I nuovi “mostri”: Ramy, Adam e Moise

In un mondo sempre più alla ricerca di personaggi o, quantomeno, di figurine da sventolare come idoli e come modelli da seguire, gli ultimi giorni hanno portato alla ribalta – per ragioni ben diverse: sport e cronaca nera – tre ragazzi che qualcuno, non del tutto disinteressato, definirebbe “la nuova Italia”. Uno di loro, Moise Kean da Vercelli, classe 2000, già la rappresenta, l’Italia: almeno con la maglia azzurra della nazionale, capace di battere tutti i record di precocità, grazie ai gol segnati contro Finlandia e Lichtenstein. Lui, un posto in Paradiso, ad appena 19 anni, se l’è già conquistato. E se saprà mantenere la testa sulle spalle (cosa, peraltro, non così semplice, quando si arriva a quei livelli), il giovane Moise avrà sicuramente un grande futuro da calciatore davanti a sè. Che poi sia diventato, inconsapevolmente, il simbolo di una fetta d’Italia che adora tutto quello che è “diverso”, questo è un altro discorso. Non so quanto siano farina del suo sacco le dichiarazioni a lui attribuite sullo Ius Soli (una cosa di sinistra) e sul fatto di aiutare i migranti nel loro paese (a casa loro: dunque, una cosa di destra). A me, a noi, a tutti, interessa solo che faccia gol. E, provocatoriamente, ho proposto una coppia d’attacco azzurra composta da Kean e Balotelli: roba da far impallidire Salvini e, forse, speriamo, pure le difese avversarie. Rimane la sensazione, fortissima, che se Kean si fosse chiamato semplicemente Cutrone (un altro giovane leone del calcio italiano) non si sarebbe fatto tutto questo can can mediatico-politico-buonista che rischia di travolgere, speriamo di no, lo stesso Kean.

Il primo gol in azzurro di Moise Kean, contro la Finlandia: 21.3.2019.

Dall’altra parte, ci sono gli altri due Eroi della settimana: Ramy e Adam, italiani, ma non cittadini italiani, per colpa (o per merito?) di una legge che – sbagliata o giusta che sia – non permette di avere automaticamente la cittadinanza italiana ai figli degli stranieri, anche se nati in Italia. Si chiama Ius Soli: esiste in alcuni paesi, come gli Usa, ma non esiste in molti altri paesi. Se n’è parlato, nella politica italiana, poi si è smesso di parlarne e, ora, si è ricominciato a discuterne. Per merito (o per colpa?) proprio di Ramy e Adam, che sono stati tra gli eroi-bambini – forse non gli unici, sicuramente i più mediatici – ad aver sventato la strage dell’autobus guidato dall’autista italo-senegalese Ousseynou Sy. Lui sì con la cittadinanza italiana, che forse presto gli verrà (giustamente) tolta. E anche qui, che bordate di ipocrisie: quasi non si può più dire – e nemmeno pensare – che un tizio senegalese con cittadinanza italiana non sia comunque di origine senegalese. Sembra quasi di essere arrivati al controsenso, al razzismo al contrario. E qui non c’entrano proprio i partiti, di destra o di sinistra, c’entra solo il buon senso. Si dice “calciatore senegalese”, non si può dire “autista senegalese, ma con passaporto italiano?”.
Liquidato l’autista con la pena che si meriterà, Ramy e Adam si sono meritati la cittadinanza italiana, “regalata” loro per meriti civili da un Salvini prima titubante e poi addirittura “padre adottivo” dei due ragazzi. A quali, sinceramente, auguriamo di cuore due cose: di tornare presto nell’ombra delle loro vite normali (dopo un episodio straordinario di vita) e di fare buon uso della preziosa cittadinanza italiana. Preziosa, si. Anche per gli italiani. Di prima, seconda, terza generazione, e quel che verrà-
Peccato che spesso ce ne dimentichiamo.

La piccola grande Greta

di Gabriele De Palma, SkyTg24

È candidata al Premio Nobel per la pace, iscritta tra i 25 teenager più influenti da Time, si è presentata davanti ai principali consessi internazionali dove ha accusato senza possibilità di appello i suoi ospiti – capi di stato e imprenditori – e annunciato l’imminente cambiamento, quello che deve portare alla salvaguardia del pianeta, malato di riscaldamento globale. È Greta Thunberg, giovane studentessa svedese nata nel 2003 che sta sensibilizzando all’azione un’intera generazione, è lei l’ideatrice dei Fridays For Future, l’artefice delle manifestazioni per promuovere politiche e comportamenti sostenibili, è lei che porta nelle strade di centinaia di città del mondo (qui la mappa aggiornata) studenti in occasione dello sciopero internazionale del 15 marzo. Ecco la sua storia.

Sensibilità per il pianeta

Greta, come tutti i suoi coetanei svedesi, viene informata dai problemi causati all’ambiente dall’inquinamento e dalle emissioni di CO2 a scuola. Lezioni e filmati di approfondimento che lasciano su di lei una traccia molto più profonda che sui suoi compagni. Allora si informa, studia, si tiene aggiornata, insomma si preoccupa dell’argomento. E rimane profondamente delusa dall’ignavia dei governi di tutto il mondo. Gli accordi internazionali sul clima non vengono rispettati, ogni nuovo dato ufficiale condiviso dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu (Ipcc) dipinge una situazione sempre più drammatica. I fenomeni del disastro imminente sono visibili a quasi tutte le latitudini. Eppure i governanti non sembrano assillati dalla sciagura, i giornali non parlano abbastanza dell’argomento.

I contenuti

La reazione della Thunberg è tanto decisa quanto semplice nei suoi contenuti. Non ha la pretesa di avere escogitato la soluzione al riscaldamento globale. Anzi, a suo parere la soluzione c’è già ed è quella indicata dall’Ipcc e dalla comunità scientifica e ratificata come impegno ufficiale nei tanti accordi sul clima, ultimo quello di Parigi del 2015: ridurre l’inquinamento e soprattutto le emissioni di anidride carbonica in atmosfera. Addio ai combustibili fossili, addio alle pratiche ecologicamente non sostenibili. La sua presa di posizione parte da una base scientifica ma è politica, è una reazione contro la mancanza di reazione a una situazione tanto drammatica da parte di chi riveste il ruolo di decisore politico. Persino la sua Svezia, tra i Paesi con le migliori politiche ambientali, non ha fatto abbastanza; anzi, le emissioni sono aumentate anziché diminuire e se non ce la fa la Svezia come possono farcela i Paesi in via di sviluppo?

La famiglia

I primi interlocutori di Greta sono i genitori. Entrambi appartengono al mondo dell’arte della Stoccolma benestante: la madre è una cantante lirica, il padre fa l’attore. Dopo aver tentato di lenire la frustrazione della figlia con risposte rassicuranti, sono costretti a fare i conti con l’ostinata determinazione di Greta che li convince ad adottare comportamenti più responsabili; e così l’auto a combustibile fossile viene sostituita da un’auto elettrica, la dieta vegana diventa la dieta di famiglia e i Thunberg si impegnano a non utilizzare più mezzi di trasporto altamente inquinanti come gli aerei. Il che rende impossibile alla madre la carriera internazionale, ma la coerenza ha un prezzo.

L’esempio di Parkland

Migliorare le abitudini di una famiglia non è abbastanza. Greta cerca nuovi interlocutori, aderisce a un’associazione ambientalista studentesca e rimane colpita dallo sciopero contro le leggi sulla detenzione di armi organizzato dagli studenti di Parkland, negli Stati Uniti, all’indomani della strage nella scuola della città della Florida. La sua associazione non riesce però a organizzarsi come gli studenti americani, così Greta passa all’azione solitaria.

Lo sciopero per il clima

La causa scatenante per l’attività che l’ha resa celebre è stata una serie di incendi catastrofici avvenuti nelle foreste svedesi la scorsa estate, ennesimo sintomo – se mai gliene servissero di ulteriori – delle conseguenze disastrose del riscaldamento globale. L’allora quindicenne decide che è più utile protestare contro il governo anziché andare a scuola. Dall’inizio dell’anno scolastico – che in Svezia parte a metà agosto – fino alle elezioni generali svedesi del 9 settembre ogni mattina si alza presto, inforca la bici e si reca davanti al Parlamento, dove rimane fino all’orario in cui a scuola terminano le lezioni. Con sé porta una tavola di legno con scritto Skolstrejk för klimatet, ‘sciopero scolastico per il clima’ in svedese, e qualche materiale informativo stampato in casa.

Fridays for Future

Il primo giorno la sua protesta rimane del tutto isolata, dal secondo però qualche passante inizia a incuriosirsi e a parlare con Greta; col passare del tempo i curiosi aumentano e qualcuno diventa solidale, fermandosi a farle compagnia. All’indomani delle elezioni Greta riprende a frequentare la scuola e limita la sua protesta al venerdì. Nascono così i FridaysForFuture, i venerdì per il futuro. Dopo la stampa locale, anche quella internazionale si accorge della protesta e la fama di Greta lievita durante l’autunno. Iniziano a sbocciare gruppi FridaysForFuture in molte città e a dicembre la Thunberg viene invitata a parlare alla Conferenza sul Clima COP24.

Il discorso di Katowice

I rappresentanti degli Stati che stavano in quei giorni di dicembre discutendo a Katowice sulla definizione delle regole attuative degli accordi di Parigi probabilmente pensavano di passare qualche minuto meno noioso del solito quando Greta ha preso la parola. Si sbagliavano, era invece il momento delle accuse senza appello. “Dobbiamo parlare chiaramente, non importa se è scomodo – sferza l’uditorio con tono  – Voi avete paura di diventare impopolari, volete andare avanti con le stesse idee che ci hanno messo in questo casino […] Non siete abbastanza maturi per dire le cose come stanno”. E se l’introduzione non fu lusinghiera, la chiosa fu decisamente una dichiarazione di esautorazione. “Non siamo venuti per chiedere ai leader di occuparsene. Ci avete ignorato in passato e continuerete a farlo. Voi non avete più scuse, noi non abbiamo più tempo. Siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, vi piaccia o meno. Il vero potere appartiene al popolo.” Tiepidi gli applausi dei politici, paralizzati sui loro scranni.

Davos e Bruxelles

Conquistatasi l’attenzione dell’opinione pubblica globale, la Thunberg viene invitata a gennaio a parlare presso un altro consesso prestigioso, il World Economic Forum di Davos. Mantenendo invariato il messaggio generale, le accuse vengono declinate in base al pubblico dell’occasione. Un pubblico arrivato quasi interamente con jet personali (millecinquecento i voli in totale per lo svolgimento della conferenza) che ascolta una ragazza giunta in Svizzera dopo trentadue ore di treno, per non contribuire ulteriormente alle emissioni di CO2. “Alcune persone, alcune aziende, alcuni decisori sapevano bene di stare sacrificando valori inestimabili per continuare ad accumulare incredibili quantità di denaro. Penso che molti di voi appartengano a quelle persone.”
Non va meglio ai commissari europei del Comitato economico e sociale che invitano Greta a fine febbraio. L’assemblea, presieduta dal Presidente Jean-Claude Juncker si sente dire che se le cose non cambieranno drasticamente “quel che lasceranno in eredità i nostri leader politici sarà il più grande fallimento della storia, e loro saranno ricordati come i peggiori farabutti (villain) di tutti i tempi perché si sono rifiutati di ascoltare e di agire”. Juncker china il capo infastidito a fine discorso, mentre fuori dall’edificio gli studenti di Bruxelles scendono in strada a manifestare per i FridayForFuture.

Asperger

Alla Thunberg nel 2016 è stata diagnosticata la sindrome di Asperger e ha sofferto di mutismo selettivo e disturbi ossessivo compulsivi. Lei stessa non ha difficoltà a parlare dell’argomento e anzi considera la sua particolare condizione un elemento che l’ha aiutata a focalizzarsi sul grande problema che affligge il pianeta. Le diagnosi “significano che parlo solo quando lo ritengo necessario”. In un’intervista rilasciata al New Yorker ha dimostrato consapevolezza del potenziale politico della sua condizione: “vedo il mondo in modo leggermente diverso, secondo un’altra prospettiva. Ho un interesse speciale. È comune che persone nello spettro autistico abbiano interessi speciali”.  In un intervento alle conferenze TED di Stoccolma ha precisato ancora meglio che quando si tratta della crisi ambientale sono le persone non autistiche a sembrare molto strane, dato che parlano del problema come se fosse urgente ma poi continuano a comportarsi come prima. La capacità di non distrarsi in questo caso aiuta.

Gli adulti

Il cambiamento di cui si sta facendo promotrice la sedicenne svedese non è riservato esclusivamente ai teenager. Anzi, la loro mobilitazione è solo l’estrema ratio contro l’immobilismo degli adulti. Gli adulti sono più che benvenuti, anzi “necessari”, come tutti. E molti infatti si stanno accodando all’iniziativa di Greta, come molti genitori che si stanno organizzando in associazioni per sostenere questa necessaria urgenza di cambiare il rapporto con il pianeta manifestata dai figli che li ha contagiati.

Pene dimezzate per femminicidio, una sconfitta per tutti

da “Huffington Post”

Dieci giorni fa si scatenava una tempesta emotiva, ora è il turno della delusione, domani chissà: il comportamento della vittima e i sentimenti (nella sentenza “i risentimenti”) di un uomo che colpisce a morte sua moglie – l’amante, la sorella, la compagna – hanno un peso nelle aule di tribunale. Una relazione burrascosa o una madre anaffettiva possono costituire attenuanti e alleggerire la condanna per un reato agghiacciante e odioso.

Nella sentenza che vede dimezzata la pena per Javier Napoleon Pareja Gamboa – 52 anni, operaio edile ecuadoriano, condannato in primo grado per l’omicidio volontario della moglie Angela Coello Reyes, per tutti Jenny – ci sono due questioni da considerare, spesso confuse dall’opinione pubblica.

La prima riguarda il rito abbreviato, ammesso anche per giudicare reati violenti come l’omicidio e la violenza sessuale. È grazie al rito abbreviato (o a causa di), se la condanna a 24 anni per omicidio volontario a Gamboa è diventata automaticamente di 16 (diminuzione di un terzo della pena). Ancora oggi chi commette un reato efferato può godere di sconti, solo perché permette alla farraginosa burocrazia statale una riduzione dei tempi processuali. Le leggi vanno rispettate, ma anche le vittime e le famiglie che restano a piangerle dovrebbero esserlo: considerare caso per caso e concedere riti speciali solo quando ritenuto opportuno potrebbe essere un primo passo.

La seconda questione ha creato sconcerto e riguarda le attenuanti: tutto ciò che deve aver portato i 30 anni richiesti dal Pm ai 24 decisi dai giudici. Tra queste, spicca lo stato d’animo dell’omicida. Gamboa secondo i giudici

“ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile… come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contraddittorio, che l’ha illuso e disilluso nello stesso tempo”.

Quando i giudici scrivono che lo stato d’animo intenso del signor Gamboa “non è umanamente del tutto incomprensibile”, affermerebbero dunque che è umanamente comprensibile.

Possiamo leggere tra le righe di questa sentenza una condanna all’atteggiamento fedifrago e contraddittorio di lei, un po’ come dire che in fondo se l’è cercata. È bene ricordare che lui ha deciso liberamente di tornare in Italia dalla moglie a suo dire aguzzina, senza essere minacciato o picchiato. Lei gli ha solo promesso qualcosa che non ha mantenuto: la fedeltà. Non è la prima e non sarà l’ultima donna a tradire il suo uomo, bisognerebbe capire se questo debba essere considerato un’aggravante o un’attenuante, quando dall’infedeltà si arriva all’omicidio.

Questa sentenza desta ancora più clamore dopo quella nei confronti di Michele Castaldo: 57 anni, ha stretto le mani intorno al collo della povera Olga Mattei fino a ucciderla – la donna con la quale aveva iniziato una relazione un mese prima – quando lei aveva provato a lasciarlo. Secondo i magistrati le difficili esperienze di vita di Castaldo lo portarono quel giorno a essere sopraffatto e la “soverchiante tempesta emotiva e passionale” acuì il suo timore di venire abbandonato.

Nei cosiddetti delitti passionali e in tutti i femminicidi compiuti da uomini che non accettano di essere lasciati, abbandonati, respinti, ci sarà sempre una componente emotiva. Una donna che sceglie un altro uomo, una moglie che decide di lavorare mentre il marito la vorrebbe a casa, una fidanzata che lascia il compagno perché non lo ama più, una figlia che si veste troppo all’occidentale: queste donne provocheranno reazioni viscerali e turbamenti che non possono in alcun modo diventare attenuanti, non solo in fase processuale, ma ancor più nella nostra cultura.

I giudici sulle pagine dei giornali confermano le loro scelte e assicurano che non ci sia in corso alcuna deriva maschilista (che il giudice sia donna non fa alcuna differenza, in quanto il maschilismo non è prerogativa dell’uomo), ma affermare che questi giudizi non abbiano nulla a che fare con il delitto d’onore è scorretto.

Queste sentenze hanno un forte impatto sull’opinione pubblica e stiamo correndo un doppio rischio: che la pena sia eccessivamente soggetta alla sensibilità del giudice di turno e che qualcuno inizi (o ricominci) a considerare il comportamento di una donna come la causa di una reazione violenta, di un atteggiamento prevaricatore, di un omicidio.

IL TRISTE RITRATTO DELLE VITTIME DELL’ARIA

Una delle cose meno divertenti del nostro mestiere di giornalista è l’impatto con la cronaca nera. Soprattutto nei casi di disastri di massa, come gli incidenti aerei. L’ultimo, in ordine di tempo, è avvenuto domenica 10 marzo, alle 8.44 del mattino, sui cieli dell’Etiopia. Un Boeing 7373 Max 8 della Ethiopian Airlines, una delle compagnie africane più affidabili, sei minuti dopo il decollo da Addis Abeba con destinazione Nairobi è precipitato portandosi via la vita di 149 passeggeri e 8 membri dell’equipaggio.
Domenica mattina ero al lavoro, nella redazione di Euronews. Il nostro è un lavoro di desk, non abbiamo la fortuna (o la sfortuna?) di essere sul campo, almeno non in questo frangente, nel momento in cui si è appresa la notizia dell’incidente. Pensando subito all’eventualità, poi confermata, della presenza di italiani a bordo. Ce n’erano otto.
Quella che doveva essere una tranquilla domenica di lavoro si è trasformata in una triste attesa di notizie, diffuse dall’agenzia Ansa e da altre agenzie internazionali, sulla scorta delle informazioni fornite dalla stessa Ethiopian Airlines alla Farnesina. E da lì è cominciato il lavoro meno divertente del mondo: il triste ritratto delle vittime dell’aria.
Informazioni che cominciavano ad arrivare come un fiume in piena, nomi, cognomi, età, origine, lavoro, attività. E poi, le foto. Meglio, se in un momento di felicità, passata. Una volta, per avere le “testine” delle vittime dei fatti di cronaca bisognava chiedere alla Questura, che le forniva alla stampa in base alle foto dei documenti di identità. Ora, esistono i social network. Si rischia di andare a frugare nell’intimità delle vittime, e su Facebook, ad esempio, poco dopo l’incidente esistevano già le pagine delle vittime con la scritta “in memoria di…”.


E allora, facciamo il nostro lavoro di ficcanaso. La foto dell’archeologo Sebastiano Tusa con la moglie durante una vacanza, il sorriso delle giovani funzionarie dell’Onu Virginia Chimenti e Pilar Buzzetti, una foto di Paolo Dieci ad una manifestazione con la bandiera della pace, i coniugi medico e infermiera, originari della provincia di Arezzo, che andavano in Sud Sudan per l’inaugurazione di un ospedale, insieme al commercialista, tesoriere della onlus Africa Tremila. E poi Rosemary Bumbi, l’unica di cui non si sono trovate fotografie, semplicemente perchè – tra le diverse omonime presenti sui social – non si sa qualche fosse la “vera” Rosemary. Il tutto per comporre un ritratto, triste, lo ribadisco, quasi un puzzle di volti un tempo sorridenti e che ora non lo saranno più. Sarà difficile persino recuperare i corpi delle vittime, l’aereo è letteralmente precipitato dentro al terreno, sprofondato in profondità. Forse non ci sarà nemmeno un corpo da consegnare ai familiari, per poter piangere i loro cari.
A volte odio questo lavoro.

«Beverly Hills 90210», grande macchina di sogni adolescenziali

di Aldo Grasso (dal Corriere della Sera)

Con Luke Perry sono morti gli anni ’90? In realtà, niente muore, tutto ritorna; per questo è giusto ricordare quella magnifica macchina da sogni adolescenziali che è stata «Beverly Hills 90210», il primo esempio compiuto di teen drama, come lo intendiamo oggi. Creata da Aaron Spelling, da Darren Star, da Charles Rosin e da altri ancora (in Usa dal 4 ottobre 1990, in Italia dal 19 novembre 1992 su Italia 1), la serie ruotava attorno alla famiglia Walsh, trasferitasi per il lavoro del padre dalla provinciale Minneapolis alla mondanissima Beverly Hills. «Beverly Hills 90210» era «Happy Days» vent’anni dopo; era la parte solare di «Twin Peaks», l’altra faccia di Gioventù bruciata.

C’era ancora Fonzie, che qui si chiamava Dylan (come Bob, come il poeta Dylan Thomas), c’erano i gemelli Walsh (come il grande regista), lei Brenda e lui Brandon (quasi come Marlon). C’era l’intellettuale del gruppo, una ragazza, che si chiamava Andrea Zuckerman (suo padre sarà certo uno dei tanti mitteleuropei finiti a Hollywood). «Beverly Hills» è stato il sogno easy chic di un mondo fatto di belle case, belle macchine, bella vita e brutti problemi. In America, alla fine delle puntate incentrate su particolari tematiche sociali (e la droga, l’alcolismo, il razzismo, la maternità indesiderata, l’Aids), venivano proposti numeri verdi di assistenza. In Italia, ci pensavano le mamme più apprensive a vietarne la visione! «Beverly Hills» è stato un luogo mitico di riflessione, il primo «parliamone» dedicato ai teenagers. Non c’è scritto da nessuna parte che per affrontare un problema sia necessario discuterne, magari in tv. L’educazione sentimentale può anche scaturire dalla lettura di un libro. O dalla visione di un film. O di una serie. E «Beverly Hills 90210» ha fatto proprio questo: ha raccontato, ha messo in scena i problemi, ha narrativizzato le paure.