L’incredibile fenomeno dello “smart working”: adesso ho provato anche io!

Adesso posso dirlo: so anch’io che cos’è lo “smart working”. 
Lavoro intelligente, lavoro agile, semplicemente lavoro da casa. 
Prima in Italia quasi non esisteva, ora è diventata un’esigenza “di moda”. Tutta colpa del Coronavirus, naturalmente. E cosi, per mesi e mesi (anche ora che il peggio è passato), chi ha avuto la fortuna di non perdere il lavoro nei 50 e passa giorni di quarantena, si è ritrovato a lavorare da casa. Magari fianco a fianco con un altro coniuge in “smart working” anche lui e magari pure gomito a gomito con uno o due figli in D.A.D. (per intenderci: la didattica a distanza), Un intasamento mostruoso di computer, cellulari e reti tecnologiche! E che stress! Non è tutto oro quello che luccica (nel lavoro da casa)…
Finalmente (e dico finalmente perchè si tratta sempre di lavoro, evviva il lavoro!) ho provato anch’io l’ebbrezza del lavoro da casa. In realtà, da un ufficio vicino a casa, utilizzato appositamente per il mio lavoro di tele-giornalista (si, lavoro per una tv, ma in questo caso è inteso come lavoro da casa!), con tanto di wi-fi, fibra ad altissima velocità, cavo di rete e roba del genere, con un computer portatile nuovo di zecca, con i Ram giusti, la scheda grafica giusta e il numero giusto di Windows.
Ho appena finito il terzo giorno di “smart working”, è quasi mezzanotte. Che devo dirvi? Che mi piace da impazzire? No, perchè non sarebbe vero.
Il primo giorno l’ho passato inchiodato alla poltrona, troppo teso perchè tutto filasse tecnicamente per il verso giusto (è andata!). Poi mi sono un po’ sciolto, è vero, ma qui si rischia davvero di diventare degli eremiti asociali, senza mai parlare con nessuno, senza avere uno scambio di opinioni alla macchinetta del caffè con chicchessia. Oddio, si può sempre scendere al bar di fronte e importunare la barista, e soprattutto si può scegliere chi frequentare, a volte meglio nessuno che un collega non il più simpatico del mondo. Questo si. Non nego, del resto, che lo “smart working” abbia i suoi lati positivi: si può andare al lavoro con la barba lunga e con i pantaloncini corti, non si spende niente in vestiti nuovi e in pause-pranzo (vado a mangiare a casa! Ma i baristi si lamentano…) e in abbonamenti per i mezzi pubblici o per la benzina della macchina, si può stare al calduccio invece di uscire alle 7 di mattina d’inverno, qualcuno si guarda addirittura le repliche del tenente Colombo in tv mentre sta “telelavorando”, mettendo a repentaglio la proprio produttività giornaliera…

Io, ammetto, di aver lavorato tanto, persino troppo, senza quasi un attimo di cazzeggio. Sempre inchiodato alla scrivania, alla poltrona, una roba da vero “culo seduto”, solo in compagnia delle zanzare, del cellulare e del ventilatore, sempre con gli occhi puntati su questo maledetto schermo. Troppo.
Nei giorni successivi ho addirittura lavorato alle 5 di mattina. Roba strana. Uscire in orario antelucano per fare 200 metri di macchina e arrivare in ufficio. Quasi quasi potevo andarci in pigiama e ciabatte…
Poi, però, ho saputo che il macellaio – che abita di fronte al mio studio e ha il negozio subito sotto – si è lamentato perchè avrei fatto casino all’alba… Beh, non posso mica dire a Euronews “scusatemi, ma non posso più lavorare perchè il macellaio non vuole”…il suddetto macellaio se ne farà una ragione, no?
Comunque,
non è cosi divertente lo “smart working”, ma è un fenomeno sociale di cui tenere conto, perchè il futuro – anche dopo la fine del virus – sarà sicuramente quello. Anche le aziende risparmiano, in trasferte e alloggi, per esempio, in caso di viaggi di lavoro. E lo “smart working” è già anche il presente, è evidentissimo.
Proviamo a fare buon viso a cattivo gioco?
Proviamo, si. Del resto, finchè c’è lavoro c’è speranza. E pazienza se ci siamo solo io e il computer. 

Quasi quasi, però, vado a cercarmi un lavoro manuale…