L’anno nuovo comincia bene con i Teatroci: il 12 gennaio 2019 al Teatro Cardinal Massaia di Torino arriva la nuova commedia “NON TUTTI I MALI VENGONO PER…SUOCERE”!
Per i biglietti: prenotazioni@teatrocardinalmassaia.it
Fu il giornalista della Gazzetta dello Sport, Massimo Della Pergola, a inventare nel 1946 il “sogno italiano”: il Totocalcio e quella schedina che, per decenni, ha fatto sognare milioni di italiani. L’attuale governo-Conte, con la legge di Bilancio, l’ha cancellata, annunciando una riforma. Il Totocalcio è ormai diventato un gioco marginale. Troppa la concorrenza di Gratta e Vinci, Lotto e scommesse on-line.
Quell’1-X-2 era davvero un rito, soprattutto nei primi anni del Dopoguerra, un modo per sognare di cambiare vita, come perfettamente raccontato nel film “La Domenica della Buona Gente” (1953), con Renato Salvatori e Sophia Loren. Una storia d’amore all’ombra di una partita di calcio (Roma-Napoli) e di una fortunata vittoria al Totocalcio…
Questo, il passato. E il futuro?
La riforma prevede l’aumento del montepremi, visto che proprio le scarse probabilità di vincita legate all’alta difficoltà della giocata sono alla base del declino del Totocalcio: l’ultimo concorso ha visto 714 vincite da appena 407 euro ciascuno, “quote popolari”, come si diceva una volta, spiccioli che non interessano più quasi a nessuno. In futuro le vincite saranno molto più alte. Il montepremi passerà dal 50 al 75% della raccolta e cambierà la formula di gioco. Niente più 12, 13 e 14, Totogol e quant’altro: ci sarà un unico nuovo prodotto di gioco, ma sempre legato al calcio. Resta da vedere cosa ne penseranno gli scommettitori.
Io, comunque, resto legato a quella domenica 11 marzo 1990, quando – insieme all’amico Cristian – vinsi per la prima e unica volta al Totocalcio: un 12 da 400mila lire (diviso due, s’intende, quindi 200mila lire a testa). Peccato che il 13 valesse 20 milioni, sarebbe stato un bel gruzzolo da spartirsi. Tutta colpa di un Lazio-Atalanta, che fini’ 4-0, mentre noi avevamo scommesso sul pareggio.
Peccato per i soldi sfumati, ma volete mettere la soddisfazione di aver finalmente vinto qualcosa?
(da repubblica.it)
Ne sono stati uccisi 80 in giro per il mondo, segnando un aumento dopo tre anni di calo. L’anno scorso hanno perso la vita 65 giornalisti, uccisi per aver esercitato la loro missione d’informazione.Tra le vittime di quest’anno, vi sono 63 giornalisti professionisti, con un incremento del 15%, 13 giornalisti non professionisti (contro 7 l’anno scorso) e quattro collaboratori dei media, ha spiegato l’Ong con sede a Parigi, denunciando la violenza “senza precedenti” contro la categoria.
n totale – secondo Rsf – più di 700 giornalisti professionisti sono stati uccisi negli ultimi dieci anni. Oltre la metà dei reporter sono stati “deliberatamente presi di mira e assassinati”, come l’editorialista saudita Jamal Khashoggi, ucciso il 2 ottobre scorso all’interno del consolato di Riad a Istanbul. E come il giornalista slovacco, Jan Kuciak, trucidato nella sua abitazione il 21 febbraio scorso.
“L’odio verso i giornalisti proferito e persino sostenuto da leader politici, religiosi o uomini d’affari senza scrupoli ha conseguenze drammatiche sul terreno, e si traduce in un aumento preoccupante delle violazioni”, avverte Christophe Deloire, segretario generale di Rsf, che mette sotto accusa anche i social. “Portano una pesante responsabilità in questo senso, questi sentimenti di odio legittimano la violenza e indeboliscono, ogni giorno di più, il giornalismo e con esso la democrazia”.
L’inferno dei reporter è di nuovo l’Afghanistan: nel 2018 qui hanno perso la vita 15 giornalisti, nove solo nel doppio attacco del 30 aprile scorso in cui sono stati presi di mira proprio gli operatori dell’informazione. Seguono Siria, con un 11 morti, Messico (9), India (6) e Stati Uniti (6 morti, di cui 4 nell’attacco alla redazione di Capitolo Gazette del Maryland).
Nel 2018 è aumentato anche il numero di giornalisti detenuti: sono 348 (nel 2017 erano 326). Oltre la metà dei reporter in prigione si trova in cinque Paesi: Iran, Arabia Saudita, Egitto, Turchia e Cina.
Editoriale di Alessandro Sallusti, da “Il Giornale”. 15.12.2018
Antonio Megalizzi non ce l’ha fatta, come era chiaro fin da subito, dopo essere stato colpito alla testa da un proiettile sparato dal terrorista islamico che ha fatto strage a Strasburgo.
Era un collega che si è trovato al momento sbagliato nel posto sbagliato, perché mai avrebbe potuto immaginare di essere a rischio passeggiando, dopo una giornata di lavoro, per un mercatino di Natale della capitale europea. Non c’è nulla di eroico in questo, ma la sua vita fino a quell’attimo l’ha vissuta in modo eroico nel senso letterale del termine, cioè, cito dalla Treccani, «in modo duro e faticoso per le lotte da sostenere e le difficoltà da superare ma perciò intensa e piena di entusiasmo, che si ricorda con compiacimento soprattutto se paragonata a un presente piatto e poco interessante».
Nell’epoca dei record di ascolto del Grande Fratello, del disimpegno e del «tutti ladri», Antonio era appunto un eroe perché credeva e si batteva per cose oggi merce rara. Per esempio era convinto della centralità e della nobiltà della politica come unico strumento per dirimere le questioni; pensava che l’informazione e la sua libertà fossero un bene assoluto e da proteggere; era convinto che un’Europa unita, equa e solidale, fosse il punto di approdo da perseguire da parte di tutte le nazioni che ne fanno parte. E per questo si trovava a fare il giornalista politico al Parlamento di Strasburgo.
Chi gli ha sparato, un bastardo terrorista islamico, tutto questo non lo sapeva, né gli importava conoscerlo. Sono bastati i suoi tratti fisici da occidentale a trasformare il ragazzo italiano in un facile bersaglio. Ma a noi importa eccome sapere e ricordare chi era Antonio Megalizzi, 29 anni appena compiuti. Ha vissuto poco, ma non invano, anche se questo non può consolare l’immenso dolore dei suoi cari. Non invano perché il lavoro e gli ideali di Antonio restano in eredità a tutti noi che ci battiamo, ognuno nel suo campo, per una società pacifica, libera e liberale. È una eredità che non possiamo dissipare, pena essere complici di chi lo ha ucciso e dei suoi mandanti.
E questo è un patto che ci impegniamo oggi, nella memoria di Antonio, a non tradire mai.
«È la stampa, bellezza! E tu non puoi farci niente! Niente!» chissà se Humphrey Bogart avrebbe mai immaginato che questa sua battuta – pronunciata a chiusura di un film del 1952 da un giornalista dalla schiena dritta – sarebbe stata poi usata come incipit di un articolo che parla della crisi di un giornale. Perché ormai la stampa è sinonimo di conti in rosso, chiusura, licenziamenti.
L’ultimo in ordine di tempo è il Messaggero di Sant’Antonio, il mensile retto dai frati di Padova che ha licenziato in tronco gli 8 giornalisti assunti, da un anno in contratto di solidarietà. Lasciati a casa a due settimane dal Natale e senza trattativa. I frati si sono così guadagnati il titolo di “peggiori padroni editoriali” (parole testuali della Fnsi, il sindacato unico dei giornalisti italiani).
C’è persino chi, in vacanza in questi giorni, apprende del proprio licenziamento… dalla stampa.
Sembra però che il giornale non chiuda e le pubblicazioni siano destinate a continuare (non si sa come e, soprattutto, con chi). Nel frattempo il Corriere del Veneto tira fuori una vecchia inchiesta sul “tesoretto” di Sant’Antonio…
Perché in questi ultimi anni ne abbiamo visti tanti di giornali dati per morti e poi ricomparsi, di fake news (la migliore degli ultimi tempi è sicuramente “Lele Mora direttore de L’Unità”), di passaggi di proprietà. Sono salvi per il momento Avvenire, Italia Oggi, Libero quotidiano, Manifesto e Il Foglio, tra i pochi che ancora godono delle sovvenzioni all’editoria. Il vicepremier Luigi Di Maio ha infatti assicurato che il taglio dei fondi (un cavallo di battaglia dei 5 Stelle) sarà graduale: 25% nel 2019, il 50% nel 2020, il 75% nel 2021. E infine il taglio totale nel 2022.
E tra i “miracolati” c’è pure Radio Radicale: il CdR aveva espresso “forte preoccupazione” in un comunicato, perché nella discussione della legge di bilancio era entrato un emendamento che, pur prorogando di un anno la convenzione per la ritrasmissione dei dibattiti parlamentari, ne dimezzava il finanziamento (da10 a 5 milioni). Ma poche ore dopo si è appreso di una marcia indietro della maggioranza, con il ripristino della cifra iniziale. Sempre che l’impianto attuale della manovra regga…
E se i cacciatori di fake news sono certamente preziosi per la democrazia e per la professione ma non necessariamente per gli affari, imprenditori commercianti e forse anche qualche edicolante, e perché no anche qualche politzico, vedrebbero probabilmente con un occhio di riguardo dei novelli cacciatori di fake Lol, ché con quelle si campa, mica con l’informazione…
(Eloisa Covelli, Euronews)
Proprio così, all’inglese, perchè il Moscato d’Asti e la Barbera d’Asti hanno ormai varcato i confini dell’Astigiano, del Monferrato e del Piemonte per diventare vini sempre più internazionali.
A tal punto che cento giornalisti, blogger e “influecer” del settore wine&food – provenienti da 15 paesi, con folta rappresentanza da Usa, Cina, Corea e Giappone (e molte donne: il gentil sesso beve “meglio”…) – hanno letteralmente preso d’assalto Asti e le altre tappe del tour promozionale, organizzato dal Consorzio dell’Asti DOCG e dal Consorzio Barbera d’Asti e Vini del Monferrato, nelle terre considerate patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.
Il tour ha visitato il Castello Gancia di Canelli (mai aperto al pubblico), il Relais San Maurizio, in località San Maurizio di Santo Stefano Belbo (paese natale dello scrittore Cesare Pavese), il Castello di Costigliole d’Asti (sede dell’ICIF, Italian Culinary Institute for Foreigners: la scuola di cucina italiana per stranieri), Acqui Terme (patria del Brachetto, con capatina alla favolosa fonte termale “La Bollente”, che sgorga acqua curativa a 74,5 gradi), il Foro Boario di Nizza Monferrato e il Castello di Grinzane Cavour, che ospita l’Enoteca Regionale del Piemonte). Oltre a qualche interessante cantina locale.
Con i loro 9.700 e 4.600 ettari di territorio piemontese, Moscato d’Asti e Barbera d’Asti (e ci aggiungiamo il Brachetto d’Acqui, per una doverosa incursione per l’esordio dell’Acqui Rosè secco, presentato in comune ad Acqui Terme, in provincia di Alessandria) hanno già una dimensione mondiale e un fiorente mercato internazionale: basti pensare, ad esempio, che la maggior parte dei 90 milioni di bottiglie di Moscato d’Asti prodotte ogni anni finisce già all’estero (circa 32 milioni di bottiglie).
Ma non è mai abbastanza, visti i limiti del mercato italiano: un occhio di riguardo, da parte dei consorzi e dei produttori, va sempre allo sterminato – ma complicato – mercato asiatico e, in particolare, a quello cinese.
“In realtà, il consumatore medio cinese non ha ancora una grande vera cultura del vino“, spiega Francesco Ye, in un italiano perfetto, frutto di dieci anni di collaborazione tra Shanghai, dove vive, e l’Italia.
“Per cui conta ancora molto la pubblicità, la fama del marchio, la zona d’origine, lo status symbol che rappresenta quel vino. Non a caso, lo champagne è sempre il numero uno, anche se lo spumante Moscato d’Asti si sta facendo sempre più conoscere“, aggiunge Francesco Ye, Business Consulting di “ITaste”.
“Se un vino è di qualità, un buon marketing lo può lanciare definitivamente. Ma una buona vendemmia rimane comunque meglio di un buon marketing“.
Lo dice Walter Speller, inglese che fa la spola tra Padova e Londra, esperto del vino italiano del sito www.jancisrobinson.com.
Sulla qualità di Moscato e Barbera, del resto, non ci sono dubbi. Per il Moscato, una sola uva, ma tre differenti interpretazioni (Asti secco, Asti dolce, Moscato d’Asti) e una precisa identità rurale: le bollicine, dolci o secche, che gli americani apprezzano e che amano abbinare – pensate un po’ – con il cibo asiatico molto speziato.
“Ormai un buon Moscato si trova dappertutto negli Stati Uniti, anche nelle cittadine più sperdute del Texas o del Kansas, per intenderci“, racconta con un ottimo italiano Jeremy Parzen, giornalista esperto di “roba buona” italiana, uno dei più quotati, insieme al connazionale Joe Roberts.
“Nello store sotto casa si può sempre trovare il Moscato d’Asti DOCG originale, di solito con il marchio Cupcake, uno dei più famosi degli States“, aggiunge Jeremy Parzen.
Dall’altra parte dell’Oceano, è molto apprezzata anche la Barbera d’Asti, finalmente non più vista solo come un “secondo vino” alle spalle del Barolo: da abbinare rigorosamente con le bisteccone americane e persino con le mitiche “ribs”, le braciole alla griglia tipicamente made in Usa.
“Ora stiamo puntando molto sul Nizza, un Barbera Superiore che ci sta regalando molte soddisfazioni, soprattutto sui nostri tradizionali mercati esteri“, dice Filippo Mobrici, vulcanico Presidente del Consorzio di Tutela della Barbera d’Asti. “Del resto ce lo stanno confermando in numerosi riconoscimenti che ci stanno arrivando“, continua Mobrici.
E a proposito del Nizza. proprio nelle ultime settimane il Nizza 2015 “Cipressi” dell’azienda di Michele Chiarlo è stato giudicato il Miglior Vino del Mondo del 2018, secondo la prestigiosa rivista americana “Wine Enthusiast”, che recensisce i migliori 100 vini del Pianeta. Miglior pubblicità di così….
Una delle giornaliste di punta proprio di “Wine Enthusiast” è Kerin O’Keefe, americana di Boston, innamorata della Toscana, del Piemonte e dei suoi vini (anche se poi ha scelto di vivere in Svizzera..).
Presente al Foro Boario di Nizza Monferrato, Karin O’Keefe ha confermato la sua passione per le nostre bottiglie. “Ci sono ancora potenzialità enormi sul mercato americano per il Moscato, per la Barbera e per molti altri vini italiani di qualità”, ha detto la giornalista americana. Confermando una tendenza alla “sperimentazione” degli abbinamenti vini-cibo, che parrebbero assai azzardati. In Norvegia, ad esempio, bevono la Barbera con il salmone!
In altri tempi, il pesce con il rosso avrebbe fatto inorridire i puristi, ma ora i tempi sono proprio cambiati.
L’evento “Moscato and Barbera Experience” – oltre ad una splendida sinergia tra i due consorzi nell’attività di promozione e comunicazione – è stata anche l’occasione per presentare l’anteprima della vendemmia 2018 del Moscato. “Ci è sembrata un’ottima opportunità per presentare agli esperti internazionali, provenienti da tutto il mondo, il nostro prodotto più fresco“, dice Giorgio Bosticco, Direttore del Consorzio di Tutela dell’Asti.
“Abbiamo fatto degustare in anteprima, ad appena due mesi dalla vendemmia, il Moscato d’Asti 2018: è il primo vino, a denominazione d’origine controllata, che si può già presentare a così breve tempo dalla vendemmia e, grazie alla tecnologia del freddo, può essere conservato e imbottigliato nell’arco dell’anno fino all’arrivo della prossima annata“, aggiunge Bosticco.
Nel corso di questo vero e proprio “tour de force” tra bollicine bianche e corposo rosso (con adeguato uso del “secchiello-sputacchiera” per non…perdere la testa), tra Moscato e Barbera – ma non solo: ci è capitato di godere di eccezionali tajarin al tartufo bianco, fatti con 40 tuorli! -, i 100 giornalisti internazionali hanno dimostrato grande attenzione ed entusiasmo.
A tal punto che qualcuno di loro, un paio di giovani cinesi e un un attempato signore olandese, hanno alzato il gomito, sono crollati in pieno pomeriggio e si sono messi a ronfare alla grande. Lo abbiamo interpretato come un ottimo segno della qualità del vino italiano e piemontese.
Come dire: non si vive di solo “prozecco” (come lo chiamano i tedeschi).