NEI PIANI ALTI DI UEFA E FIGC NON CI SONO NERI: È UN PROBLEMA PER LA LOTTA CONTRO IL RAZZISMO?

Nei piani alti di Uefa e Figc, le due massime istituzioni calcistiche in Italia e in Europa che dichiarano di voler lottare contro il razzismo negli stadi, non esistono dirigenti di colore. Chi prende le decisioni più importanti è sempre bianco.

Nel Comitato esecutivo della Uefa non esistono infatti manager neri, mentre nel Consiglio federale della Figc c’è un solo consigliere di colore, anche se non parliamo di un dirigente sportivo ma di un’atleta: si tratta di Sara Gama, capitano della nazionale italiana femminile, eletta nella quota del sindacato dei calciatori.

Ma quanto influisce questa mancanza di rappresentanza delle minoranze etniche negli organi che poi hanno la responsabilità di debellare il razzismo dagli stadi?

Il Comitato esecutivo rappresenta il cuore decisionale della Uefa: è composto dal presidente, da altri 16 membri eletti dal Congresso Uefa – a sua volta formato dai presidenti delle federazioni calcistiche delle 55 nazioni che aderiscono all’associazione – da due membri eletti dai Club Europei e da un membro eletto dalle Leghe Europee.

Nel comitato vengono prese tutte le decisioni più importanti: qui tra tra i dirigenti l’unico a non essere di etnia caucasica è Nasser Al-Khelaifi, qatariota, presidente della Qatar Sports Investments, del Paris Saint-Germain e degli studi cinematografici di Los Angeles Miramax, nonchè membro del consiglio di amministrazione del fondo sovrano del Qatar.

Ma la struttura della Uefa non finisce qui: oltre il comitato, ci sono organi interni e minori come quelli per l’Amministrazione della Giustizia, Il Consiglio Strategico per il Calcio Professionistico e poi le Commissioni e i Panel.

Questi ultimi due rappresentano, come si legge sul sito stesso della Federazione, “la linea politica Uefa per quanto riguarda le diverse declinazioni del calcio europeo”. Dalle questioni mediche ai trasferimenti dei giocatori, fino agli arbitri e alla finanza, sono tanti gli argomenti sul tavolo di questi due organi, che possono sottoporre delle proposte al Comitato Esecutivo.

Qui troviamo dei dirigenti neri: andando a leggere i nomi resi pubblici che figurano tra le Commissioni e i Panel del mandato 2019-2023 se ne contano tre su più di 450 ruoli. Uno di questi fa parte della Commissione per il “Fair Play and Social Responsibility” – il team che si occupa di etica e delle implicazioni sociali del calcio in Europa – composta da 23 membri. Si tratta dell’ex calciatore inglese Paul Elliott.

Nonostante Uefa e Figc siano istituzioni private e non siano obbligate ad avere politiche inclusive è evidente l’impatto che il loro operato ha sulla società. E sebbene uno dei motti della Uefa sia “No to racism”il fenomeno nello sport è un problema ben lungi dall’essere debellato.

È giusto di pochi giorni fa l’ultima uscita controversa di un alto dirigente del football italiano, il presidente del Brescia, Massimo Cellino: “Balotelli è nero, ma sta lavorando per schiarirsi e ha molte difficoltà”.

L’ufficio stampa della Uefa ha dichiarato “Siamo fermamente convinti di avere un forte network di persone in grado di lavorare al problema del razzismo” e ha fatto cenno a un sondaggio condotto nel 2018 che ha dimostrato come su 820 membri dello staff della Uefa, l’86% si dichiara di etnia caucasica, mentre il 14% si identifica in una diversa etnia. L’ufficio stampa ha anche commentato: “Attualmente ci sono 48 nazionalità rappresentate nella Uefa: la nostra organizzazione ha membri del personale che rappresentano tutti i continenti del pianeta, ad eccezione dell’Antartide”.

Tuttavia, Uefa non specifica se questo 14% di persone di etnia non caucasica ricopra ruoli decisionali fondamentali o meno.

Il fatto che ci siano così poche persone nere nei piani alti nella dirigenza del calcio rende quindi la battaglia contro il razzismo negli stadi più debole?

o abbiamo chiesto al sociologo Ben Carrington, all’esperto di diritto sportivo Massimo Coccia e al primo calciatore nero ad avere indossato la maglia della nazionale italiana Joseph Dayo Oshadogan.

A detta di Carrington, professore della University of Southern California e autore di quattro libri sul razzismo e sullo sport: “Le risposte pateticamente deboli al razzismo da parte della Uefa possono, in parte, essere attribuite al fatto che ci sono troppi funzionari bianchi che non prendono sul serio il problema”.

Il sociologo commenta: “La Uefa e le altre organizzazioni sportive non riflettono adeguatamente sul fatto che continuano ad essere, come le definì l’ex direttore generale della Bbc, Greg Dyke, ‘orribilmente bianche’. Dato il gran numero di calciatori neri che giocano ai massimi livelli, la Uefa e i club sportivi dovrebbero essere più attenti a garantire una presenza multiculturale, nella sala riunioni così come in campo” continua Carrington, pur precisando: “Avere più persone nere nei piani alti aumenta le possibilità che la lotta contro il razzismo sia effettivamente una lotta invece che una presa di posizione solo simbolica, ma di per sé non garantisce nulla”.

Quel che è certo è che limitare il campo di questa battaglia ai confini dello stadio, secondo Carrington, non basta.

Il calcio è felice di vedere, celebrare e per certi aspetti utilizzare i corpi dei calciatori neri attraverso le loro prestazioni atletiche, ma sembra non avere alcun desiderio di permettergli di entrare negli spazi del potere”, spiega Carrington.

Secondo il sociologo, per ora: “La Uefa si limita a dire ‘non sono razzista’, ma essere antirazzisti è una cosa diversa. Una migliore rappresentanza dei neri e di altre minoranze etniche è un passo importante, ma se non c’è una critica e una comprensione del razzismo istituzionale, parliamo di provvedimenti soltanto di facciata, finiamo per accontentarci di un volto nero in più in mezzo a un’istituzione sempre bianca”.

Guardando al campo da gioco più ristretto della Figc, la situazione non cambia di molto: tra i dirigenti degli Organi direttivi centrali e il Comitato di presidenza non si contano persone di colore, ma nel Consiglio federale – tra i più importanti organi decisionali della federazione – si conta un consigliere nero: parliamo di Sara Gama, capitano della nazionale italiana femminile, a rappresentaza del sindacato dei calciatori AIC.

Tra le commissioni della Federazione risulta anche una apposita per l’integrazione presieduta dalla ex campionessa Fiona May. Contattato da Euronews, l’ufficio stampa della Figc non ha risposto alle nostre domande.

Massimo Coccia, esperto di diritto sportivo, nel 2006 ha partecipato alla stesura di un articolo del codice di giustizia sportiva della Figc sulla “responsabilità per comportamenti discriminatori”: nonostante da allora secondo l’esperto non si è fatto abbastanza per sconfiggere il razzismo negli stadi, la questione è molto complessa.

Si potrebbe introdurre l’obbligo di inserire nelle liste dei candidati alle cariche federali una quota per rappresentare le minoranze, come viene fatto spesso per le donne, ma non bisogna dimenticare una cosa: fare il dirigente sportivo in molti casi vuol dire avere tempo e avere un certo benessere economico. I membri del Consiglio federale della Fgic, per esempio, non prendono alcuno stipendio. Anche il presidente ha diritto solo a un’indennità” argomenta Coccia.

Mio figlio ha giocato a basket e ha avuto molti compagni figli di immigrati, di tutte le etnie. Ma quanti di quei bambini che ora giocano a basket da grandi avranno il tempo e i soldi per diventare dirigenti sportivi? Parliamo di una questione politica che riguarda tutta la società, e non solo lo sport”, conclude l’esperto.
Oshadogan, primo calciatore nero nella nazionale: “Sono stato solo il ‘primo normale’”

Per Joseph Dayo Oshadogan, ex calciatore del Foggia, primo giocatore nero ad indossare la maglia della nazionale italiana: “Parlare di razzismo è piu semplice per chi lo ha sperimentato sulla propria pelle. Sono esperienze crude e forti difficili da immaginare altrimenti ma – commenta l’ex sportivo – se parliamo di istituzioni che lavorano fuori dal campo, credo che il numero delle persone di colore nelle dirigenze sia una questione puramente meritocratica: non metto la questione sullo stesso piano degli episodi di razzismo durante le partite.”

L’ex giocatore si dichiara cautamente ottimista: “Dopo anni posso dire che finalmente siamo passati dal ‘sono solo i soliti pochi’ a ‘anche se sono pochi vanno puniti’” afferma il calciatore, che ancora oggi spiega di non sentirsi un simbolo e racconta: “Prendere la maglia è stata un’esperienza bellissima come per tutti gli altri: il caso mediatico è scoppiato dopo. Io sono capitato nella nazionale, non come simbolo, ma come il ‘primo normale’. Rappresentare l’Italia per me era soltanto il sogno di un bambino”.

L’autunno caldo del mondo

Otto anni dopo la primavera araba, è il momento di un nuovo autunno, altrettanto caldo.
Il mondo è attraversato da un’ondata di proteste senza precedenti, da Hong Kong al Cile, passando per la Francia e la Catalogna: nonostante le coordinate geografiche siano molto diverse tra loro, il minimo comune denominatore delle rivolte, a detta delle organizzazioni per i diritti umani consultate da Euronews, è la repressione.

Nonostante questa nuova ondata di proteste abbia analogie con la primavera araba del 2011 – per esempio il ruolo chiave dei social network nella rapida espansione e organizzazione delle manifestazioni – l’estensione delle rivolte della società civile, che hanno abbracciato tantissimi paesi in diversi continenti, è del tutto nuova.

Demonstrators chant slogans outside of a church at a rally marking International Day for the Elimination of Violence against Women amidst protests against Chile’s government, in Valparaiso, Chile November 25, 2019. REUTERS/Rodrigo Garrido
Non importa in che lingua vengano scanditi gli slogan dei manifestanti: l’insostenibile costo della vita, la corruzione e la contestazione politica sono i fattori che hanno portato le persone a scendere in strada, a prescindere dal contesto della rivolta.

Secondo Geneviève Garrigos, responsabile delle Americhe per Amnesty International in Francia, nonostante le complessità e particolarità delle proteste, è possibile individuare alcuni elementi comuni che caratterizzano questo momento storico così eccezionale: la lotta per la salvaguardia dei propri diritti.

“In alcuni paesi, come l’Egitto, il Libano e l’Iraq, le proteste nascono per denunciare la corruzione che nega ai cittadini i propri diritti”, afferma Garrigos.

In altri paesi, invece, si è scesi in piazza contro il costo della vita: succede in Francia, Cile o Nicaragua. In questo paese per esempio le proteste si sono scatenate a seguito della riforma delle pensioni, anche se gli studenti si erano già mobilitati contro l’incendio della riserva dell’Indio Maíz.

Molti manifestanti si ribellano contro le disuguaglianze, un caso fra tutti il Cile, che è uno dei paesi con le disuguaglianze più marcate. Contesti con equilibri precari a cui spesso si sommano i problemi derivanti dal cambiamento climatico.

Un’altra grande famiglia di proteste è quella che denuncia la privazione della propria libertà civile e politica. Lo vediamo a Hong Kong, in Catalogna o in Bolivia, dove le proteste sono scoppiate a seguito di sospetti brogli elettorali o per rivendicare una propria autonomia.

Riot police officers detain a demonstrator during protests against Chile’s government, in Santiago, Chile November 25, 2019. REUTERS/Ivan Alvarado – RC2NID9XD6Q4

Transgender Day of Remembrance: i dati della discriminazione

Mentre tutto il mondo, il 20 novembre, ha celebrato il Transgender Day of Remembrance (il Giorno del Ricordo delle vittime dell’odio e della discriminazione sessuale), un nuovo rapporto di Transrespect Versus Transphobia Worldwide sostiene 331 persone transessuali e transgender sono state uccise tra settembre 2018 e settembre 2019, calcolando tutti i paesi del mondo.
Il Brasile ha registrato il maggior numero di questi crimini motivati dall’odio, con 130 omicidi segnalati. Il Messico ne registra 63 e gli Stati Uniti 30.
Un altro dato inquietante: dal gennaio 2008 da oggi sono state uccise 3.317 transessuali e persone con identità di genere.
La discriminazione nei confronti dei transessuali e delle persone con identità di genere è reale e profonda in tutto il mondo, e fanno parte di un cerchio strutturale e continuo di oppressione che ci tiene privati dei nostri diritti fondamentali“, spiega il rapporto.
Le persone transessuali e le persone con identità di genere sono vittime di orribili violenze di odio, tra cui estorsioni, aggressioni fisiche e sessuali e omicidi. Nella maggior parte dei paesi, i dati sulle persone uccise, sia transessuali che di genere, non sono prodotti sistematicamente ed è impossibile stimare il numero effettivo di casi“.

Alcuni di questi omicidi non vengono denunciati perché le vittime sono state maltrattate dai media. Le famiglie delle vittime a volte rifiutano di riconoscere lo status di transessuale di qualcuno e forniscono informazioni errate alle autorità.

Le donne transgender di colore vivono una situazione di forte stress, perchè sono le più a rischio“, spiega il Presidente della Human Rights Campaign (HRC), Alphonso David.
Ognuna di queste vite recise tragicamente rafforza l’urgente necessità di agire su tutti i fronti per porre fine a questa epidemia, dai legislatori e dalle forze dell’ordine, ai media e alle nostre comunità“.
Secondo le informazioni dell’HRC il 91% delle donne transessuali uccise negli Stati Uniti nel 2019 erano nere. Oltre l’80% delle vittime era di età inferiore ai 30 anni. Di tutti gli omicidi segnalati, il 68 per cento delle vittime viveva nel sud degli Stati Uniti.
Secondo i dati del Federal Bureau of Investigation (FBI), 1.445 persone sono state vittime di crimini motivati dall’odio, in cui l’orientamento sessuale era la vera motivazione. Gli attacchi fisici alle persone transgender sono aumentati del 34%.
L’avvocato transgender Gwendolyn Ann Smith ha iniziato a seguire il Transgender Day of Remembrance nel 1999 per commemorare Rita Hester, una donna transgender accoltellata a morte nel Massachusetts nel 1998. L’omicidio di Hester è rimasto tuttora irrisolto.

Il Transgender Day of Remembrance cerca di evidenziare le difficoltà che dobbiamo affrontare a causa del bigottismo e della violenza anti-transgender“, ha detto l’avvocato Smith. “Non sono estranea alla necessità di lottare per i nostri diritti e il diritto di esistere, semplicemente. Con così tante persone che cercano di cancellare i transessuali e i transgender, a volte nel modo più brutale possibile, è di vitale importanza che coloro che abbiamo perso siano ricordati e che noi continuiamo a lottare per la loro giustizia e la nostra libertà“.

Govone, il “Magico Paese del Natale”

Le prime nevicate dell’inverno ci trascinano, quasi inconsapevolmente, verso l’atmosfera natalizia, e ancor di più se nelle nostre famiglie ci sono bambini: vivranno il Natale e l’attesa dell’arrivo (davvero dal camino? Oppure per strada con la slitta?) di Babbo Natale come un periodo magico.

E un’altra esperienza natalizia magica, per i bambini, ma anche per gli adulti, è “Il Magico Paese di Natale“: lo troviamo a Govone (Cuneo), tra le colline di Langhe-Roero e Monferrato, paesaggio vitivinicolo Patrimonio Mondiale Unesco.

Novità di quest’anno sono quattro weekend tematici, coinvolgenti animazioni e il ritorno del treno storico per vivere lo spirito del Natale viaggiando su carrozze d’altri tempi.

Un evento che, nella sua edizione 2018, ha visto la presenza di oltre 200.000 persone e un indotto per il territorio stimato tra i 26 e 27 milioni di euro, con un incremento sempre maggiore di visitatori stranieri ad una delle più note manifestazioni italiane dedicate al Natale.

Fino al 23 dicembre, infatti, per tutti i weekend, il borgo di Govone diventa “Il Magico Paese di Natale”, dove è possibile incontrare Babbo Natale, partecipando a un vero e proprio spettacolo musicale alla cui conclusione arriverà il leggendario Santa Claus.

Quest’anno lo spettacolo che va in scena nella Casa di Babbo Natale è dedicato alla storia di Rudolph e di come sia riuscita a diventare la famosa renna che oggi conosciamo, perseverando nell’inseguire il suo sogno oltre il comune pregiudizio, che la voleva inadatta a trainare la slitta di Santa Claus.

Torna anche il Mercatino Natalizio, che quest’anno raggiunge quota 110 selezionati espositori, diventando il primo in Italia per numero di partecipanti, ma – soprattutto – premiato con la candidatura ai Best European Christmas Markets come unico rappresentante per l’Italia.
Govone è in lizza per aggiudicarsi un risultato importante e, per farlo, sfida Tallin, vincitrice dell’ultima edizione, e numerose altre città europee, tra cui le capitali Praga, Budapest, Vienna e Bruxelles.

A celebrare il Natale cristiano, dopo la mostra dedicata al presepe dello scorso anno, quest’anno arriva un concorso dedicato ad artisti, professionisti e amanti del presepe, collocato all’interno del Castello di Govone, tra scene di vita e antichi mestieri.

“Adeste Fideles”: un’esposizione che coinvolge maestri presepai provenienti da diverse zone d’Italia, con particolare attenzione alla produzione artistica piemontese.

A tutto questo si aggiunge la possibilità di completare la propria esperienza natalizia ascoltando i Christmas Carols, che ripropongono i canti natalizi all’aperto in stile Vittoriano, visitando la splendida residenza sabauda di Govone, oppure concedendosi una pausa enogastronomica tra la Locanda, la Bottega e le postazioni dedicate allo Street Food.

Per i più piccoli è possibile divertirsi nel mini parco avventura, con il Gioco dell’Oca nel giardino all’italiana del Castello, con spettacoli e varie attività di laboratorio.

Dal 23 novembre, inoltre, ciascun fine settimana è dedicato a un tema che di volta in volta viene sviluppato.
Si parte dalla letteratura per bambini in collaborazione con il Comune di Cavalermaggiore (Cuneo), che ospita in concomitanza la Fiera Piemontese dell’editoria, passando per il Festival del Cibo, con il lavoro a quattro mani realizzato con l’Assessorato all’Agricoltura e al Cibo della Regione Piemonte, fino al weekend dedicato al tema del gioco, con proposte sia per il pubblico dei più piccoli che degli adulti, grazie alla professionalità e competenza dello staff de La Collina degli Elfi Onlus.

La 13esima edizione de “Il Magico Paese di Natale” vede, infine, il grande ritorno del Treno storico, in collaborazione con la Regione Piemonte e la Fondazione Ferrovie dello Stato.
Un viaggio indimenticabile e davvero suggestivo per tutta la famiglia, accompagnato durante il percorso da magiche figure che animano e creano una speciale atmosfera e, al ritorno, da un brindisi con le bollicine del Consorzio dell’Asti DOCG.

 

 

“Razzismo: si è affievolito il confine tra accettabile e inaccettabile”

Sul tema dei crescenti casi di discriminazione abbiamo sentito Enzo Risso, direttore di SWG, autore di una indagine sulla percezione del razzismo.

– Cristiano Tassinari, Euronews:
“Questa ricerca riguarda il razzismo in generale o segnala qualcosa di particolare, semmai un rigurgito di antisemitismo? Oggi ci sono notizie di un cimitero profanato in Danimarca…”.

Enzo Risso, SWG:
Noi abbiamo un’indagine stabile su tutti quelli che sono gli indicatori dell’andamento della società italiana, tra cui c’è un indicatore con una domanda che chiede alle persone se gli atteggiamenti razzisti, cioè di discriminazione di sesso, religione, etnia, eccetera…sono giustificabili oppure no. E ha una modalità di risposta che dice: “Non sono mai giustificabili” oppure “sono sempre giustificabili” o “talvolta, nella maggior parte dei casi, sono giustificabili”, “sono giustificabili solo in casi eccezionali” o “sono giustificabili solo per alcuni particolari eventi”. A questa domanda, abbiamo il 45% di persone che dice “No, non sono mai giustificabili”, un 10% che risponde “si, sono più o meno giustificabili” e un altro 45% che trova in qualche modo che possa esserci “qualche occasione in cui sono giustificabili”.
Non si tratta di pigiare l’acceleratore sul fatto che ci sia una recrudescenza razzista, si tratta solamente di prendere atto e segnalare con una certa preoccupazione che gli anticorpi nei confronti degli atteggiamenti discriminatori non sono cosi dinamici, non sono cosi presenti, cioè sono presenti nel 45% dei casi, ma c’è una maggioranza di persone che, in qualche modo, qualche volta, potrebbe anche giustificare gli atti di discriminazione”
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– Cristiano Tassinari, Euronews:
“Cosa intende per anticorpi?”

Enzo Risso, SWG:
Anticorpi, cioè il ripudio assoluto. E far scattare nelle persone il fatto che si deve rifiutare qualsiasi tipo di atteggiamento discriminatorio. È chiaro che sei vado a chiedere a qualcuno se è giusto sprangare una persona, mi dice di no, sia ben chiaro, però può essere che le persone comincino aper esempio d essere più superficiali rispetto a certi atti, come l’uso di termini razzisti o discriminatori sui social, oppure non dà tutto questo fastidio che durante una partita allo stadio ci siano cori nei confronti di un giocatore di olore… Ecco, questi sono gli anticorpi. Gli anticorpi in cui un atteggiamento discriminatorio viene in qualche modo sottostimato, mettiamola così”.

– Cristiano Tassinari, Euronews:
“Ma perchè così tanta gente, secondo lei, arriva a giustificare non dico il razzismo, ma…”.

Enzo Risso, SWG:
“Intanto abbiamo un 45% che non lo giustifica…“.

– Cristiano Tassinari, Euronews:
“…però c’è una bella fetta che, con i dovuti distinguo, li giustifica… È colpa dell’influenza mediatica, dei social? O è il mondo che è cambiato? Visto che parliamo di percezioni, lei che percezione ha?”

Enzo Risso, SWG:
Sicuramente il dato principale è il fatto che in questi anni si è affievolita la capacità di trovare il confine dell’accettabile o dell’inaccettabile. La Rete ci ha abituato che si può dire qualsiasi cosa, tanto non è nulla di grave… Si è affievolito questo confine, è come se le aree di libero insulto stessero prendendo sempre più piede e ci si abituasse alla tendenza ad estremizzare e usare un linguaggio che non è adeguato ad una società civile. E poi si viene in qualche modo ad affievolire quella coscienza di cosa è successo nella storia, cosa ha portato, gli eccessi di razzismo… Come se sempre di più si allontanassero quei fatti e non se ne riuscisse a tenere conto e a tenere a memoria i danni che hanno provocato“.

– Cristiano Tassinari, Euronews:
“Poichè la vostra è una ricerca sulle percezioni, all’allerta-razzismo corrisponde un aumento reale degli episodi di razzismo e discriminazione? Quanto conta il rilancio mediatico di episodi che di volta in volta vengono a galla, come il caso, ad esempio, di Liliana Segre? Esiste un aumento reale degli episodi di intollerenza?

Enzo Risso, SWG:
È abbastanza evidente, e credo che voi giornalistI lo testimoniate ogni giorno. È chiaro che ci sono minoranze che in questo momento si sentono più giustificate a far emergere il loro pensiero, perchè avvertono che quegli anticorpi, cosi forti in passato nella nostra società europea, oggi sono più deboli. E qui c’è un insieme di concause: non da ultimo il fatto che, in tutti i paesi europei, rispetto al tema immigrazione, c’è un aumento della recrudescenza e della spinta della dimensione di respingimento. Anche la dimensione di essere “prima noi”, “prima gli italiani, prima i tedeschi, prima gli spagnoli, prima i francesi….” è forte nel cuore del continente. E questo deve far riflettere“.

Estanislao, Drag Queen “Presidenziale”

Ormai è una celebrità, più del già celebre padre.

Estanislao Fernández è il figlio di Alberto Fernández, neo eletto Presidente dell’Argentina. Estanislao Fernández ha 24 anni e sul suo profilo Instagram, con il nome d’arte “Dyhzy” (190.000 followers, crescono di migliaia di unità giorno dopo giorno), si autodefinisce Drag Queen, Cosplayer e Streamer. Era già un personaggio nel nostro mondo, soprattutto in Sudamerica, ora “rischia” di diventare davvero un Vip. Il bello è che Estanislao ha un ottimo rapporto con il papà Presidente e con tutta la famiglia, a tal punto che il numero 1 dell’Argentina ha recentemente dichiarato: “Mio figlio è una delle persone più creative che abbia mai conosciuto“. E alla domanda, scontata, sul fatto che Estanislao possa essere una presenza “ingombrante” per la sua attività politica, il Presidente ha cosi risposto: “Mio figlio è un attivista per i diritti della comunità LGBT. Mi preoccuperei se fosse un criminale, ma è una bella persona. Sono molto orgoglioso di Estanislao“.
Naturalmente papà e figlio Fernández sono abituati a qualche critica e sfottò “social” di troppo, dall’opposizione argentina o da Eduardo Bolsonaro, figlio del Presidente brasiliano, ma loro non ci fanno caso e tirano dritto per la loro strada: Alberto Fernández per risollevarsi le sorti, soprattutto economiche, di un grande paese perennemente in crisi come l’Argentina e Estanislao nella sua vita di tutti i giorni, vive con la fidanzata in un appartamento di Buenos Aires, lavora come impiegato in una compagnia di assicurazioni, studia design e si diverte a vivere la propria vita, sempre se stesso, anche se sotto un travestimento.

Di entrambi, padre e figlio, ne sentiremo ancora parlare, ne siamo certi.

 

La “sporca guerra”, così difficile da capire

La “sporca guerra” contro i curdi

Dopo il dietro-front di Trump e l’immediato attacco della Turchia ai curdi, ora la situazione della “sporca guerra” al turco-siriano è cosi delineata: i territori sono sotto l’amministrazione turca, con una importante supervisione russa – sono appena cominciati i pattugliamenti congiunti tra truppe di Ankara e di Mosca -, i curdi delle milizie YPG sono stati ricacciati indietro, oltre il “cuscinetto” di sicurezza voluto da Erdogan, il “Califfo” dello Stato Islamico Al-Baghdadi si è fatto saltare in aria e il Presidente siriano Assad non si fida di Erdogan e tifa per Putin.
Ma quello che succede da anni in Siria e come viene raccontato è l’ennesima prova del fatto che, per fortuna, noi la violenza della guerra la guardiamo da lontano e rischiamo di banalizzarla e non comprenderla. Non solo in Europa ma anche nei Paesi coinvolti in questa guerra direttamente.
Senz’altro coloro che attuano la guerra la legittimano attraverso i loro scenari pubblici. La legittimazione ovviamente ha bisogno di una forte propaganda e cresce facilmente su un terreno fertile. La Turchia da questi due punti di vista è un grande laboratorio.

Legittimare la guerra

L’attuale governo di Ankara sostiene di portare avanti una causa sacra e santa: la lotta contro il terrorismo. Per comprendere meglio questa legittimazione bisognerebbe guardare alcune dinamiche politiche ma anche sociologiche dominanti all’interno della società turca. Altrimenti si rischia di cadere nella banalità della “guerra tra i Turchi e Curdi”.

Una “vera” lotta contro il terrorismo

Le formazioni armate come YPG, YPJ e SDF insieme al partito politico PYD che hanno lottato contro le barbarie dell’Isis sono anche i difensori del confederalismo democratico. Si tratta di un progetto rivoluzionario ideato in parte dal filosofo socialista libertario Murray Bookchin e elaborato da Abdullah Ocalan, leader storico del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), formazione armata definita come  “organizzazione terroristica” dalla Repubblica di Turchia e non solo. Ocalan è stato arrestato nel 1999 e rinchiuso in un carcere speciale, in isolamento, in un’isola nel Mar Marmara e condannato all’ergastolo.

E’ impossibile negare il legame tra le forze armate e politiche attive nel Nord della Siria con il PKK. La Turchia, attraverso numerosi governi, in questi ultimi 40 anni circa ha sempre portato avanti la lotta armata contro il PKK. In quest’ottica è “comprensibile” la posizione del governo di Ankara nel voler entrare in Rojava e “pulire il confine dai terroristi”.

Un’identità nazionale dominante

I conti rimasti in sospeso nei confronti di tutti quelli che non sono turchi-musulmani-sunniti ed eterosessuali, insieme alla “lotta contro il terrorismo” mescolata con la storia del “curdo separatista”, fanno sì che nella testa e nel cuore del cittadino ultra-nazionalista l’invasione del territorio siriano sia legittima.

Una società-esercitoA questo punto conta molto il ruolo del sistema scolastico ed il profilo sociologico fortemente militarista e nazionalista della società civile turca. E’ importante sottolineare che l’insegnamento della storia è fortemente ottomano-centrico e legittima tutte le guerre del vecchio impero. Contano molto l’inno nazionale che si canta ogni mattina, “il giuramento della gioventù turca al Padre fondatore della Repubblica”, le lezioni di “sicurezza nazionale”, contano persino i calciatori della nazionale turca che, in giro per l’Europa, festeggiano i loro buoni risultato facendo il saluto militare. Farina del loro sacco o sono stati obbligati?

Questo tema della società-esercito era stato messo in discussione da Hrant Dink, giornalista assassinato nel 2007, che parlava nei suoi articoli di come gli stessi cittadini armeni della Turchia siano stati sempre e solo visti come “una minaccia per la sicurezza nazionale” e della possibilità di convivenza pacifica con gli armeni, che passerebbe attraverso lo scardinamento di questi meccanismi paranoici. Questi stessi meccanismi, durante la rivolta del Parco Gezi nel 2013, erano alla base della campagna schizofrenica portata avanti dai media mainstream, secondo i quali erano le “forze straniere che avevano ideato e acceso i tafferugli”.

La spettacolarizzazione della guerra

Così diversi elementi della propaganda della guerra trovano successo nel trasmettere il loro messaggio con l’obiettivo di rafforzare il consenso popolare a favore delle politiche del governo centrale.

Un esempio di questi strumenti è ovviamente la televisione. “Milletin Duasi” è la “Preghiera della Nazione”, una canzone scritta e composta da Ibrahim Kalin, il portavoce del Presidente della Repubblica. Il video per questa canzone è stato realizzato dalla casa di produzione audiovisiva, Poll Production, in occasione dell’intervento militare in Siria nel 2018.
La canzone è stata animata da diversi cantanti molto famosi, veterani ed emergenti, di diversi generi musicali. Finora, su YouTube, circa 5 milioni di persone hanno visto questo video. Nel testo leggiamo delle frasi come: “Il popolo fa da scudo ai soldati in guerra che soccorrono gli oppressi. I soldati lottano con l’amore per la patria e rendono la vita insopportabile al nemico”.
Attraverso questo tipo di linguaggio e produzione audiovisiva si spettacolarizza la guerra e la si rende gloriosa. Forse persino piacevole, oltre che giusta.

Anche il linguaggio dei servizi televisivi in Turchia diventa di un certo tipo, durante la guerra. “I nostri gloriosi soldati sono in spedizione alla caccia dei terroristi. Le postazioni dei terroristi sono state colpite una per una. I terroristi escono dalle fogne e vengono presi dai soldati dell’esercito”.
In un servizio da tre minuti vengono aggiunti i rumori dei fucili nel sottofondo e dei carri che sparano, grandi scritte con il numero di “terroristi uccisi” vengono sovrapposte sulle immagini e l’avversario/il nemico viene definito come “traditore”. Così il popolo, nella sua casa calda, guarda a distanza, in tv, la guerra e l’uccisione del “brutto” come se fosse un videogioco.

La legittimazione e la spettacolarizzazione della guerra viene inculcata anche nelle teste degli studenti. In diverse città, in numerose scuole, gli allievi, nei cortili degli edifici scolastici fanno delle dimostrazioni a favore della guerra. Comporre la parola “Afrin”, disegnare con i corpi il “Ramoscello d’ulivo” oppure reggere delle gigantesche bandiere della Turchia. Non mancano ovviamente i canti collettivi dei brani ultranazionalisti che citano delle frasi come: “Ci siamo immersi nel sangue rosso per l’indipendenza. Abbiamo fatto capire al resto del mondo che il Turco è un soldato. Questo paese è turco e tutti si innamorano di questa nazione”.

Curdi, cento anni di di lotte e promesse mancate

E i curdi, i “deboli”, le vittime di questa situazione, di questa guerra?
Ai tradimenti i curdi sono abituati. Il ritiro degli Stati Uniti dalla Siria deciso da Trump, seguito dall’offensiva turca, è solo l’ultimo di una lunga serie. Il grande Kurdistan, sogno cullato da uno dei più grandi gruppi etnici senza uno stato, è sempre rimasto sulla carta.
Il primo tradimento è storia di quasi cento anni fa. È il 1920: il trattato di Sèvres sancisce la fine della prima guerra mondiale e dell’impero ottomano, ai curdi viene promessa la concessione di uno Stato autonomo nell’altopiano del Kurdistan.

Tre anni dopo a Losanna Regno Unito, Francia e Stati Uniti si rimangiano la parola, dando il via libera alla creazione di altri stati. Da quel comento comincia una storia costellata da delusioni cocenti e successi fugaci come la Repubblica di Mahabad, fondata nel 1946 e durata appena 11 mesi prima di essere rasa al suolo da Teheran.

Il 1972 è l’anno del primo tradimento americano. Lo Scià di Persia, Mohammad Reza Pahlavi, chiede agli Stati Uniti di appoggiare la rivolta dei curdi in Iraq. Il presidente americano Richard Nixon e il segretario di Stato Henry Kissinger accolgono la richiesta. Gli Usa armano i ribelli per destabilizzare Baghdad, ma tre anni dopo Iran e Iraq trovano un accordo e i curdi vengono lasciati al loro destino.

Il 1978 è l’anno di nascita del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) di Abdullah Ocalan. Il nord dell’Iraq diventa l’avamposto per la  guerriglia contro Ankara: un conflitto destinato a segnare i quattro decenni successivi.

Negli anni ’80 i curdi si ritrovano ancora una volta in mezzo al conflitto tra Iran e Iraq. Saddam Hussein dà inizio al genocidio che culmina con l’attacco chimico di Halabja, dove muoiono circa 5mila persone.

La guerra del golfo nel 1991 rappresenta il secondo tradimento americano. Saddam reprime nel sangue la rivolta curda incoraggiata da Bush senior. I curdi sono costretti a rifugiarsi nelle montagne tra Turchia e Iraq. Se non altro gli Stati Uniti impongono una no-fly zone per salvarli dai bombardamenti: un accordo durato fino all’invasione americana del 2003 voluta da Bush junior.

Il resto è storia recente. Nel 2011 la guerra civile in Siria permette ai curdi siriani di formare un’amministrazione autonoma nel nord-est del Paese. Gli Stati Uniti gli danno man forte per combattere l’Isis. Un’alleanza finita con un altro tradimento.

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La violenza della guerra (a cui ormai siamo abituati)

Il ritratto della storia dei curdi aiuta a comprendere l’atteggiamento aggressivo dei turchi nei loro confronti.

L’idea di una guerra “giusta, legittima e obbligatoria” rischia di far dimenticare alle popolazioni che comunque si tratta di un’azione violenta. Anche se contro gli odiati curdi. Ma questo è un “dettaglio” che importa ben poco al governo centrale che vuole ottenere un capillare sostegno. Quindi è necessario che ci sia un’entusiasmo collettivo in tutta la nazione. Facendo così, si può tranquillamente parlare del grande piacere (?) che si prova nell’uccidere le persone.

A questo punto si ricorda un grande prodotto cinematografico, “Benny’s video” del regista Michael Haneke. Film prodotto nel 1992, fa parte di una trilogia chiamata “della glaciazione” e cerca di raccontare come ormai le guerre vengono trasmesse in diretta e le persone vengono sottoposte sistematicamente alle immagini della violenza in un modo senza precedenti. Quindi, secondo Haneke, il mondo è vicino, più che mai, alle immagini di violenza e questo fatto rischia di annullare la distanza che dovrebbe esserci tra gli individui e la violenza reale.

Secondo il sociologo francese, Jean Baudrillard, le masse che non si pongono nessuna domanda sulla violenza che comprende la guerra guardano tutto come se assistessero ad uno spettacolo. Baudrillard fa un passo più avanti e sostiene che oggi, se non ci fossero i media, non ci potrebbero essere le guerre. Perché sono i media che diffondono “lo spettacolo della violenza”, rendendo la guerra una “goduria” di massa. E’ cosi che nasce il concetto di “pornografia della guerra”. Baudrillard sostiene che oggi la guerra sia l’alimento principale dei media e delle politiche repressive dei governi.

Rimanendo fedeli a questa lettura riusciamo a comprendere meglio perché le operazioni militari in Siria, volute dal governo di Ankara, si chiamino “Ramoscello d’ulivo” e “Sorgente di pace”…

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Sessismo della resistenza e occidentalizzazione della lotta

Non credo che sia fuori luogo parlare dell’eventuale lavoro di spettacolarizzazione della guerra anche quando si parla dell’altra parte del confine. In questi ultimi anni l’immagine della “giovane e bella ragazza curda” ha riempito le nostre bacheche su Facebook, le copertine delle riviste e qualche volta anche il podio delle sfilate di moda. Con i suoi occhi blu, capelli pettinati e viso truccato la “resistente curda” veniva presentata quasi sempre priva di velo.

Infatti, nel 2016, le due importanti ufficiali delle Unità di Protezione delle Donne (YPJ), Jiyar Gol e Güney Yildiz hanno rilasciato un’intervista alla BBC parlando così: “Siamo rimaste deluse dalla rappresentazione sessista delle nostre compagne dai media occidentali”. Jiyar e Guney sottolineavano che facendo così i media distraevano il pubblico, allontanando l’attenzione dalle informazioni legate all’ideologia della loro lotta.

A questa riflessione va aggiunto anche il caso di Ahed Tamimi, la ragazza palestinese che diventò famosa grazie a un video del 2017 in cui aggrediva due militari israeliani dopo aver saputo che il cugino di 15 anni era stato ferito da un colpo alla testa ravvicinato durante una  protesta. Condannata a 8 mesi di carcere e diventata il “simbolo della resistenza femminile palestinese”. Tuttavia, in Palestina, a resistere alle violenze non c’è soltanto Ahed.
La storia della resistenza femminile palestinese è piena di nomi importanti, come Naila Ayesh oppure Khalila Ghazal e Nimat Al Alami. Tuttavia una ragazza bianca, con un viso attraente e senza velo, forse corrisponde meglio ai canoni di bellezza occidentali e quindi risponde alle nostre “esigenze” ed “aspettative” da una donna resistente. Se fosse così, ovviamente anche qui si sentirebbe una forte puzza di sessismo, di “omologazione” e “normalizzazione”.

Quindi, grazie ad una serie di meccanismi di propaganda in tutti questi casi di guerra, di lotta contro il terrorismo oppure di resistenza contro gli occupanti, rischiamo di staccarci dalla realtà e di essere soltanto gli spettatori della simulazione. Una simulazione priva di veri contenuti della realtà, che soddisfa le nostre necessità assetate di sangue, scontro, violenza e sessismo. Che, purtoppo, nella realtà non mancano. Anzi.

Val Chisone, la montagna in bianco e nero

Ma com’è bella, sempre, la mia valle, in ogni stagione, dall’alba al tramonto. Di lei conosco tutto, le vette, i laghi, i canaloni, le praterie, le bergerie, i ponti, i guadi, le sorgenti, le fontane, i riu. Ma soprattutto i paesi e la gente“.

Inizia cosi l’introduzione di Claudio Bonifazio, fotografo “di alta quota”, al suo libro fotografico – interamente in bianco e nero – intitolato “Volti e Risvolti – Percorsi fotografici in Val Chisone” (Marco Valerio Editore).

Sono le parole di Riccardo Breuza, arrivato a Villaretto, nel cuore della Val Chisone, una delle valli più affascinanti del Piemonte, nel 1985.
Professione: impiegato dell’ufficio postale.
Segni particolari: amante della montagna.
Punto di riferimento: l’associazione culturale “La Valaddo”.

Ho fatto tesoro della lezione di Riccardo Bauza“, racconta Claudio Bonifazio, “per questo lavoro che parte da una domanda: come si fa a trasmettere l’amore per la montagna, per i borghi, i suoi abitanti e le sue tradizioni, per le praterie, i fiori, gli animali, i sentieri e le cime? Ho provato a farlo: ed è questo il senso di questa mia raccolta di fotografie, per raccontare, con un pizzico di magia, grazie alla fotocamera, ciò che la montagna ci regala“.

– E che cosa ha scoperto, tra i regali della montagna?
Il mio è stato un piccolo viaggio in un mondo che, per certi versi, è rimasto quello antico delle vecchie borgate, percorsi di transumanza, avvistamenti di flora e fauna, ambienti estivi e invernali. Un mondo di gente fiera, legata alla proprie tradizioni, tanto da tramandare di generazione in generazione usi e costumi del passato. Ma è anche un mondo che, dopo la spopolamento dei decenni passati”, conclude Claudio Bonifazio, “sta lentamente tornando ad essere abitato da chi, per scelta, vuole fare dell’ambiente montano il proprio spazio di vita”.

Photo Claudio Bonifazio