Arriva la “Barbie Down”, la bambola più inclusiva che c’è

Milioni di persone in tutto il mondo affetti da Trisomia 21 (più conosciuta come Sindrome di Down) ora hanno una bambola Barbie con cui identificarsi (anche se, in realtà, i lineamenti del viso sembrano assolutamente normali).
La nuova Barbie è stata appena messa sul mercato dalla Mattel: è l’ultima novità della linea “Fashionistas”, che comprende già diverse versioni di Barbie e Ken, che rappresentano minoranze specifiche.
La bambola è stata sviluppata in associazione con la “National Down Syndrome Society of America” (NDSS).
Oltre al vestito giallo e blu, i colori simboli della malattia, la Barbie indossa anche una collana rosa, che rappresenta le tre punte del 21° cromosoma, quello che causa la Sindrome di Down.
“Questo significa molto per la nostra comunità, che per la prima volta può giocare con una bambola Barbie che le somiglia”, ha dichiarato la presidente dell’associazione, Kandi Pickard.
La Mattel cerca così di rappresentare più donne possibili. dopo la Barbie “Curvy”, quella molto alta e quella molto bassa, fino ad arrivare, in anni più recenti, alla bambola non udente, quella sulla sedia a rotelle e quella con una protesi alla gamba.
L’originale, lanciato nel 1959, aveva gambe lunghe, una vita sottile e capelli biondi fluenti.
Secondo uno studio dell’Università del South Australia, c’era una possibilità su 100.000 che una donna avesse le sembianze di una Barbie… Da qui la battaglia di diverse organizzazioni per una bambola più rappresentativa delle donne reali.
Nel 2016 sono così state lanciate Barbie Curvy, Barbie Tall e Barbie Petite, oltre a diverse tonalità della pelle, per rappresentare etnie diverse (e persino l’astronauta Samantha Cristoforetti)…
Secondo i “Centers for Disease Control and Prevention”, la Sindrome di Down è la “condizione cromosomica più comune” diagnosticata oggi negli Stati Uniti. Circa 6.000 bambini nascono ogni anno, in tutti gli Usa, con la Sindrome di Down.

Quando il gelato al pistacchio di Bronte diventa un lusso

Il pistacchio di Bronte non se lo possono più permettere neppure in Germania.
I tedeschi, che hanno scoperto solo poco tempo fa il piacere del gelato rigorosamente “made in Italy” (l’85% delle gelaterie di tutta la Germania appartiene ad italiani), rischiano di dover dire addio ad uno dei loro gusti preferiti.
Un cono con due palline di gelato (se una è al gusto pistacchio) diventa un lusso anche nella ricca “locomotiva d’Europa”.
I costi salgono e si teme che la prossima estate in Germania il prezzo di un cono con due palline di gelato superi la soglia dei 4 euro, che per una famiglia con due bambini è comunque una spesa difficile da affrontare, tutti i giorni, per tutta l’estate…
Come dicevamo, il gelato è stato una scoperta tardiva per i tedeschi, grazie ai gelatai italiani che giungevano per la stagione estiva, soprattutto dal Veneto. Ma oggi non ne possono più fare a meno e ne consumano più di noi: nel 2021, il bilancio ufficiale è stato di 988 milioni di euro, che riguarda anche il gelato industriale, ma è difficile calcolare gli introiti delle piccole gelaterie familiari.
In febbraio, in Germania, il prezzo del latte, l’ingrediente base, in confronto con l’anno scorso, prima della guerra in Ucraina, è salito del 90%, e anche il prezzo dello zucchero. Quello della panna, invece, è sceso del 5%. Rincarati in media del 30% i prezzi di cioccolata, noci, fragola. E il pistacchio è il più caro e diverse gelaterie non offrono più questo gusto, oppure è un pistacchio con sapore artificiale.
“Io, da palermitano, sono un esperto, e quando è verde lo evito. Il vero gelato con pistacchio di Bronte è grigio. Quando lodai un gelataio di Orbetello, lui quasi si commosse: qui in Germania, i clienti non capiscono, non lo vogliono perché non è verde”, racconta Roberto Giardina, storico giornalista e corrispondente da Berlino (vive da quasi 40 anni in Germania), in uno spassoso articolo sulle righe di “Italia Oggi”, che ci ha ispirato questa riflessioni sul gelato.
È diminuito anche il prezzo della vaniglia, un altro dei gusti preferiti dai tedeschi, ma non basta a pareggiare l’esplosione dei costi per l’energia.
La storica gelateria “Sarcletti”, aperta a Monaco nel 1879, pagava fino a dicembre 2022, 5 cent per kilowattora: adesso si è arrivati a 28. Quasi sei volte tanto!
Salgono anche l’affitto e il costo per il personale. L’ anno scorso la paga minima oraria è passata da 10,45 euro a 12 euro, ma è difficile trovare dipendenti, se non pagando di più. Da “Sarcletti”, nella borghese Monaco di Baviera, una pallina costa un euro e 80, appena 10 cent più rispetto all’estate scorsa. Due palline arrivano a 3,50. Prezzi ancora decisamente competitivi.
In Spagna, in Italia e Francia si arriva già a pagare tre euro per pallina e i tedeschi là non si lamentano perché si sentono in vacanza, ma diventano parsimoniosi (se non addirittura tirchi) appena tornano a casa loro.
Secondo l’ultima classifica di settore, la miglior gelateria di Germania si trova a Bonn, la vecchia capitale, ed è ovviamente gestita da un italiano.
La prima gelateria tedesca aprì nel 1799 a Amburgo, ben 244 anni fa. Ma il primo gelato da passeggio, il cono, risale al 1920.
I primi gelatai italiani giunsero verso il 1870, passando dall’Austria. Nel 1933, Hitler cercò di boicottarli, convinto che i gelatai fossero in gran parte ebrei, ma i coni piacevano anche ai nazisti, e dal 1933 al 1937 le gelaterie nel III Reich raddoppiarono, da 2mila a 4mila.
Nel 1935, Langnese (l’Algida tedesca) cominciò a produrre il gelato industriale. E i gelatai italiani? Si limitarono a esporre il ritratto del Führer accanto a quello di Mussolini, comunque convinti che il gelato migliore fosse sempre quello artigianale, fatto in casa e…tricolore (verde-bianco-rosso, mentre la bandiera tedesca è nera-rossa-gialla).

DAL VOSTRO INVIATO A MODENA

All’alba del nuovo giorno, con l’eco degli applausi e, soprattutto, delle risate, giungono i miei ringraziamenti per la bellissima serata di ieri, al Teatro Cittadella di Modena.
Con oltre un centinaio di spettatori, abbiamo raccolto una cifra significativa, che potremo devolvere in beneficenza all’Associazione G.P. Vecchi, presieduta da Emanuela Luppi, che si occupa di assistenza e sostegno per i familiari degli ammalati di Alzheimer. Una bella collaborazione che, speriamo, possa continuare.
Grazie, perciò, agli amici che hanno partecipato, con il loro contributo: il “vecchio amico” Marco Toselli e Virna, i “viaggiatori” Elena Angelini e Davide Bortolotti, la nostra attrice di diversi spettacoli Marina Montanari e la sua famiglia (un saluto affettuoso alla mamma!), la grande cantante Cristina Migliari (con 4 amici, dovevo salutarvi a modo!), Olivia Balboni (la sorella di Balbo Andrea Balboni) e Massimo, la mitica giornalista Patrizia Gazzotti, la nostra “fedelissima” Laura Soldani, la sempre presente Patrizia Gardinali, il simpaticissimo scrittore-musicista Roberto Roganti, con signora (vi devo assolutamente presentare Santiago!) e tutti gli altri amici che hanno passato il sabato sera insieme a noi.
Ringrazio, naturalmente, Don Pietro Rota, per l’ospitalità al Teatro Cittadella; la nostra fantastica responsabile della comunicazione Paola Ferrari (è lei che ci ha messi in contatto con l’Associazione G.P. Vecchi: e ci ha pure trovato il ristorante per la cena!); il leggendario Orazio Giannone, scrittore, filmmaker e attore, nostro “punto di riferimento modenese” quando siamo in terra geminiana, visto che oltre a fare stupendamente la parte di Poldo, ci ha anche portato moooolti oggetti di scena e scenografia; Anna, la moglie di Orazio, stavolta nelle vesti di “bigliettaia” super carica e di implacabile ragioniera (è lei che vi ha accolto in biglietteria!); il grande presentatore “all’americana” Alessio Bardelli, che ha reso frizzante l’inizio e la fine dello spettacolo (un saluto anche a mamma e papà: li ho visti in forma!): la “Regina delle Torte” (in realtà è molto di più!), Anna Rita Bonantini, insieme a Fabio: ci ha fatto una grande sorpresa, con un regalo esclusivo realizzato dal papà, il celebre scultore modenese Tomaso Bonantini.
Ringrazio, naturalmente, tutti gli attori della Compagnia “I Teatroci” di Torino, cominciando dalla impareggiabile regista Erica Maria Del Zotto (anche autrice della sceneggiatura di “L’AMOR SENZA BARUFFA FA LA MUFFA”), protagonista nei panni di Filomena detta “Mena”; quindi, insieme a me, gli altri due fondatori della Compagnia: Gualtiero Papurello (stavolta nel panni del saggio Don Giovanni Casanova) e Luca Bertalotti, a cui è toccato il ruolo drammatico della commedia, quello di Vanni, che vede spegnendosi la memoria della sua Wanda. Grazie a Paola Ivaldi, spumeggiante Gina dall’accento e dalla verve molto piemontese, alle prese con un marito campione del mondo di pigrizia, interpretato magistralmente proprio da Orazio Giannone; Caterina Fera, sempre più spigliata nei panni di Palmira, la perpetua assai svampita e segretamente innamorata di Don Giovanni; Mirco Negri, il nostro mago-audio video, che stavolta ha fatto letteralmente i salti mortali (credetemi: si è infilato su una scala altissima, sprezzante del pericolo, ma con il casco in testa…) per assicurare al pubblico la migliore acustica e la migliore illuminazione possibile; Riccardo Cestaro, il nostro “figlioccio” adottivo, direttamente da Bosco Mesola (Ferrara), inventore delle nostre locandine, dotato di molta pazienza, soprattutto quando gli chiedo mille ritocchi in extremis; Marco Sarro, che con la sua voce stentorea ha reso assolutamente credibile ascoltare il Signore – con le sue pillole di saggezza – parlare con Don Giovanni (un po’ come nei film di Don Camillo!); il nostro fotografo modenese ufficiale, Christian Gardinali, che ha fatto 600 scatti, a colori e in bianco e nero, che prossimamente vedrete…su questi schermi!
A chi non è potuto venire ieri sera, ce ne sono tanti, che avevano già precedenti impegni, cito per esempio gli amici Luigi Guicciardi Daniela Ascari Daniela Ascari Marco Melara, promettiamo presto un nuovo tour modenese e, nel frattempo, possono sempre mettere una mano sul ❤️ cuore e fare un’offerta all’Associazione G.P. Vecchi!
Grazie ancora a tutti! A prestissimo!

30 anni dell’Opel Tigra, il coupè preferito dalle donne

Era l’auto sportiva preferita dalle donne, quelle forti e indipendenti, che attraverso il ruggito della loro Opel Tigra (spesso e volentieri nella versione color giallo pallido: la ricordate) rivendicavano il loro diritto alla libertà.
Anche per questo la Tigra – presentata al Salone dell’Auto di Francoforte 1993 – è un modello “epocale”, praticamente indimenticabile, anche per chi non l’ha posseduta, ma avrebbe tanto voluta.
Ma cosa aveva di tanto speciale la Tigra? Indubbiamente la cosa migliore era la linea, aggressiva e “spensierata” come un vera coupè deve essere. Ma, nella sostanza, la Tigra era poco più di una versione sportiva della Opel Corsa, di seconda generazione, dalla quale ereditò il pianale e gran parte della meccanica. Dunque: un’utilitaria!
Essere considerata un’utilitaria, naturalmente, comportava dei vantaggi di tipo economico, poiché il costo della Tigra restava abbastanza contenuto, ma aveva anche dei limiti (peraltro ben nascosti o considerati poco importanti): rifiniture poco curate, certamente non raffinate e – soprattutto – un’abitabilità scarsa per coloro che erano destinati ai sedili posteriori. Tra l’altro, chi superava i 160 cm di altezza, non poteva proprio starci dentro…
La sua forza, però, era soprattutto l’aspetto estetico: fresco, innovativo, dinamico. E assolutamente moderno. Lo sarebbe anche oggi, nel 2023. La Tigra era una boccata di novità, il suo motivo laterale a “Z” e quello speciale lunotto posteriore la rendevano molto attraente e appetibile. Non a caso, dopo della Tigra, anche Ford e Renault lanciarono la propria coupé compatta: la Puma e la Megane Coach. Ma senza lo stesso successo.
Del resto, la Tigra è un fenomeno a parte: la sua “vita industriale” è durata solo sette anni (e 250.000 modelli venduti in tutto il mondo), perchè la Opel ne cessò la produzione nel 2000, per non fare concorrenza interna alla nuova Corsa. Eppure, dopo 30 anni, siamo ancora qui a parlarne con un filo di nostalgia. Ma se proprio volete fare un tuffo nel passato, si trovano – su Internet – molte Tigra usate in ottime condizioni, ad un prezzo che può arrivare anche ad oltre 6.000 euro…

Gianni Minà: non solo conoscere i fatti, ma anche i personaggi

Gianni Minà ha inventato un nuovo genere di giornalismo: non solo conoscere i fatti, ma conoscere da vicino i anche i personaggi, protagonisti di quegli stessi fatti. 
E quindi, Fidel Castro, Diego Maradona, Pietro Mennea, Gabriel Garcia Marquez, Muhammed Alì, Robert de Niro e tanti tanti altri (come con Sandro Mazzola, in questa curiosa foto con Gianni Minaà che guarda altrove)… 
Come faceva ad arrivarci? Inizialmente con la sua aria rassicurante, piccoletto, tarchiato e i baffoni: poi, stando dalla “loro parte”, sempre. Sposando in pieno i loro progetti, le loro idee. Forse persino qualcuna sbagliata o discutibile, ma con la forza della coerenza di un grande giornalista. Dotato di una famosa agendina, con tutti i numeri di telefono dei “suoi” personaggi. E a lui bastava alzare la cornetta…
Non è stato Gianni Minà, il mio mito di giornalismo, se mai ne ho avuti. Ma indubbiamente è stato un gigante della televisione, in ogni angolo del mondo e in ogni inquadratura del piccolo schermo. Speriamo che, dietro di sè, abbia lasciato qualche degno erede. 

 

Il lusso del “disimpegno”: mollare lo smartphone e tornare al telefonino

Stanchi di stare sempre incollati allo smartphone?
Non ne potete piû della costante raffica di notifiche e della pressione di essere connessi al mondo 24 ore su 24, 7 giorni su 7?
Vi mancano i vecchi tempi in cui – una ventina di anni fa – i telefoni servivano solo per effettuare chiamate e inviare messaggi Sms?
Negli ultimi anni, in effetti, c’è stata la tendenza crescente ad abbandonare gli smartphone multifunzionali per tornare a telefoni più semplici e classici, soprannominati affettuosamente “dumbphones”. E se la tendenza ha coinvolto, per ora, soprattutto gli Stati Uniti, non tarderà ad arrivare anche in Europa e in Italia.
Ma perché questo improvviso ritorno di fiamma verso una tecnologia meno evoluta?
Analizziamo alcuni dei motivi alla base di questa rivoluzione “vintage”.

Innanzitutto, il lusso del “disimpegno” e del tentativo di semplificarsi la vita, tornando a vecchie abitudini ormai in disuso: come, ad esempio, usare i cd per ascoltare la musica, invece dello streaming, oppure stampare una mappa stradale prima di partire e, se necessario, chiedere informazioni ai passanti, anzichè fiondarsi immediatamente su Google Maps.
Josè Briones, 27enne del Colorado, è uno dei capofila mondiali di questo nuovo lifestyle: da quando abbandonato il suo smartphone per un “telefonino”, non si è più voltato indietro.
“La gente dimentica che vivevamo bene anche senza smartphone, il mondo funzionava anche prima degli smartphone”, spiega Briones. “Una scelta per le persone che vogliono riconquistare il loro tempo e la loro attenzione e avere una vita più profonda e propositiva”, aggiunge, con un tocco sapiente di filosofia.
Come riportato da ExplodingTopics, a livello globale le persone passano in media 6 ore e 58 minuti al giorno davanti allo schermo, con un aumento di quasi 50 minuti al giorno dal 2013.
Briones non è solo nella sua ricerca di riconnettersi al mondo analogico. Aiuta, infatti, a moderare una pagina social della community di Reddit, dedicata ai cosiddetti “dumbphones”, che conta più di 17.000 membri.
Un membro della pagina – Melanin_King0 – ha dichiarato di sentirsi molto meglio in generale da quando è passato a un “dumbphone”, circa tre settimane fa.
“Quando ero costantemente sul mio smartphone sentivo come se il mio cervello si annebbiasse”, dice.

Un altro dei motivi del “cambiamento” è che questa sensazione di “benessere post-smartphone” è supportata anche da uno studio scientifico condotto lo scorso anno dalla Lorestan University of Medical Sciences, un prestigioso ateneo iraniano, secondo cui l’uso eccessivo dello smartphone è fortemente correlato all’aumento dei livelli di ansia e stress.
Inoltre, un altro motivo per cui in molti optano per i cellulari basici è che sono molto più convenienti rispetto agli smartphone. Un semplice telefono può costare ora appena 30 euro, rispetto agli oltre 1.000 euro dell’ultimo iPhone 14 Max Pro.
Sebbene il mercato dei dispositivi non smartphone sia piuttosto limitato, alcune aziende si rivolgono in particolar modo proprio ai consumatori che scelgono di seguire la tendenza tornata in auge. Una di queste società ha sede a Brooklyn e produce il Light Phone, il cui slogan – bellissimo – è: “progettato per essere usato il meno possibile”.
I loro telefoni sono minimalisti ed escludono deliberatamente i social media, la navigazione in Internet e altre funzionalità potenzialmente stressanti.
Il telefono può, tuttavia, funzionare come hotspot wireless e includere strumenti di base, come il lettore musicale e l’app per le mappe.
Secondo i rispettivi amministratori delegati, sia Light Phone che il suo concorrente Punkt hanno registrato una notevole crescita delle vendite negli ultimi mesi.

Quindi: è davvero arrivato il momento di dire addio ai nostri smartphone e tornare alle origini?
A noi la scelta (andando a rovistare in qualche cassetto, dove abbiamo abbandonato i vecchi cellulari)…