Ustica, 40 anni dopo

Venerdì 27 giugno 1980.
Una data che gli italiani non dimenticano, un giorno in cui tutti gli italiani ricordano quello che stavano facendo nel momento esatto appresero la terribile notizia: l’aereo DC9 in volo da Bologna a Palermo precipita all’altezza di Ustica, portandosi con sè, nell’abisso, la vita di 81 persone.

Sono trascorsi quarant’anni, da quella sera.
Quarant’anni sono un lasso di tempo oggettivamente inaccettabile per accertare le verità di una simile strage, eppure alla Procura di Roma c’è tuttora una inchiesta aperta per stabilire cause e responsabilità dell’esplosione di quel’aereo diventato cosi tristemente famoso. 

Il DC9 Itavia decolla dall’aeroporto di Bologna alle 20.08 con due ore di ritardo, a causa di un violento temporale.
A bordo ci sono due piloti, due assistenti di volo e 77 passeggeri, tra cui 13 bambini.

Dopo il temporale, il cielo è tornato limpido.
Ma affollato di caccia di molte nazioni: americani, francesi, inglesi e, naturalmente, italiani.

È un momento storico nel quale il Mar Mediterraneo è uno dei luoghi più pericolosi del pianeta.
E il colonnello Muammar Gheddafi, uomo forte della Libia, all’epoca è considerato il nemico pubblico numero uno dell’Occidente.

La rotta dell’aereo prevede il sorvolo dell’Appennino e, secondo le perizie radaristiche, è proprio in quella zona che avvengono i primi episodi sconcertanti di questa storia.

Primo episodio. Il DC9 viene agganciato da un altro velivolo, quasi certamente un caccia e, forse, un Mig libico (tre settimane dopo ne verrà “ufficialmente” rinvenuto uno precipitato sulla Sila), che si mette nella scia dell’aereo dell’Itavia per nascondersi ai radar.

Secondo episodio. Due intercettori F104 dello stormo dell’Aeronautica di Grosseto incrociano il DC9 e rientrano alla base segnalando un’emergenza, come previsto dal manuale Nato: volando in modo triangolare sull’aeroporto mentre inviano segnali muti premendo il pulsante della radio.
I piloti dell’F104 che dà l’allarme sono Ivo Nutarelli e Mario Naldini.
Hanno visto l’intruso? Sì, perché volavano “a vista”.
Ma non potranno mai raccontarlo.
Come rivela Andrea Purgatori nella sua ricostruzione per “Il Corriere della Sera”, prima di essere interrogati dal giudice Rosario Priore i due piloti Nutarelli e Naldini moriranno a Ramstein, in Germania, dove si scontreranno uno contro l’altro durante un’esibizione delle Frecce Tricolori finita in tragedia.
Era il 28 agosto 1988.
Erano passati otto anni dalla strage di Ustica. E in tutto quel tempo non erano ancora stati ascoltati in qualità di testimoni…

Intanto il DC9 continua la sua rotta verso Sud.
E il controllo del traffico aereo di Ciampino lo segue. Ma la traccia è a zigzag e i periti la interpreteranno come doppia, confermando la presenza del secondo velivolo sconosciuto in scia.
Fino al cielo di Ustica. 

Pochi secondi prima delle 21, il co-pilota dell’Itavia dice quell’ultima frase, completata da una nuova analisi compiuta sulla registrazione del voice recorder: “Guarda cos’ è…“.
Poi l’esplosione e il silenzio.

Cosa è accaduto? Cosa hanno visto i piloti del DC9?
Secondo i periti italiani e americani, la ricostruzione delle tracce radar indica che, in quell’istante, almeno un altro caccia non identificato appare sulla scena. L’obiettivo non è, ovviamente, l’aereo civile, ma l’intruso che si nasconde dietro.
Ma a finire in mare è il DC9 Itavia, con il suo carico di inconsapevole umanità. 

Molti testimoni, in punti diversi della Calabria, raccontano che l’aereo l’intruso tenta la fuga, inseguito da due caccia. La direzione è quella che porta al luogo nel quale verrà rinvenuto il Mig23 libico.
E l’autopsia sul cadavere del pilota rivelerà che non è morto il 18 luglio, giorno del ritrovamento ufficiale, ma tre settimane prima: la sera del 27 giugno 1980. 

Dopo quarant’anni, la memoria e le commemorazioni non bastano più.
Né bastano i risarcimenti stabiliti dai tribunali che hanno condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti, certificando che ad abbattere il DC9 Itavia fu un missile.
Soprattutto se c’è in ballo il dolore di 81 famiglie e la loro sacrosanta pretesa di avere giustizia.

“Mafia Entertainment”: Esiste ancora un legame stretto tra mondo dello spettacolo e criminalità?

Esiste ancora un legame stretto, al giorno d’oggi, tra il mondo dello spettacolo e la mafia?
I cantanti più famosi e i boss più potenti vanno ancora amichevolmente a braccetto?

Succedeva ai tempi di Frank Sinatra (papà catanese e mamma genovese) e di Dean Martin (al secolo Dino Paul Crocetti, originario di Montesilvano, in Abruzzo) e potrebbe accadere anche ora, pure se con una visibilità minore e meno planetaria (anche per non dare troppo nell’occhio). 

Il tema è in tornato d’attualità in questi giorni con l’arresto per associazione di stampo mafioso dell’imprenditore Giorgio De Stefano, titolare di diversi locali a Milano, figlio di un boss della mafia calabrese, Paolo Di Stefano, assassinato nel 1985.

Giorgio De Stefano è anche il compagno di Silvia Provvedi, una delle “gemelle” modenesi – l’altra è Giulia – che compongono il duo musicale “Le Donatelle”: dalla relazione dei due è nata da pochi giorni la piccola Nicole.

Silvia sembra avere una certa passione per i “bad boys“, visto che in precedenza era stata fidanzata con il noto fotografo Fabrizio Corona, al centro di numerose inchieste giudiziarie.
Amori avventurosi o è soltanto voglia di paparazzi e di copertine (che possono essere utili per la carriera da cantante)?

Tornando alla vicenda giudiziaria di Giorgio De Stefano, l’operazione – denominata “Malefix” – è stata condotta dalla polizia contro le cosche De Stefano-Tegano e Libri di Reggio Calabria. Sebbene sia incensurato, per gli investigatori De Stefano “è da ritenersi il più valido rappresentante delle propaggini operative della cosca” a Milano. Sarebbe stato inviato al Nord dalla famiglia proprio per “ripulire” il denaro della cosca attraverso alcune attività lecite nel mondo dello show-business.

Proprio a causa del legame con la cantante Silvia Provvedi, De Stefano è apparso su alcune riviste descritto come “famoso imprenditore calabrese che viene da una importante famiglia, si divide fra la Calabria, Milano ed Ibiza ed è tra i soci proprietari del Ristorante Oro di Milano”.
La “notorietà” ottenuta da De Stefano, rileva il gip nell’ordinanza, non era sfuggita a Alfonso Molinetti, ritenuto esponente di spicco della cosca, che – intercettato – aveva invitato il giovane “alla massima cautela”, sollecitandolo a una minore ostentazione dei propri beni e a uno stile di vita meno appariscente. Proprio per non “dare troppo nell’occhio”. 

Ma forse sono i boss della mafia ad aver bisogno dei cantanti, non soltanto per questioni economiche – ormai di dischi se ne vendono pochi, al massimo per concerti privati a matrimoni ed altri eventi – ma soprattutto per provare a “ripulire” la loro immagine.
Lo spunto ci arriva dalla storia di Niko Pandetta.
Chi è Niko Pandetta? Ha 29 anni, è un cantante neomelodico di Catania, nipote di Turi Cappello, boss di “Cosa Nostra” che sta scontando l’ergastolo in regime di 41 bis. Allo “zio Turi”, Pandetta ha dedicato una canzone per ringraziarlo di avergli “insegnato a vivere con onore”. Il brano ha collezionato oltre 3 milioni di visualizzazioni su Youtube e lo stesso Pandetta, che ha già scontato dieci anni di carcere per furti e rapine, ha una miriade di followers sui social. “La mafia non esiste”, ha dichiarato il cantante, in un recente “incontro ravvicinato” con un giornalista (che non ama particolarmente). 

Un caso a parte, forse persino un mondo a parte, è quello dei neomelodici napoletani.
Un vero e proprio fenomeno sociale, celebrato anche in alcune fiction di successo come “Gomorra”, storia tratta dal celebre romanzo di Roberto Saviano.
Massimo Ravveduto, docente universitario, storico e saggista, è uno dei maggiori studiosi del fenomeno dei neomelodici e della cosiddetta “Camorra Entertainment”.
“Il rapporto tra musica e malavita è ancora forte, anche se non cosi diretto. È il pubblico a decretare il successo del cantante. E quindi di chi lo protegge. C’è la ricerca del divo pret-a-porter, sempre più a portata di mano, anche grazie alla disintermediazione dei social network. La simbologia dei video musicali, spesso, è sempre la stessa: pizza, mare, spiaggia e religione, con i protagonisti che esibiscono la medaglietta della Madonna o il Crocefisso”. 

Una delle storie più glamour degli ultimi tempi nell’intreccio dei mondi della musica e della mafia è quella di Tony Colombo e Tina Rispoli.
Lei, 43 anni, è la vedova di Gaetano Marino, freddato con undici colpi di arma da fuoco nell’agosto 2012 sulla spiaggia di Terracina. Marino era il boss degli “Scissionisti”, protagonisti di una sanguinosa guerra di camorra con il clan Di Lauro, in quella che è tristemente conosciuta come la “prima faida di Scampia”.
Lui, Tony Colombo, è uno dei più famosi cantanti neomelodici. Si innamorano e si sposano, nel gennaio 2020 (in mezzo anche un attentato alla casa discografica di Colombo): un matrimonio faraonico, a Napoli, al Maschio Angioino, ma – pare – senza le necessarie autorizzazioni per il fastoso corteo di amici e parenti, cosa che sembra abbia infastidito non poco lo stesso sindaco De Magistris. E poi tutti al party in un castello già reso famoso per un programma televisivo che, guarda caso, s’intitola “Il Boss delle Cerimonie”… 

Ma i boss della mafia ascoltano veramente le canzoni dei cantanti neomelodici, come si vede spesso in “Gomorra”?
Come scrive nel suo saggio “Cosa Nostra Social Club”, Goffredo Plastino – docente di Etnomusicologia all’Università di Newcastle (Inghilterra) non esiste un genere musica “malavitoso”.
“I mafiosi ascoltano ciò che ascoltiamo noi. L’idea che sia possibile circoscrivere generi e repertori musicali sulla base di categorie come “i mafiosi”, musiche che dovrebbero inoltre riflettere e ribadire i comportamenti di chi le ascolta, è davvero senza senso: dovrebbe essere possibile, allora, affermare che esistono repertori specifici per gli idraulici, i librai e i professori ordinari, e questi ultimi ascolterebbero pertanto solo canzoni su come si svolgono i concorsi universitari… un’assurdità! Basti pensare che nel covo di Bernardo Provenzano, la polizia ha trovato registrazioni della sigla di Beautiful e di canzoni di Claudio Villa, Bruno Lauzi, Julio Iglesias e Mina”. 

Ma cosa ci guadagnano i boss ad “affiancare” i cantanti e viceversa?
Per i cantanti è molto spesso solo una questione di sopravvivenza, per guadagnarsi da vivere. Per i boss è un piacere poter associare la loro immagine a quella di un cantante apprezzato dal pubblico. Una volta accadeva persino con Maradona, no? In fondo, anche molti politici chiamano i neomelodici a cantare ai loro eventi…. 

Dean Martin, Judy Garland e Frank Sinatra.