CONCORSI E CATTEDRE ALL’UNIVERSITA’: UNO SCANDALO ALL’ITALIANA

Lo scandalo delle università italiane, che ha colpito a fine settembre numerosi atenei, è tale solo per chi non conosce la vita universitaria italiana: non è necessario essere stati professori o assistenti per capire come funzionano le cose in gran parte della università pubbliche italiane: basta essere stati – come nel mio caso – studenti per un certo numero di anni, sufficienti per capire come funzionano le cose. Carriere in discesa, concorsi già assegnati in partenza, baroni accademici inamovibili dal loro scranno, almeno fino a quando il figlio, il nipote o l’allievo preferito (pazienza se incapace) non è pronto per prenderne degnamente il posto. “Così fan tutti”, verrebbe da dire. E, in effetti, a giudicare dalle proporzioni dello scandalo, pare proprio che fosse così. Perché scandalo lo è sicuramente, anche se non è certo un fulmine a ciel sereno. E’ diventato scandalo perché quello che tutti sapevano e si tramandavano in bisbiglii e sotterfugi, stavolta è finito sotto i riflettori della giustizia.
Tutto è partito dalla prestigiosa Università di Firenze. Un nemmeno troppo giovane ricercatore universitario italo-inglese nato a Londra, Philip Laroma Jezzi, a 45 anni stufo di fare perennemente il precario, ha svelato gli arcani di come funziona l’istituzione accademica in Italia. Già nel 2013, del resto, doveva aver subodorato qualcosa. Un bel giorno, infatti, si è messo a registrare la sua conversazione privata con un docente di diritto tributario, chiedendogli consigli sul concorso indetto da lì a qualche mese. E il professore, candidamente, gli ha risposto: “Tu meriteresti di vincere il concorso, ma lascia perdere, le cattedre sono già decise. E non fare ricorso, ti giocheresti la carriera”. E stavolta, però, Philip non ha masticato amaro, non è proprio riuscito a mandarla giù. Il concorso lo ha fatto lo stesso e, naturalmente, non lo ha vinto. Ma non si è dato…per vinto. Registrando, qualche mese dopo, una conversazione con uno dei commissari del concorso che lo aveva bocciato, riuscì a carpire la motivazione occulta del suo insuccesso: il buon Philip si era messo contro un vecchio e potente professore fiorentino, intenzionato a far fare carriera al suo delfino, a tutti i costi.
“Così fan tutti”, per l’appunto.
Poi, però, all’improvviso, tre anni dopo le denunce – con una lentezza pachidermica di cui l’Italia non può andare fiera – le denunce di Philip Lamora Jezzi diventano realtà, fatti reali. Quando più nessuno, tranne forse il diretto interessato, nemmeno ci pensava piu’. Ed è stato un terremoto per il mondo ovattato e “ancien regime” delle università statali italiane, non esattamente ai primi posti d’Europa per qualità didattica e numero dei laureati. Bilancio dell’operazione della Guardia di Finanza, in tutta Italia: 7 docenti agli arresti domiciliari, 59 indagati, 150 perquisizioni, 22 professori interdetti dall’insegnamento per un anno. Per tutti l’ipotesi è di corruzione. Molti dei professori hanno manifestato la loro estraneità ai fatti, in alcuni casi affermando di aver agito in buona fede. Questi i numeri dello scandalo. Che, forse, non scandalizza nessuno, ma che finalmente squarcia tutto il marcio che c’è dentro ad una prestigiosa istituzione come l’Università (intendiamoci: non si può fare di tutta l’erba un fascio), a cui troppo spesso studenti, ricercatori e assistenti debbono sottostare.
Se volete morbosamente saperne di più, sul web esistono le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e ambientali raccolte dalla Procura di Firenze e che, a scanso di equivoci, non ammettono repliche. Un vero e proprio gioco degli scacchi, dove i baroni dell’università diventano i Re e i loro prediletti sono semplicemente pedine da inserire in quel posto o in quell’altro. “Non è che si dice è bravo o non è bravo”, spiega uno dei professori coinvolti, in una intercettazione. “No, si fa cosi: questo è mio, questo è tuo, questo è mio, questo è tuo, questo è di coso, questo deve andare avanti per forza”.
Ecco, funzionava cosi.
Sull’onda emotiva di questo scandalo, non si è fatta attendere – ci mancava solo che si facesse attendere – la reazione dell’attuale ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli. Promette (anzi: minaccia) un giro di vite, annunciando l’inserimento delle università italiane in uno specifico focus sull’anticorruzione. L’obiettivo, ha fatto sapere il ministro, è quello di rendere finalmente più trasparenti i concorsi universitari, “verificare, controllare, togliere ogni area di opacità e zone d’ombra e affrontare in modo molto serio, rigoroso e trasparente ogni parte del funzionamento dell’università”.
Sarà la volta buona?
Nel frattempo, aspettiamo che al coraggioso Philip Laroma Jezzi sia dato quel posto che, per meriti, gli sarebbe spettato di diritto. Sempre che non abbia già deciso di lasciare il Belpaese e tornarsene a Londra.