TRAGEDIE IN TV, LA CURIOSITA’ MORBOSA DEGLI ITALIANI

porta-a-porta-di-bruno-vespa-e-il-delitto-di-cogneTutto ebbe inizio con la tragedia di Alfredino Rampi, a Vermicino, vicino Roma, quel maledetto mercoledì 10 giugno 1981, quando il bambino di 6 anni precipitò in un pozzo artesiano nelle campagna attorno alla casa estiva della sua famiglia. Per 60 lunghe, lunghissime ore, milioni di italiani (21 milioni, secondo l’Auditel dell’epoca) rimasero incollati davanti alla diretta fiume del TG1 – e, successivamente anche del TG2 e del TG3 – per seguire il disperato tentativo di salvataggio del piccolo Alfredino, fallito per colpa del destino avverso, ma anche di tanta confusione e disorganizzazione nei soccorsi. Dalle ceneri di quella tragedia, che forse poteva essere evitata, nacque la vera e propria Protezione Civile Italiana. “Fu il primo vero e terrificante reality della storia delle televisione”, raccontò, molti anni dopo, il giornalista Piero Badaloni (in seguito corrispondente Rai dalla Germania e presidente della Regione Lazio), inviato dal direttore del TG1, Emilio Fede, a seguire da vicino tutta quella tristissima vicenda, culminata nella visita a Vermicino dell’allora amatissimo Presidente della Repubblica Italia, Sandro Pertini. “Volevamo raccontare una storia di vita e, invece, si trasformò in una storia di morte”, disse Giancarlo Santalmassi, a quei tempi direttore del TG2.
L’incidente di Vermicino fu seguito con trepidazione, perché il piccolo Alfredino poteva essere il figlio di tutti noi, e una disgrazia del genere poteva davvero capitare a tutti, appena fuori dall’uscio di casa. Fu quindi, se possiamo dirlo, un partecipazione totale e una curiosità “positiva”.
Qualche anno prima, nel 1978, un’altra terribile notizia poteva diventare un caso televisivo: Il sequestro, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Ma gli scarsi mezzi tecnici dell’epoca e – soprattutto – la brutalità del fatto (non una disgrazia capitata ad un bambino, ma un vero attacco terroristico ad un uomo dello Stato) relegarono quell’evento nei libri di storia della nostra Repubblica, ma non fecero altrettanto breccia nei cuori dei telespettatori. Anche se io stesso, bambino di 9 anni, ricordo tutte le edizioni speciali dei telegiornali sul caso-Moro. Quindi, qualcosa di mediatico, accadde anche in quei 55 giorni tra il 16 marzo (strage di via Fani) e il 9 maggio (ritrovamento del cadavere in via Caetani, sempre a Roma).
Qualcosa di simile, con una grande ondata di indignazione popolare, avverrà nel 1992, con gli attentati della Mafia ai giudici Falcone e Borsellino.
Della terribile strage della stazione di Bologna (85 morti) del 1980, restano solo poche immagini in bianco e nero di soccorsi disperati e la commemorazione ogni 2 agosto.
Negli anni seguenti, con l’arrivo di nuove tecnologie e il raddoppiarsi delle emittenti televisive (vi ricordate i racconti, minuto per minuto, nei telegiornali Fininvest diretti da Emilio Fede, dei due piloti Cocciolone e Bellini, abbattuti durante la Prima Guerra del Golfo? E le dirette infinite con Paolo Brosio davanti al Palazzo di Giustizia di Milano durante Tangentopoli?), la curiosità degli italiani è aumentata a dismisura, passando da curiosità “positiva” a curiosità “morbosa”.
Il caso più clamoroso rimane quello della “mamma di Cogne”, Anna Maria Franzoni, accusata (ma lei ha sempre negato!) di aver ucciso – era il 30 gennaio 2002 – il figlio Samuele, di appena tre anni. Proprio il fatto che la presunta assassina abbia sempre respinto l’accusa, scatenò un infernale finimondo mediatico: dai plastici di Bruno Vespa, a “Porta a Porta”, con la ricostruzione della villetta di Cogne, alle sue interviste al Maurizio Costanzo Show, fino alla presenza, sempre più familiare per milioni di famiglie televisive italiane, dei Ris di Parma con la loro tuta bianca anti-contaminazione e di illustri esperti, tra cui brillavano i cosiddetti criminologi, di cui ancora non ci siamo liberati tutt’oggi. Io stesso, per lavoro, ho assistito ad alcune udienze in Corte d’Appello a Torino, compresa la lettura della condanna per la Franzoni a 16 anni di galera, era il 2007, e vi assicuro che fuori dal Tribunale stazionava una fila di curiosi senza fine, pronti a tutto, anche ad ore e ore di coda al freddo, pur di accaparrarsi i primi 30-40 posti che, ogni giorno, valevano la visione “in diretta” delle udienze, proprio all’interno dell’aula, a pochi banchi di distanza dall’imputata, la Franzoni, trattata alla stregua di una star (proprio perché diventata famosa grazie alla tv).
Grande risonanza mediatica, ha avuto anche l’assassinio di Sarah Scazzi, 15 anni, avvenuto nell’agosto del 2010, ad Avetrana, in provincia di Taranto: protagonista assoluto il presunto “zio belva”, Michele Misseri, in realtà finora l’unico non in carcere, che si autoaccusò più volte per proteggere le due esecutrici materiali del delitto: la cugina Sabrina e la zia Cosima, attualmente in carcere, condannate all’ergastolo. Terribile. Anche per le nostre coscienze e per quella di chi si è inventato il “turismo del macabro”, organizzando gite fuori porta per vedere i luoghi degli ultimi episodi di cronaca nera. Per poter dire “io c’ero!”.
Succede anche a Garlasco (Pavia), dove ancora non hanno capito chi ha ucciso, il 13 agosto 2007, la povera Chiara Poggi? E’ stato il fidanzato, Alberto Stasi? Ma non è già stato assolto due volte? E allora perché adesso è stato condannato a 16 anni di reclusione? Almeno fino al processo d’appello.
E la morte della piccola Yara Gambirasio, appena 13 anni, in provincia di Bergamo? Anche qui un presunto colpevole c’è, il muratore Massimo Giuseppe Bossetti, in carcere da sei mesi. Ma anche lui si processa innocente.
E il caso di Perugia, con l’assassinio – nella notte di Halloween 2007 – della studentessa inglese Meredith Kercher? Sono davvero innocenti Amanda Knox e Raffaele Sollecito? Il colpevole è solo l’ivoriano Rudy Guede, già condannato? E a Perugia sono aumentati i turisti, anche per questo motivo…
Ma non vogliamo fare i moralisti a tutti i costi: forse un selfie davanti alla carcassa della Costa Concordia, quando era ribaltata davanti all’Isola del Giglio, l’avrei fatta anch’io, per poi postarla sui social network. Ma il vero responsabile è un altro, un certo capitano, ora sotto processo a Grosseto….
Negli ultimi mesi, la curiosità morbosa degli italiani è stata riaccesa da alcuni sconvolgenti fatti di cronaca, a cominciare dalla sparizione, e dal ritrovamento del cadavere, di Elena Ceste, la mamma e moglie di 38 anni, 4 figli, e una vita apparentemente tranquilla. Tutti a scandagliare il passato e il presente della donna e del suo rapporto con il marito, finora l’unico indagato per la morte della moglie. E tutti a dire: “Tanto è stato il marito”, una condanna mediatica (ancora prima che giudiziaria: ancora tutto da provare!) che, peraltro, negli ultimi anni ha trovato tragica conferma in tanti, troppi femminicidi.
Tutti a parlare di Elena Ceste e delle sua (probabile) doppia vita (ne parla ancora, ogni pomeriggio, in uno snervante stillicidio di macabri dettagli, la presentatrice Barbara D’Urso, odiosa per tanti e odiata da tutti, sanzionata dall’Ordine dei Giornalisti – forse perché non ne fa parte – ma una che il suo mestiere lo sa fare, e l’audience è lì a confermarlo), ma all’improvviso, alla ribalta della cronaca nera, sale un delitto ancora più efferato, ancora più sconvolgente: l’uccisione del piccolo Andrea Loris, 8 anni, a Santa Croce Camerina (Ragusa). E subito tutti a giocare all’investigatore: chi sarà stato? Sicuramente il cacciatore che ha trovato il corpo del bimbo, dicono e scrivono in tanti. Sbatti il mostro in prima pagina, in prima serata e sul web. Poi, giorno dopo giorno, fotogramma di telecamera dopo fotogramma di telecamera, si scopre che la maggiore indiziata è la mamma. La mamma: possibile? E ne parlano tutti, davanti alla tv, a casa, al bar, mentre si fa la spesa. La curiosità “morbosa” dilaga.
Ma è colpa della tv che ce l’ha fatta venire o siamo noi stessi che ce l’abbiamo dentro, e la tv non fa altro cha darci quello che veramente vogliamo? Difficile dare una risposta. Forse, la verità sta nel mezzo. Nel mezzo della nostra coscienza (potremmo anche non guardarle, certe trasmissioni) e nel mezzo della coscienza dei produttori tv (potrebbero anche fare a meno di infierire così crudelmente sulle famiglie delle vittime, già così duramente colpite). Ma, temiamo, sia una battaglia già persa in partenza.
The show must go on.