Il “celebrismo”, innanzitutto. Poi, la vita vera.

La morte improvvisa di Fabrizio Frizzi, ad appena 60 anni, ha mandato in tilt milioni di italiani. Anzi, per meglio dire: milioni di telespettatori italiani.
Lungi da me l’idea di criticare il popolare conduttore, uno dei personaggi più amabili e meno “divi” del mondo della tv, definito da tutti “una bravissima persona”. Non lo metto in dubbio, anche se non ho avuto il piacere di conoscerlo. Mi ha colpito, tuttavia, il sentimento popolare di affetto nei confronti di un personaggio famoso, che entrava sì tutti giorni nel nostro tinello di casa e nelle nostre famiglie, ma che – per l’appunto – non faceva parte della nostra famiglia, nè della nostra vera vita. A meno che la tv non sia la nostra vera vita.
Sui social network ho letto commenti commoventi, come ad esempio: “Sto piangendo da giorni interi, come se tu facessi prte della nostra famiglia“.
Ecco, il punto. Si piange disperatamente per Fabrizio Frizzi – mai conosciuto di persona, se non dall’altra parte del tubo catodico – e magari non si va mai a trovare i genitori nella casa di riposo e la nonna al cimitero.
Quando, su Facebook, mi sono azzardato a fare questo parallelo, sono stato subissato di critiche. Guai a toccare Frizzi. Ma io non ce l’ho con lui, pace all’anima sua. Ce l’ho con questo “celebrismo” imperante che permette qualunque cosa ai personaggi famosi, soprattutto da vivi. Solo perchè sono famosi. E che, da morti, li rende “bravissime persone” ed immortali. Poi, nel caso di Frizzi, sono pure parole spese bene. Tanto meglio. Anche se non c’era bisogno di arrivare alla “beatificazione” come si è fatto. Credo che sarebbe stato lo stesso Frizzi a riderci sopra, su questo, con la sua inconfondibile risata.
Sono convinto che, per fortuna, nemmeno di fronte al “celebrismo” tutti siamo uguali. Facciamo un esempio? In caso di morte – speriamo il più lontano possibile – di Flavio Insinna, Paolo Bonolis o Teo Mammuccari – insigni colleghi di Frizzi – l’ondata emotiva non sarà la stessa. Scommettiamo che…? E questo dimostra che Fabrizio, qualcosa di suo, di simpatico e di umano, ce lo ha messo. Eccome.
Per ricordare un “pianto nazionale” di questo calibro bisogna tornare alla morte di Marco Simoncelli, nel 2011, sul circuito di Sepang, in Malesia. Tutti si ricordano dove si trovavano – quella domenica di ottobre – quando ricevettero la terribile notizia. La morte di Simoncelli fu, se cosÌ si può dire, più eroica: su una pista, in sella ad una moto, con i capelli al vento sotto il casco, da giovane, nel fiore degli anni.
E quando accadrà ancora, il “pianto nazionale”? Forse per un’icona altrettanto nazional-popolare come Gianni Morandi, anche in questo caso, il più tardi possibile.
In fin dei conti, abbiamo tutti bisogno di eroi.
Il “celebrismo”, innanzitutto. Perchè della gente famosa vogliano sapere tutto: vita, morte e miracoli. E nel pacchetto, come leggete, c’è anche la morte.
E pazienza se non andiamo mai a trovare la nonna al cimitero: magari non era nemmeno la nonna più simpatica del mondo. Forse, al suo posto, avremmo voluto avere un altro familiare, l’avremmo sostituita volentieri, la nonna. Magari con uno zio, uno zio bonario, proprio come Fabrizio Frizzi.
Bonario e, naturalmente, famoso.