Mese: Dicembre 2020
Io che detesto l’aspirapolvere
Se c’è un oggetto domestico che detesto, questi è sicuramente l’aspirapolvere. Non perchè non sia un amante del pulito – è un elettrodomestico che ho usato spesso e non volentieri durante la mia vita da scapolone -, quanto per il fatto che il suono (anzi: il rumore) dell’aspirapolvere mi ricorda momenti poco piacevoli: avete presente quando vostra moglie passa cinque volte al giorno l’aspirapolvere? Di solito lo fa in momenti della giornata in cui, un bravo onesto marito lavoratore è al lavoro e, quindi, non sente il rumore e nemmeno vede l’aspirapolvere agitarsi avanti e indietro a caccia di “gatti” di polvere. Se, invece, lo senti e lo vedi, vuol dire che – in quell’esatto momento, ripetuto più volte al giorno – sei in casa a non far nulla, a sciabattare tra divano e televisione, come nella peggiore deprimente tradizione da disoccupato.
Per cui, per me, vale l’equazione aspirapolvere = disoccupazione, perciò potete immaginare quanto io detesti quell’elettrodomestico (nel mio caso, di color verde).
In condizioni normali, è ammesso l’uso dell’aspirapolvere persino alla domenica mattina. Ma dal lunedi in poi, no, per favore.
A me che io non sia al lavoro.
Buona pulizia a tutti!
Quando il Vaticano mi rubò il coltellino svizzero
La storia del Vaticano e del coltellino svizzero mi è venuta in mente qualche giorno fa, mentre Papa Francesco stava celebrando la Messa di Natale in una Piazza San Pietro desolatamente vuota, per i ben noti motivi.
Ebbene, qualche anno fa – era il giugno 2013, appena tre mesi dopo l’elezione di Jorge Bergoglio a Pontefice – mi recai in pellegrinaggio (giornalistico!) a Roma e a Città del Vaticano con una delegazione di pellegrini gesuiti, che avevo conosciuto grazie all’amico Luca Rolandi. Un bel viaggio in pullman durante la notte, da Torino a Roma, e alla mattina belli freschi (si fa per dire!) per l’udienza nella sala Nervi-Paolo VI del Vaticano, alla presenza dello stesso Papa Francesco, all’epoca al massimo del suo splendore e delle nostre speranze riposte in lui.
Ma la storia curiosa che voglio raccontarvi riguarda il mio coltellino svizzero, che porto sempre con me: conscio che non avrebbe passato il controllo del metal-detector vaticano, sotto l’occhio vigile delle guardie altrettanto svizzere, penso bene di nascondere il rosso coltellino – che ha dimensioni davvero ridotte – in un anfratto di una scalinata al di fuori del perimetro di Piazza San Pietro, sempre nel territorio del Vaticano, ma fuori dalle mete turistiche. E, poi, soprattutto: un angolo cosi nascosto, che solo io sapevo di averci nascosto il coltellino svizzero.
Mi guardo attorno: nessuno in vista, nessuno mi ha visto.
E invece…
Fatto sta che, finita l’udienza papale e finiti i convenevoli, le strette di mano, le benedizioni e le fotografie, mi catapulto a recuperare il mio coltellino: ovviamente, è sparito!
Volatilizzato!
In questo mondo di ladri, anche in Vaticano!!!
Non è certo per il valore dell’oggetto, ci mancherebbe altro, ma pensare che ci sia stato qualche ladruncolo anche in Vaticano mi rattrista un po’. Oppure, forse, anzi no: quasi quasi, mi fa sembrare quel posto più umano e meno celestiale di quello che sembra, quindi persino più simpatico.
Chi me l’avrà fregato? Un altro turista? O, magari, un cardinale?
Chissà…
Poi il coltellino svizzero me ne sono ricomprato un altro, ma volete mettere il gusto raccontare una storiella cosi?
La fine del mondo, 8 anni fa…
Sono passati otto anni dal fallimento della nefasta previsione dei Maya sulla fine del mondo.
Ve la ricordate? La data funesta doveva essere il 21.12.2012. Invece, siamo ancora qui. Per fortuna.
Oddio, non che l’anno 2020 sia andato bene, anzi, è andato malissimo, per certi versi è stato definito “la fine del mondo”, ma il mondo non è proprio finito. Siamo ancora vivi (almeno noi che scriviamo e che leggiamo).
Ricordo che quel giorno, facendo finta di niente, andai al lavoro come se niente fosse, ma camminando al buio del mattino, ricordo che la luce dei lampioni si spegneva al mio passaggio. Solo suggestione? Un avvertimento? O era l’orario previsto per lo spegnimento dell’illuminazione pubblica?
Mia moglie, tornando a casa dal lavoro quella sera verso le 21.12, rimase molto perplessa e forse un pelo spaventata (anche se non lo confesserà mai) nel notare delle strane luci in cielo… Gli Ufo? I Marziani? Gli alieni? Gli stessi Maya?
Solo l’indomani si seppe che erano lanterne rosse, lanciate in aria per chissà quale festa.
Ma, intanto, era già il 22 dicembre e, insomma, si, il pericolo era già scampato.
Siccome sono un animale da social, ho postato su Facebook un post sul significato di questo “ritardo” (o, per meglio dire, “bufala”) nell’effettivo avvenimento previsto e – non verificatosi – dai Maya. La domanda è: “Cosa ne pensate del fatto che otto fa doveva finire il mondo e, viceversa, siamo ancora qui? Che significato ne traiamo?”
Vi riporto alcune risposte, tra le più curiose e disparate.
Eccone alcune:
“Avevano sbagliato di poco”, “I Maya l’avevano fatta fuori”, “La fine del mondo era a rate”, “Usavano roba poco buona”, “Volevano dire 2020” e la stupefacente “I Maya hanno detto che nel 2012 iniziava la fine del tutto, ma non hanno mai detto quanti anni ci volevano”…
E adesso vi lancio una provocazione: e se la vera fine del mondo, causa leggero errori di calcolo di quei pasticcioni dei Maya (che avrebbero invertito i numeri), fosse il 21.12.2021?
Finirà così…
Ve lo ricordate lo spot sull’AIDS? “Se lo conosci lo eviti”? Con il tizio “contagioso” che veniva segnalato da un tratto di evidenziatore viola?
Finirà cosi: tutto il mondo introdurrà il “patentino sanitario”. Se dimostri di esserti vaccinato potrai fare tutto (andare al lavoro, scuola, al cinema, in treno, nei negozi, al centro commerciale, in aereo, in spiaggia, al ristorante….), ma se il timbro della vaccinazione non ce l’hai – perchè hai preferito non vaccinarti – tutte quelle cose non potrai più farle e verrai indicato idealmente con un tratto di evidenziatore rosa. E tutti ti eviteranno, sussurrando “quello è un non vaccinato”…
Perciò, volenti o nolenti, dovremo vaccinarci tutti…
Finirà cosi, vedrete.
Paolo Rossi, il piccolo gigante dell’area di rigore
di Darwin Pastorin
“Huffington Post”
“Non posso crederci, Pablito. Campione lucente, amico caro. Non posso crederci. È così forte il dolore, già così struggente la nostalgia. Arrivano i ricordi, come un vento senza fine. Ti ricordo al Vicenza, già campione. Eri l’asso, fin da quel tempo, del sorriso: in ogni occasione, per gentilezza, per allontanare la malinconia. Eri un centravanti leggero, ma in area di rigore ti trasformarvi in un gigante: ogni spiraglio era tuo, possedevi l’istinto della rete, sapevi trovarti sempre al posto giusto nel momento giusto. Un attaccante imprendibile e imprevedibile.
Ti ritrovo, soprattutto, con la Nazionale. In quel delirio, in quella allegria, in quella utopia realizzata del Mundial di Spagna del 1982. Prima le fatiche di Vigo, i tre pareggi con Polonia, Perù e Camerun. Le polemiche, il silenzio stampa, voi tutti raccolti intorno a Enzo Bearzot, il grande Vecio. L’allenatore che aveva sempre creduto in te, fin dall’Argentina del ’78, dove diventasti Pablito; che ti aveva convocato per l’avventura spagnola anche se avevi appena scontato una ingiusta squalifica per il calcio scommesse. Tre partite con la Juve bastarono a Bearzot per chiamarti, per preferirti al posto di Pruzzo. E ti difese anche dopo quel primo girone, nessun gol, molti critici che ti volevano fuori squadra. Ma Bearzot era irremovibile. Aveva fiducia in te ed era pronto a combattere contro tutto e tutti, da nobile Don Chisciotte. Andate, voi azzurri, a Barcellona contro Argentina e Brasile. Scrivevano, in tanti, in troppi, della cronaca di una eliminazione annunciata. Ma voi vincete contro Maradona e compagni. Ancora non segni. Perché non mettere Altobelli?, suggeriscono al Vecio. Ma il Vecio sapeva di te, della tua forza interiore, ti conosceva nell’anima e ti voleva bene come a un figlio. E contro il Brasile, quel grande Brasile, rinasci, ritorni a essere Pablito. Firmi una tripletta, il tuo sorriso torna a colorare il tuo cuore e le prime pagine. Due reti alla Polonia in semifinale, poi l’apoteosi del “Santiago Bernabeu”, il 3-1 alla Germania Ovest, davanti al presidente Sandro Pertini felice, in tribuna d’onore, come un bimbo. Il primo gol è tuo, d’anticipo ovviamente. Sei il capocannoniere della manifestazione, conquisti il Pallone d’Oro, diventi l’uomo più popolare dell’universo. Tutti noi diventiamo, in ogni anfratto, in ogni paese o contrada, “paolorossi”, così, tutto attaccato. Il simbolo di un’Italia bella, di un’Italia capace di compiere qualsiasi impresa. Possibile e impossibile.
E, al massimo della gloria, sei sempre rimasto tu, con i tuoi modi garbati. Il ragazzo Pablito. Ho tra le mani la tua autobiografia, che hai scritto con tua moglie Federica Cappelletti, eccellente giornalista, “Quanto dura un attimo” e leggo la tua frase in quarta di copertina: “Può colpirti la sfortuna, sconvolgerti l’ingiustizia. Ma tu non mollare mai. Forza e coraggio, ché i sogni a volte si avverano”. E tu sei riuscito a realizzare tutti i tuoi sogni, senza mai arroganza, senza mai presunzione.
Siamo diventati amici e ti divertivi a salutarmi, a ogni nostro incontro, facendo tre con le dita. Come i gol rifilati al mio amato Brasile. E mi confidavi che quella partita ti aveva ridato una vita, una seconda data di nascita, avevi in quel giorno di luglio, cancellato i fantasmi, le lunghe ombre, i tormenti.
Continua a essere un anno terribile, se ne stanno andando i miti. E tu sei stato un mito che non ha mai perso l’umiltà, il senso reale delle cose, sei rimasto il ragazzino di Prato che giocava, giocava e ancora giocava, sperando di arrivare in serie A.
Ti rivedo nella tua esultanza tipica: con le braccia alzate, il sorriso come un raggio di sole.
Addio Pablito caro, ti piango come un fratello”.
“Mi sa che bisogna che ci svegliamo”…
mi sa che qua bisogna che ci svegliamo… O sarà la fine dell’umanità”.