera che quasi 18 milioni di italiani sono andati alle urne, sfidando il “divieto” da parte del governo-Renzi. Al di là del fatto che si è trattato di un referendum legittimo su un tema scottante, ma di natura tecnica piuttosto marginale (non si votava per il si o il no alle trivellazioni, ma solo per la durata delle concessioni delle stesse trivellazioni), direi che si è trattata dell’ennesima sconfitta degli elettori. Si, l’ennesima sconfitta degli elettori. Cittadini italiani che, nonostante la disaffezione per la politica, non hanno ancora perso la fiducia nel diritto di voto e lo esercitano ogni qualvolta si rende necessario. Fiducia, purtroppo, frustrata anche stavolta, come quasi sempre capita nei quesiti referendari: non a caso, negli ultimi referendum, solo quello del 2011 sull’acqua pubblica o privata raggiunse e superò il quorum del 50%. grazie ad un eccellente lavoro di battage pubblicitario da parte delle associazioni che lo promossero, cosa che non si è verificata stavolta, anche per gli ostacoli posti dal governo e dai grandi mezzi di informazione. Insomma: un’altra occasione persa per dare veramente voce ai cittadini.
Quello che succederà sul piano delle conseguenze di questo fallito referendum, credo che sarà impercettibile, con grande felicità di chi – come Renzi – reputa sia una grande vittoria per le aziende e per gli operai che lavorano nell’indotto delle trivellazioni di petrolio e con grande dispiacere di chi crede che, viceversa, la vittoria dei SI sarebbe stato un bel segnale per ridare dignità e sicurezza al nostro territorio e al nostro mare. In Emilia-Romagna, ad esempio, non è ancora stato escluso del tutto il collegamento tra il terremoto del maggio 2012 e le misteriose trivellazioni di gas nella Bassa Modenese. Eppure, nemmeno nella civile Emilia è stato raggiunto il quorum, raggiunto solo in Basilicata, il nostro piccolo Texas, regione guarda caso salita recentemente alla ribalta per la vicenda del petrolio lucano, con tutti gli annessi e i connessi. E quindi, viviamo (e votiamo) anche sull’onda emotiva di quello che ci accade attorno in questi giorni. Giorni in cui ricordiamo i 30 anni dal terribile disastro di Chernobyl, di cui ancora in tanti (migliaia di morti e feriti) pagano le conseguenze. Era il 26 aprile 1986, ed esattamente un anno e mezzo dopo, nel novembre del 1987, andammo a votare per un altro referendum, quello sul nucleare. Con i risultati che conosciamo e che risentiamo pure nei discorsi da bar: “Noi in nucleare non ce l’abbiamo più, ma tanto ce l’hanno in Francia, che se poi succede qualcosa, la nube tossica arriva anche da noi…”. Già, perché invece le piccole grandi disgrazie non ce le abbiamo già da soli? Basta vedere quello che è successo a Genova, proprio il giorno dopo del referendum fallito: 50 tonnellate di petrolio finite nel torrente Polcevera. Immagini di uccelli candidi ricoperti di olio nero. Natura violentata e che un giorno si vendicherà. Ma quando lo farà, non dimentichiamoci che sarà un po’ colpa anche nostra, della nostra indifferenza, come se noi proprio non volessimo nemmeno provare a cambiare un pezzo di Mondo. E a volte, può bastare anche “solo” un voto. Una rassegnazione, onestamente, che non mi appartiene.