Attenti a non diventare “malati di telefonino”

Il nome di questa vera e propria malattia è sconosciuto ai più: si chiama Nomofobia. Già la parola è complessa, formata dal suffisso -fobia (paura) e dall’abbreviazione anglosassone nomo (no mobile). E’ la cosiddetta Sindrome da Disconnessione: la paura di non essere connessi al nostro ormai gigantesco mondo virtuale, fatto di Facebook, Twitter, Google, Whatsapp e mille altri social media. In definitiva: una dipendenza patologica a tutti gli effetti. La definisce cosi DI.TE., l’associazione nazionale delle dipendenze tecnologiche (www.dipendenze.com/nomofobia). A volte penso di esserne stato colpito anche io, da queste dipendenza. I sintomi e gli effetti sono piuttosto evidenti, e sento di averli quasi tutti, anche se in quantità forse ancora controllabile. Almeno lo spero. Quali sono questi sintomi? L’uso regolare e continuo del telefono cellulare, l’oggetto ormai più maneggiato di tutti; l’avere sempre con sè uno o più caricabatterie, per evitare il “black-out” (senza corrente siamo un mondo senza speranza, altro che senz’acqua o senza petrolio!); l’ansia e il nervosismo (addirittura attacchi di panico!) che si manifestano quando la zona dove ci troviamo non ha segnale; il terrore all’idea di perdere il cellulare, con tutto il suo carico di numeri di telefono e di segreti messaggi in memoria; il monitoraggio costante dello schermo del telefono, ad un ritmo compulsivo, per controllare se sono stati ricevuti messaggi, chiamate, post, notifiche ai posti e via dicendo; il mantenere il telefono sempre accesso, 24 ore su 24; l’andare a dormire con il cellulare a letto; l’uso dello smartphone persino in posti poco adatti, come il bagno (o addirittura sotto la doccia), occultando – a volte – persino alla gentile consorte. Devo continuare?
Non andiamo oltre, non voglio farmi del male (come ho già scritto, qualcuno dei suddetti sintomi ce li ho anche io).
E gli effetti? A parte un certo rincretinimento generale, con la sensazione di avere la testa fra le nuvole del…web, ci sono anche effetti collaterali fisici piuttosto fastidiosi: dalla tendinite al polso da eccessivo uso di pollice e indice, con rischio persino di tunnel carpale  – conosco qualcuno a cui è accaduto, e l’unica attività manuale che svolgeva era “smanettare” sul cellulare – al rischio di abbassamento della vista e persino al “text neck” (il collo da messaggio). Secondo Todd Lanman, neurochirurgo spinale al Cedars-Sinai-Medical Center di Los Angeles, ci sarebbe un numero crescente di pazienti giovani che registrano dolori dovuti ad ernie del disco o a problemi di allineamento vertebrale della colonna. Nei casi più gravi si assiste persino ad un’inversione delle curve delle colonna dovute al troppo uso del cellulare. Incredibile ma vero! In Brasile, addirittura, all’Istituto Delete (Cancella: sarà un caso?) di Rio de Janeiro hanno aperto la prima clinica per “malati di telefonino” (www.today.it/mondo/nomofobia-cosa-e-clinica-malati-telefono.html). Inutile sorridere, potremmo correre tutti il rischio di essere ricoverati: la dipendenza tecnologica è pericolosa, al pari della ludopatia (dipendenza da gioco) e di altre patologie comportamentali troppo spesso sottovalutate.

Siamo costretti ad essere connessi? 
Mi ero ripromesso, durante l’estate, di staccare la spina almeno per una settimana, almeno per qualche giorno: non senza telefono, perchè è comunque un oggetto molto utile, ma senza tutte le applicazioni degli smartphone che ci “costringono” ad essere sempre connessi. Non ce l’ho fatto, lo confesso. Ma ecco un punto cruciale della discussione sulla dipendenza o sulla costrizione da telefoni cellulari: non è che siamo costretti dal mondo stesso a restare connessi? Non solo i temibili gruppi Whatsapp degli amici, delle mamme di scuola, dei colleghi di lavoro e via discorrendo, che se non rispondi in meno di un nanosecondo significa che “non vuoi rispondere“, ma anche gli obblighi della vita moderna: l’home banking delle banche, le registrazioni scolastiche on-line, le vacanze prenotate su Internet, gli acquisti su Amazon, la ricerca enciclopedica su Wikipedia, l’aggiornamento di stato su Facebook, i 280 caratteri di commento “cinguettante” su Twitter, le foto ritoccate su Instagram, ora persino le partite di calcio in diretta sul telefono, e pazienza se il segnale è debole e il pallone si…impalla continuamente!
Come potremmo vivere ormai senza tutta questa connessione? Per i professionisti dell’informazione, ormai, è impossibile. Qualche anno fa avevo un telefono normale, con Internet e tutto il resto, ma senza Whatsapp: ecco, non mi arrivavano gli inviti dei carabinieri alle loro conferenze stampa, perchè anche i carabinieri – altro che quelli delle barzellette di una volta – si sono evoluti e usano Whatsapp per tenere i rapporti con la stampa. Capito? Ed ecco che sono stato “costretto” ad acquistare un cellulare più moderno, di quelli della nuova generazione (una nuova generazione che, peraltro, cambia ogni 6 mesi, con un modello sempre più aggiornato di telefono: che business!).
Forse l’unica soluzione è quella di creare una sorta di “salvavita”: autoimporsi di spegnere il telefono ad una certa ora e non riaccenderlo più fino al mattino dopo e, magari, pensare ad una “dieta” che preveda il digiuno telefonico il sabato e la domenica, tanto per provare, no? Possibile? Resisteremmo? Confesso che, anche per me, sarebbe dura.

I bambini e gli smartphone
Ancor più dura, pensate un po’, è per i bambini. Un’indagine svolta ad inizio 2018 nel Regno Unito, riportata dal quotidiano The Independent, ha messo in risalto che la metà dei bambini, di età inferiore ai sei anni, utilizza il cellulare per circa 21 ore alla settimana. Le responsabilità, in questo caso, sono dei genitori, che molto spesso non badano a spese (comprando gli ultimi modelli) e, soprattutto, non utilizzano le dovute precauzioni. L’80% dei genitori intervistati dall’inchiesta britannica ha ammesso di non fare nulla per limitare l’utilizzo prolungato dello smartphone da parte dei figli, mentre solo il 25% ha deciso di bloccare l’utilizzo dei dati, consentendo cosi ai bambini solo di effettuare chiamate e inviare sms. Le conseguenze di questa cattive abitudini possono essere molteplici: non disattivare l’utilizzo dei dati, ad esempio, può costare una fortuna (se si pensa agli acquisti in-app con le impostazioni automatiche che non richiedono la conferma o la password), ma questo è nulla rispetto alle insidie nascoste nel web, come la pedofilia. Non a caso, gli psicologi dell’età evolutiva raccomandano ai genitori di essere attenti e monitorare costantemente le attività dei figli con smartphone e tablet. Sono in aumento, del resto, anche le patologie da sindrome dell’occhio secco, una disidratazione cronica della cornea particolarmente seria nei bambini e che può essere aggravata dall’uso continuo della vista sugli schermi luminosi.
Certo, i telefoni di nuova generazioni sono comodi, pensano i genitori. Cito due casi di cui sono stato testimone oculare (è proprio il caso di dirlo): una bambina di dieci anni che ha reclamato a tutti i costi l’ultimo modello di I-Phone, accontentata a furor di popolo dai magnanimi genitori, che hanno così giustificato il regalo per la decima candelina sulla torta di compleanno: “Almeno così possiamo sempre sapere dove si trova“. L’intenzione è buona, lo svolgimento no. A dieci anni non c’è bisogno di cellulare. Ne avevano un bisogno disperato, invece, quei genitori che, l’altra sera in pizzeria, non sapevano come fare a tenere buono il loro figlioletto scatenato di quattro anni. Poi, l’intuizione: il papà gli passa lo smartphone, lo connette su un sito di cartoni animati e il gioco è fatto. Il bambino è stato buono come un angioletto per tutta la serata. Ma non ha mai aperto bocca, come se non ci fosse. Come se fosse sul Pianeta Cellulare. E, allora, cosa è uscito a fare? Tanto vale restare a casa, no?
Cambiano i tempi, cambiano le tecnologie: dagli walkman agli I-Pod, dal Game Boy allo smartphone che fa tutto in uno. Temo che la tecnologia ci mangerà tutti, piano piano, con questa nuova dipendenza, sempre più subdola. E se proprio dobbiamo conviverci, almeno che ne siamo consapevoli.