Sono reduce da tre giorni – piuttosto sobri, anche se non astemi – di Vinitaly, la grande fiera internazionale del vino italiano, che da 52 anni di svolge alla Fiera di Verona. Un appuntamento a cui bisogna assolutamente partecipare, come dicono le migliaia di produttori di tutt’Italia presenti negli enormi stand di ciascuna regione italiana.
A parte grosse pecche nell’organizzazione (il traffico impazzito è davvero così impossibile da prevedere e da dirottare in percorsi alternativi? Perchè nel 2018 bisogna ancora stampare gli accrediti a carta, quando basterebbe qualche lettore ottico funzionante in piu’?) che sembrano proprio non risolvibili, il Vinitaly è ancora e sempre un evento capace di calamitare un numero imprecisato ma spropositato (le cifre ufficiali non ci sono ancora) di “wine lovers” e un buon numero di addetti ai lavori e buyer (compratori), soprattutto dall’estero e dai mercati emergenti (la Cina è l’Eldorado, la Scandinavia una frontiera in costante crescita).
Quindi, lunga vita al Vinitaly.
Per chi non è giornalista o espositore, il prezzo del biglietto è mostruoso: è salito quest’anno a 80 euro (l’anno scorso erano 60).
Ma come? Avete presente spendere tutti gli 80 euro di renziana memoria in una affollatissima domenica di aprile, non all’aperto nei vigneti, ma dentro ai capannoni di una Fiera?
Ebbene sì. Anche perchè con 80 euro e il vostro pass, potete poi bere tutto quello che volete, è vero, mischiando in un colpo solo una Barbera del Piemonte ad un Vermentino di Gallura, un Lambrusco di Parma a un Montepulciano d’Abruzzo e chissà cos’altro, perdendo un po’ la testa e un po’ la bussola. E pure la strada di casa. E’ vero che, se chiedete ad un bagarino fuori dalla Fiera (piu’ numerosi che al San Paolo di Napoli!), magari si riesce ad entrare con 50-60 euri. Comunque tanti: ma l’intento degli organizzatori è proprio questo, vale a dire ridurre gli “wine lovers” (e qualcuno alza un po’ il gomito) e aumentare gli “wine business men“, quelli che – novelli Re Mida – trasformano il vino in oro colato e colante. E ce ne sono, per fortuna.
A sentire i produttori, le cantine sociali e i consorzi dei produttori, il made in Italy del vino va fortissimo: e meno male che abbiamo l’enogastronomia, nel nostro Belpaese! Pero’, quando sento una donna manager italiana – Erika Ribaldi, della Marchesi de’ Frescobaldi – che da tredici anni lavora sul mercato asiatico, dire giustamente: “Perchè mai i cinesi dovrebbero comprare il nostro vino e capire la differenza tra un Barolo e un Chianti, quando noi non compreremmo mai del loro vino e non conosciamo la differenza tra i loro vini”, capisco che c’è ancora molto da fare. Anche per uscire dal nostro provincialismo del made in Italy che si fa i complimenti da solo.
Poi, per fortuna, il brand-Italia tira sempre fortissimo ed è sacrosanto puntare sui mercati stranieri, con aziende che esportano ormai il 70 e passa per cento dei loro milioni di bottiglie prodotte, riservando le briciole e le gocce al mercato italiano, sempre piu’ in difficoltà. Poi magari trovi l’eccellente Moscato d’Asti a Shanghai, ma non in un ristorante del centro di Asti….
Paradossi del mondo (e del vino) globalizzato.
E se è vero che la qualità premia sempre, il vino italiano – di qualità (e controllo di sicurezza) lo è sicuramente – sa di essere tra i migliori al mondo, ma senza la presunzione di essere il migliore. Perchè la concorrenza cresce e il buon vino ormai lo trovi anche in Cile, in Nuova Zelanda, un po’ ovunque.
Perchè ci sarà pure un motivo se Peppino di Capri canta “Champagne” e non “Spumante” e se per festeggiare la vincita all’Enalotto da 130 milioni di euro, il fortunato vincitore stapperà una bottiglia di champagne e non di spumante….
Un motivo ci sarà. Il vino bisogna anche saperlo vendere.
E lo spumante – meglio se dolce – io lo trovo molto piu’ buono. Lo champagne, al massimo, per un risottino al vino bianco.
I gusti personali sono una cosa, ma il mercato globale è tutta un’altra cosa.