FANTOZZI? LA MASCHERA TRAGICA DELL’ITALIANO MEDIO

Se se ne va il ragionier Ugo Fantozzi – per sempre, senza ritorni cinematografici – allora vuol dire che se n’è andato anche un pezzetto di noi, della nostra vita, almeno delle nostre serate televisive piene di repliche estive, tra le quali – tra le più sopportabili – proprio quelle dei film di Paolo Villaggio. Lui, il popolare attore genovese, ci ha lasciati il 3 luglio scorso: avrebbe compiuto 85 anni a dicembre. Le sue maschere, tipiche dell’italiano medio, viceversa non ci lasceranno mai. Il ragionier Ugo Fantozzi, certo. Ma anche Giandomenico Fracchia, con il suo nemico-capoufficio Gianni Agus e con la terribile poltrona a sacco. E prima ancora il professor Krantz, tedesco di Germania, lui sì fuori dagli schemi italici, ma in realtà pur sempre l’immagine di come noi italiani vediamo (anche oggi?) il vicino “crucco”. Ma si fa per ridere, direbbe Villaggio. Che, dicono, da buon genovese non fosse granché simpatico e, peggio, poco disposto a fare l’imitazione del suo personaggio più famoso quando era “in libera uscita”, lontano dai set del cinema. Anni fa, un amico di stanza a Londra, se lo vide capitare davanti nel locale italiano dove lavorava, il famoso “Panino”: Paolo Villaggio era in Inghilterra per le riprese del film “Io no spik inglish”, una simpatica commedia nella quale lui recitava il ruolo del dirigente d’azienda alle prese con un corso d’inglese insieme a compagni di classe quindicenni. Il mio amico mi raccontò che Villaggio entrò in quel locale per mangiale un frugale panino e per vedersi la partita dell’Italia in tv, ai mondiali di calcio. Tutti a salutarlo, tutti ad omaggiarlo, tutti a chiedergli foto, autografi e imitazioni tipo “Com’è umano lei!” o “E’ una cagata pazzesca!”, ma lui si rivelò quanto mai poco disponibile e perfino antipatico, come se la sua popolarità – grazie ad un personaggio un po’…sfigato – gli stesse stretta, parecchio stretta. E adesso tutte le volte che il mio amico rivede Villaggio in tv, esclama: “Che antipatico che è!”.
Antipatie o simpatie personali a parte, Paolo Villaggio è stato uno degli attori più amati del cinema italiano, almeno da oltre quarant’anni a questa parte, quando (nel 1975) uscì il suo primo film, Fantozzi, diretto – peraltro – da un grande Luciano Salce. Fu un successo incredibile, sulla scorta del successo dei suoi libri dedicati all’umile ragioniere e alla sua sgangherata combriccola d’ufficio e grazie anche alla sua popolarità televisiva di quegli anni, di cui io stesso ho memoria in certi sabati sera da bambino. Ma Fantozzi fu un trionfo al di là di ogni previsione. Nei suoi dieci episodi (i primi tre sono fantastici, gli altri un po’ meno), Paolo Villaggio ha fatto ridere, ha inventato neologismi, ha lanciato personaggi imprescindibili (la signora Pina, Filini, la signorina Silvani, la figlia Mariangela), ha fatto amaramente riflettere e ci ha fatti specchiare: come se dentro di noi, in ognuno di noi, ci fosse nascosto un pezzo di Fantozzi, con nuvoletta “fantozziana” incorporata.
Modestamente, mi ritengo un cultore di Fantozzi e, in generale, di Paolo Villaggio. Ho letto i suoi libri (ora ripubblicati, con discutibile tempismo, in una trilogia da…antologia), lo guardo e lo riguardo sempre volentieri, anche in film che non sono esattamente dei capolavori: da “Rimini Rimini” a “Fracchia la Belva Umana”, dalle “Comiche” a “Scuola di Ladri”, fino a “Ho vinto la Lotteria di Capodanno”, al bel “Io Speriamo me la cavo” e nella sua intensa interpretazione ne “La Voce della Luna”, l’ultimo film di Fellini. Per un certo periodo ho pensato che se Paolo Villaggio fosse stato americano e si chiamasse Paul Village, forse sarebbe stato osannato in tutto il mondo come un genio della comicità, quasi un Woody Allen. Poi mi sono reso conto Villaggio è troppo italiano per doverlo condividere con altri. E a lui, francamente, penso fregasse poco della sua popolarità.
Ho sempre trovato un filo, bello grosso a dire il vero, di malinconia nella comicità di Paolo Villaggio, un senso di “tragicomico” – o semplicemente tragico – che ha attraversato, da quello che si legge della sua biografia, anche un parte della sua vita. Quella vera, non quella cinematografica. Come dire: forse ha fatto più ridere di quanto non abbia riso lui. Speriamo sia contento almeno di questo: di averci lasciato in dote la sua immortale capacità di farci sorridere. E, per una volta tanto, per un genovese come lui, lo ha fatto senza parsimonia.