“Non mi toccare”: il romanzo dove la protagonista è l’aptofobia

Ê uno degli scrittori prolifici del panorama narrativo torinese. Massimo Tallone dispensa il tuo talento per i lettori, ma anche a beneficio di chi vuole magari emularlo, un giorno, con i suoi corsi di scrittura che ottengono sempre un eccellente successo. Esce proprio in questi giorni la sua ultima fatica letteraria, “Non mi toccare” (Edizioni del Capricorno), un libro toccante in cui la protagonista è l’aptofobia, la paura del contatto fisico. Abbiamo incontrato Massimo Tallone per carpirgli qualche “spoiler” del suo nuovo romanzo.


Conoscendo il Massimo Tallone autore, questo “Non mi toccare” mi sembra decisamente diverso da altri che avevi scritto: si tratta di una evoluzione nella scrittura?

“Credo che la scrittura sia sempre evoluzione. Almeno per me. Alla fine di ogni libro sento sempre che avrei potuto fare meglio. E allora scatta la molla di aprirsi a nuove sfide e al tentativo di inventare nuove soluzioni narrative. Anche se in realtà “Non mi toccare” era una bozza che tenevo in serbo da tempo. Ma il tipo di ‘sfida’ che contiene era già ben presente dall’inizio: scrivere una storia in cui realtà e fantasia fossero intrecciate in modo inestricabile e non separabile”.

La trama ci porta da Torino fino al Nord Europa… Quanto c’è ancora di torinese e quanto di islandese e dintorni? 

“Torino è il centro della vicenda. Da lì nasce la storia e lì si conclude. Susanna, la protagonista, deve fuggire da Torino. Approda prima in Sardegna, poi lassù, in Islanda e alle Fær Øer. Ma porta con sé un’idea di ‘torinesità’, come è inevitabile”.

Perchè la scelta dell’aptofobia come ‘protagonista’ del tuo libro? C’è qualcosa di autobiografico in questa vicenda?

“No, nulla di autobiografico. Ma ho conosciuto una persona aptofoba. Il motivo vero della scelta è quello di far entrare nella trama, tra le altre cose, una relazione vera, profonda e sentita, ma del tutto priva di contatti fisici”.

Come scrittore, come si definisce Massimo Tallone?

“Faccio fatica a definirmi, proprio perché sono pressoché costretto, ogni volta, a inventare un universo narrativo che non ho ancora esplorato. Anche quando scrivevo storie seriali cercavo di dare a ogni episodio della serie una struttura diversa. Insomma, l’unica definizione calzante che riguarda la mia attività dovrebbe essere quella di ‘esploratore di forme narrative’, alle quali cerco di dare di volta in volta un tono, una sintassi e un ‘cromatismo’ che non ho ancora mai sperimentato. Nel caso di “Non mi toccare” i livelli di esplorazione sono molti: la già citata fusione di realtà e immaginazione; la ‘scomposizione’ della storia su piani spaziali e temporali sempre in movimento, come i cieli dei mari del Nord; la costante e indivisibile presenza di paura e coraggio; la sfida dell’amore senza sesso e senza contatti; l’esperimento della suspense tenuta allo spasimo nonostante le distanze geografiche…”. 

Come sei diventato scrittore?

Credo che si ‘diventi’ scrittori continuando a chiedersi che cosa vuol dire essere scrittori.Pubblicare vuol dire essere scrittori? Non credo che basti pubblicare per essere scrittori, anche se è necessario. E forse non basta nemmeno vendere molto, anche se non guasta. Forse si diventa scrittori quando i lettori, scorrendo le pagine del libro, dimenticano del tutto di avere davanti segni grafici e cominciano a ‘vedere’ la realtà narrata, e a sentire gli odori, a provare caldo e freddo, la paura e la gioia. E girano pagina senza rendersi conto di avere in mano un libro, senza sentire la presenza dell’autore, ma percependo soltanto i personaggi e il mondo che li circonda. E da ultimo, credo che si diventi scrittori quando si accetta, proprio per le ragioni che ho appena detto, di non esistere, di essere morti, di annullare la propria realtà e la propria personalità a favore della ‘verità’ della scrittura, dato che le parole, definendo il mondo, lo rendono visibile”.

Quanti libri hai scritto? Ricordi il titolo del primo? E che cosa bolle in pentola?

“La risposta non è facile. Dal 1983 scrivo con metodo. Ho decine di romanzi giovanili che non ho mai pubblicato (e alcuni li ho distrutti). Poi ci sono romanzi e saggi che ho pubblicato, e sono circa venticinque. E numerose collaborazioni, racconti in antologie, testi per enciclopedie. Il primo lavoro pubblicato credo sia stato nel 1990, per UTET.

E sui lavori in corso, mi sento come un ‘umarell’ che guarda il cantiere di se stesso con le mani dietro la schiena. E in questo cantiere vedo un saggio dal titolo provvisorio “La letteratura, il superfluo e la morte”, un saggio umoristico dal titolo “Fenomenologia del corridoio” e l’abbozzo di un romanzo…”.

Tu sei uno di quei ‘fortunati’ che vivono di scrittura, con i tuoi libri e con i tuoi corsi di scrittura: com’è avere questa possibilità di trasformare una passione in una professione? 

“Credo che non ci sia fortuna maggiore e gioia più grande di fare ciò che si immaginava da sedicenni. Ma occorre molta attenzione. Bisogna ricordarsi di essere morti, rispetto al mondo esterno. Bisogna vivere pensando ossessivamente alla gioiosa e drammatica fatica del testo, dedicando quasi ogni istante alla sfida formale imposta dal nuovo scritto, mettendo tutta l’energia possibile nello scalpello che scava il nulla (il nulla è più duro del marmo) per ottenere la frase. Perché se si inseguono traguardi effimeri, di immagine, di successo, si entra in una macchina di perpetua insoddisfazione e di ansia. Da morti, invece, si respira l’aria pura della parola”.