Aborto: l’incredibile passo indietro della Polonia

Una larga fetta della Polonia lotta per il diritto all’aborto.
Manifestazioni per le strade di Varsavia, da parte di migliaia di persone, che – nei pressi della sede della Corte Costituzionale – hanno protestato contro una legge che definiscono assurda e arcaica.
La sentenza della Corte Costituzionale polacca che vieta l’aborto in caso di malformazione del feto – pubblicata “in silenzio” sulla Gazzetta Ufficiale – è, infatti, entrata in vigore da mercoledi 27 gennaio, dopo essere stata congelata dal governo-Morawiecki per tre mesi, dal 22 ottobre scorso, a causa delle massicce proteste che hanno scosso la Polonia, a partire proprio da ottobre, dopo la promulgazione della legge stessa.
Di fatto, ora tutte le interruzioni di gravidanza in Polonia saranno vietate, tranne nei casi di stupro e incesto e quando la vita o la salute della madre sono considerate a rischio.
Un dato su tutti: il 98% degli aborti legali effettuati in Polonia, fino a oggi, era dovuto a malformazioni fetali. Ora non sarà più possibile.
Secondo la sentenza della Corte Costituzionale, gli aborti in caso di anomalie fetali sono “incompatibili” con la Costituzione polacca.
Già adesso, tra le 100.000 e le 200.000 donne polacche sono state costrette a ricorrere all’aborto clandestino o ad andare all’estero, solitamente in Repubblica Ceca, Germania, Slovacchia o Ucraina, per l’interruzione di gravidanza.
La Polonia è un paese molto cattolico e aveva, già in precedenza, alcune delle leggi sull’aborto più severe dell’Unione europea.
Il governo di destra del premier Mateusz Morawiecki – che si regge sul partito Diritto e Giustizia (PiS) – nega ogni pressione nei confronti della Corte Costituzionale.
Secondo Amnesty International, nuove manifestazioni da parte delle organizzazioni femministe e Lgbt e della stessa società civile, sono pronte a scuotere la coscienza della Polonia.

Portogallo: è il settimo paese al mondo a legalizzare l’eutanasia

Con 136 voti favorevoli e 78 contrari, il Parlamento portoghese ha approvato la depenalizzazione della morte medicalmente assistita.
La legge prevede che l’eutanasia sarà possibile, con l’ausilio di un medico, solo per le persone di età superiore ai 18 anni, malati terminali in situazione di sofferenza duratura e insopportabile e senza problemi mentali.
La votazione è durata circa 30 minuti: attesi i canonici tre giorni per eventuali reclami, il testo sarà poi inviato al presidente della Repubblica, Marcelo Rebelo de Sousa, appena rieletto per altri cinque anni.

Quest’ultimo dovrebbe approvarlo, ma potrebbe teoricamente anche bocciarlo o inviarlo alla Corte costituzionale.
Diverse le istituzioni cattoliche che, in questi giorni, hanno indetto mobilitazioni contro la legge, appellandosi proprio al Capo dello Stato per bloccarla.
Se la legge entrerà in vigore, il Portogallo sarà il quarto paese in Europa, settimo al mondo, a legalizzare l’eutanasia.

Robe da matti! Non toccate i cartoni…

Questa è la notizia riportata dal sito della Paramount Network Italy.
Solo un commento da parte mia: ma siete proprio diventati pazzi, con la vostra mania del “politically correct”!!!!
(c.t.)

Dopo film come Via col vento e Grease, anche alcuni classici animati Disney sono finiti al centro delle polemiche, con l’accusa di proporre stereotipi razzisti. In Gran Bretagna, il servizio di streaming Disney+ ha così deciso di vietare Gli Aristogatti, Peter Pan e Dumbo ai bambini di età inferiore ai 7 anni.

Gli Aristogatti“, pellicola del 1970, è finita sotto accusa principalmente per la presenza di Shun Ghon, un gatto siamese che fa parte del gruppo di Romeo con tratti del viso stereotipati e un accento dell’Asia orientale.
Le avventure di “Peter Pan“, film d’animazione del 1953, invece perché presenta una tribù di nativi americani, quella di Giglio Tigrato, che viene chiamata “pelli rosse”.

Riguardo a “Dumbo – L’elefante volante”,  la versione animata del 1941, c’è una scena con Jim Crow che viene ritratto seguendo uno stereotipo afroamericano considerato offensivo. Sotto accusa in particolare alcuni versi della canzone “Song of the South”, considerati una mancanza di rispetto alla memoria degli schiavi afroamericani e al lavoro nelle piantagioni del Sud degli USA.

Nel Regno Unito, questi tre film sono stati rimossi dalla sezione di Disney+ dedicata ai bambini più piccoli. Restano, invece, disponibili per il pubblico sopra ai 7 anni, anticipati da una scritta disclaimer: “Questo programma include rappresentazioni negative e/o denigra popolazioni o culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono ancora. Piuttosto che rimuovere questo contenuto, vogliamo riconoscerne l’impatto dannoso, imparare da esso e stimolare il dibattito per creare insieme un futuro più inclusivo”.

Alla Casa Bianca arriva Rachel Levine, la prima transgender nel governo americano

Svolta nell’amministrazione-Biden.
Alla Casa Bianca arriva Rachel Levine, 54 anni. Ricoprirà il ruolo di sottosegretaria alla Sanità. E’ la prima transgender della storia americana ad entrare nella squadra di governo, la primo ad ottenere un incarico federale.
Laureata ad Harvard, di professione pediatra, per anni insegnante al Penn State College of Medicine, Physician General (il medico che dà disposizioni sanitarie nello Stato della Pennsylvania) e, recentemente, ministra delle Salute della Pennsylvania durante questi difficili mesi della pandemia, la neo ministra ha cominciato a mettere in discussione il suo genere dopo i 40 anni: fino ad allora era sposata con Martha Peaslee Levine, anche lei dottoressa, dalla quale ha avuto due figli, David e Dayna. La transizione è avvenuta nel 2011. «Avevo finalmente deciso di vivere la mia vita senza segreti» ha raccontato Rachel in un’intervista…
Ha detto di lei, il neopresidente Joe Biden: “Rachel Levine porterà la stabile leadership e l’ampia conoscenza di cui abbiamo bisogno per affrontare la pandemia, a prescindere dalla razza, religione, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità”.
Una presa di posizione non indifferente da parte dell’amministrazione-Biden, che ha deciso di premiare l’impegno lavorativo e la professionalità, oltre i pregiudizi (e gli insulti sul web), che purtroppo non sono mancati da quando Rachel Levine è diventata un personaggio pubblico. Alcuni esempi? Quando ha imposto l’uso della mascherina in pubblico è stata presa in giro sulla pagina Facebook di una cittadina dello Stato che si è riferito a lei come a «un uomo che porta il reggiseno». E il sindaco di una cittadina vicino a Pittsburgh ha detto che «era stanco di stare a sentire un uomo vestito da donna».
Tra le altre nomine di persone Lgbt decise da Biden ci sono anche Emmy Ruiz, direttrice della strategia politica, Gautam Raghavan, vice direttore dell’ufficio del personale e Karine Jean-Pierre, vice capo ufficio stampa della Casa Bianca.

Ci vorrebbe un Braccio di Ferro

Ha appena compiuto 92 anni, il marinaio più famoso dei fumetti, della televisione e del cinema: Braccio di Ferro!
Il popolare “Popeye” ha visto la luce ufficialmente il 17 gennaio 1929, con la pubblicazione negli Stati Uniti delle prime strisce, nate dalla fantasia del fumettista E.C.Segar: e fu subito in successo!
Ben presto, già negli anni Trenta, Braccio di Ferro arrivò anche in Italia, diventando un beniamino dei più piccoli, anche grazie alla televisione – con i fumetti in tv – che amplificò la popolarità del mitico marinario, ma anche della svampita Olivia, dell’aggressivo Bruto, del serafico Poldo e di tutti gli altri personaggi di contorno.
Però i veri protagonisti sono sempre stati gli spinaci, che Braccio di Ferro apre in caso di necessità, ingurgitandoli in un sol boccone e ricavandone una immediata forza straripante.
Quanti spinaci mi ha fatto mangiare la mamma, sperando che io non facessi i capricci (non è che gli spinaci mi facessero impazzire!), ma con la scusa di diventare forte come Braccio di Ferro!!! E io ci credevo pure…

Ecco, di questi tempi ci vorrebbe proprio un Braccio di Ferro che aprisse la sua scatola di spinaci e salvasse il mondo intero dai cattivi…

Le “case-famiglia” degli orrori: l’Irlanda chiede scusa

L’Irlanda è sotto choc.

Il primo ministro irlandese Micheál Martin presenterà in Parlamento le scuse ufficiali del governo, per quello che è successo nel passato in numerose “Mother and Baby Homes“, strutture di accoglienza per famiglie gestite dalla Chiesa cattolica. e da istituzioni vicine ad essa.

L’inchiesta del quotidiano “Sunday Independent” ha sconvolto l’Irlanda.

Tra il 1922 e il 1998, circa 56.000 donne in stato interessante, ma non sposate, sono state mandate a partorire in queste “case-famiglia”, dove spesso erano costrette a dare i loro figli in adozione, anche in circostanze illegali.
Erano luoghi di una crudeltà disumana, stando ai racconti di chi li ha vissuti.

Nato da una ragazza di 19 anni di nome Jane, Fionn Davenport ha scoperto non molto tempo fa che la sua vita era basata su una menzogna.
“Subito dopo la mia nascita, la mamma ha cambiato idea e ha detto di voler tenere il bambino, ma le suore hanno detto di no, non ti è permesso, hai firmato i documenti, hai firmato i moduli, quindi hai rinunciato a tutti i tuoi diritti su questo bambino.
Ci sono voluti 40 anni, a me e a mamma, per scoprire che questa era una terribile bugia, che le hanno mentito. In base alla legge sulle adozioni del 1952, la madre naturale ha sei mesi di tempo per cambiare idea sul futuro del bambino. E le suore naturalmente lo sapevano”.

Fionn Davenport afferma che l’istituto in cui è venuto al mondo ha separato subito mamma e figlio. La madre naturale non ha mai potuto allattarlo al seno.
Secondo l’esperienza di Mary, anche lei – come Fionn – nata in una di queste strutture (nel suo caso, a Dublino), la vita delle madri non sposate era molto dura. La misericordia non era contemplata tra le mura di quelle tristi “casi”, simili più che altro ad impenetrabili carceri dell’anima.
Racconta Mary:
“Mia mamma aveva fatto a maglia i miei vestitini e dopo che mi avevano consegnato alla mia madre adottiva, le suore hanno riportato i vestiti che mia mamma aveva fatto per me, glieli hanno gettati in faccia e hanno detto: a Mary non serviranno più, ora ha dei vestiti veri! E questo ha spezzato il cuore di mia mamma”.

In queste strutture mancava tutto, non solo l’umanità.
Sia le donne che i loro figli hanno sofferto anche di mancanza di cure e di supporto medico, causando la morte di circa 9.000 bambini, in almeno 18 diverse strutture, come ha rivelato l’inchiesta giornalistica e giudiziaria, durata ben cinque anni.
Dopo la pubblicazione, lo stesso primo ministro irlandese Micheál Martin ha riconosciuto che la cattolica società irlandese trattava donne e bambini “incredibilmente male”.
Il premier ha aggiunto: “Questa storia apre una finestra inquietante su una cultura profondamente misogina che in Irlanda, nel corso di diversi decenni, ha visto una grave e sistematica discriminazione nei confronti delle donne, soprattutto di quelle che hanno partorito al di fuori del matrimonio”.

L’indagine è partita in seguito alla scoperta – nel 2014 – di una fossa comune di neonati e bambini nella “Mother and Baby Home” di Tuam, nella contea di Galway.
La storica Catherine Corless ha rintracciato i certificati di morte di quasi 800 bambini morti nell’ex “Bon Secours Mother and Baby Home” di Tuam, ma è stato possibile trovare un certificato di sepoltura solo per un bambino.
In seguito, gli investigatori hanno trovato una fossa comune contenente i resti di neonati e bambini in una struttura fognaria sotterranea nel terreno della “Home”, gestita da un ordine di suore cattoliche e chiusa definitivamente nel 1961.

Secondo l’inchiesta, nel periodo preso in esame, in queste “Homes” cattoliche è morto un bambino su sette, tra quelli che vi sono nati da mamme non sposate.
Il tasso di mortalità infantile in queste strutture – ad esempio, nel biennio 1945-46 – è stato addirittura il doppio del normale tasso di mortalità infantile nell’Irlanda di quel periodo.

Una storia tragica, tenuta sepolto troppo a lungo.

La “Mother and Baby Home” di Tuam.

La fine del sogno americano?

Ma davvero è finito il sogno americano?
Ma davvero quello che è accaduto tra il 5 e il 6 gennaio davanti al Campidoglio a Washington ha decretato la fine della grande democrazia americana?
Lungi da me difendere l’ormai ex presidente Donald Trump dal suo “indifendibile” atteggiamento aggressivo – contestando all’infinito la sconfitta elettorale per la Casa Bianca con Joe Biden e aizzando i suoi sostenitori alla protesta -, ma un solo episodio, pur gravissimo come questo, non può pregiudicare il mio giudizio su quello che resta un grande paese: gli Stati Uniti d’America.
Un grande paese con mille problemi sociali, non ultimo il razzismo, come riaffiorato con veemenza durante il 2020 con il fenomeno Black Lives Matter.
Un grande paese dove, ancora oggi, per andare in un ospedale pubblico ed essere curati è necessario avere una assicurazione sanitaria privata.
Un grande paese, insomma, dove le tensioni sociali sono altissime e la forbice tra ricchi e poveri è sempre più ampia. Ma dove la democrazia non è mai venuta meno, Trump o non Trump.
Forse, semmai, è il “sogno americano” ad uscire danneggiato da questa brutta storia di Capitol Hill: gli Stati Uniti sono ancora il paese dove si possono realizzare tutti i sogni, anche partendo dal basso?
Jake Angeli, lo “Sciamano” diventato ormai una celebrità, dimostra che è ancora possibile. Almeno per il proprio quarto d’ora di gloria.
Solo che adesso è finito in galera e del suo “sogno americano”, probabilmente, non sa più che farsene.

foto IPP/zumapress
Washington 06-01-2021

Ma perchè ce l’avete con teatri e cinema?

In tutto questo terrificante periodo di aperture e chiusure a singhiozzo – tra zone gialle, arancioni e rosse – una costante c’è: teatri e cinema sempre chiusi. 
A dire il vero, sempre chiuse anche le palestre, le piscine, i musei, le fiere e i congressi, le discoteche…
Ma, in questo caso, vorrei soffermarmi su due luoghi di “culto” (e di cultura) a me molto cari: il cinema e il teatro. Il cinema perchè ne sono da sempre un grande frequentatore, il teatro perchè solo qualche anno fa ho realizzato il sogno – nel mio piccolo – di calcarne il palcoscenico. E vorrei continuare a farlo…
Ebbene: sembra proprio che ai signori del governo non interessi minimamente riaprire i luoghi della cultura, mai e poi mai si parla di possibili riapertura di cinema e teatri, forse destinati ad avere sempre il grande schermo buio e il sipario abbassato.
Eppure, nella tregua estiva senza-Covid, cinema e teatri avevano dimostrato di sapersi organizzare bene, rispettando le regole, e con dati infinitesimali di positivi (nei teatri italiani, un solo positivo, addirittura!). Ma, a quanto pare, non basta.
Non basta mandare in rovina i proprietari dei cinema e dei teatri, non basta rovinare una scena culturale per anni (poi ci sarà il virus-paura che azzererà gli spettatori), non basta nulla di tutto ciò per far pensare ai Potenti di turno di farli riaprire. Con le regole da rispettare, ma aperti, che diamine!
Eh, ma il cinema e il teatro non fanno business come i supermercati e i centri commerciali…
Un pensiero tristissimo a questo governo – ma accade anche all’estero, in paesi che pensavo più evoluti – che ritiene “non essenziale” l’attività di svago e intrattenimento, come mai era venuta a mancare, nemmeno sotto guerre e bombardamenti…
Ma, evidentemente, di cinema e teatri (e delle altre attività succitate) non frega niente a nessuno. 
Ce ne ricorderemo. 
Promessa. E minaccia.