Libertà di stampa, questa sconosciuta

Già, libertà di stampa. Noi magari la diamo per scontata – anche se l’Italia è appena al 55.posto della classifica stilata da “Reporters sans frontieres” (era 77esima nel 2016) -, ma ci sono paesi che questa parola non la conoscono nemmeno. Cominciamo da uno dei paesi attualmente piu’ pericolosi per i giornalisti: la Turchia. E iniziamo da una delle storie piu’ conosciute e controverse, quella del giornalista ed editore turco Deniz Yücel, nato in Germania, e rinchiuso da quasi un anno in un carcere di massima sicurezza. In realtà senza mai essere stato incriminato di nulla: per il presidente Erdogan, Yüucel è una spia e un agente del PKK, il partito curdo dei lavoratori, eppure non è mai stato formalmente denunciato. Eppure la sua liberazione appare lontana. Si è dovuto mobilitare addirittura “Die Welt”, il quotidiano tedesco di cui Yücel è corrispondente, per lanciare una massiccia campagna per la sua liberazione, raccogliendo oltre 200 firme tra artisti e intellettuali, tra i quali Wim Wenders, Bono Vox, Sting e Orhan Pamuk. Esiste anche un hastag #freedeniz per supportare questa petizione. Da qualche settimana il giornalista turco non è piu’ in isolamento: ora divide una cella con due detenuti, di cui uno – guarda caso – è un altro giornalista, Oguz Usleur, del giornale turco “Haberturk”. E non è un caso: nelle prigioni turche, attualmente, si trovano 135 giornalisti, molti dei quali in carcerazione preventiva, per un vago sospetto di “propaganda terroristica”.

Oltre che sui giornalisti, l’ira del “Sultano” Erdogan dopo il fallito golpe del luglio 2016 si è scatenata su tutti gli apparati dello stato, dalla pubblica amministrazione all’economia privata. I dati sono inquietanti (forniti da Luca Ozzano, ricercatore del dipartimento cultura, politica e società dell’Università di Torino e relativi al periodo luglio 2016-novembre 2017): 146.713 persone licenziate, 128.998 detenute, 61.247 in stato di arresto. 3000 scuole, università e istituzioni educative chiuse (molte delle quali legate al predicatore Fetullah Gulen, ex alleato di Erdogan, ora, dagli Stati Uniti, il suo peggior nemico), 8.693 accademici licenziati, 4.463 giudici e procuratori licenziati, 187 media chiusi.

Se la Turchia è un caso che va ben oltre i limiti della decenza, in Polonia e in Ungheria le cose vanno meglio, ma non di troppo. Iniziamo dall’Ungheria, governata con cipiglio autoritario dal leader nazionalista Viktor Orban. Come ci spiega la ricercatrice Donatella Sasso, coordinatrice culturale presso l’istituto di studi storici “Gaetano Salvemini” di Torino e editorialista di EastJournal (www.eastjournal.net), l’Ungheria già nel 2011 ha approvato una “Legge Bavaglio” che all’epoca prevedeva; la soppressione di tutte le agenzie che producono o diffondono informazione nelle radio o nelle televisioni. Di fatto rimaneva attiva solo l’Agenzia di stampa governativa, finanziata da entrate statali. E ancora: multe per chi scriveva articoli non equilibrati politicamente o informazioni contrarie agli interessi nazionalisti, la cui valutazione era affidata ad un Garante di nomina governativa. Inoltre, i giornalisti avevano l’obbligo di rivelare le loro fonti. E i telegiornali dovevano rispettare la soglia del 20% per la cronaca nera (per non diffondere troppe brutte notzie…) e la musica nelle radio doveva essere, per il 40%, ungherese. L’ondata nazionalistica era già evidente. Da allora, la “Legge Bavaglio” è stata un po’ smussata nei suoi angoli piu’ spigolosi, su forti pressioni dell’Unione Europea e con buona pace di Orban, che continua comunque a fare buon viso a cattivo gioco. Ad aprile 2017, peraltro, 70mila persone scesero in piazza a Budapest per protestare contro la decisione del primo ministro di chiudere l’Università privata fondata da George Soros, il magnate ungherese ormai diventato un acerrimo nemico per Orban.
In Polonia, intanto, nel dicembre 2016 ci furono numerose manifestazioni di piazza a favore della libertà di stampa e contro il decreto legge del governo che intendeva ridurre gli accrediti per i giornalisti che seguono abitualmente i lavori parlamentari. Solo due per testata, con il divieto tassativo di scattare foto e girare video dei lavori del Parlamento. Un sistema per impedire che venissero immortalate eventuali violazioni delle regole, come l’attività dei cosiddetti “pianisti” (i deputati che votano anche per i colleghi assenti). Dopo uno scambio di frecciate tra il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker e Jaroslav Kaczynski, leader del PiS, il partito di maggioranza, il decreto legge è stato ritirato. Vedremo fino a quando. Intanto, ad inizio dicembre, a Varsavia è cambiato il primo ministro: Mateusz Morawiecki ha rimpiazzato Beata Sdyzlo, giudicata troppo morbida, anche con i giornalisti.

Per la cronaca, in testa alla classifica di “Reporters sans Frontieres” sulla liberta’ di stampa c’è la Norvegia, che dopo sei anni ha scalzato la Finlandia. La Germania è al 16esimo posto, la Polonia al 54esimo, l’Ungheria al 71esimo, la Turchia al 155esimo posto su 180 paesi. Ultima in classifica, la Corea del Nord.