di Cristiano Tassinari
Qualche giorno fa ho seguito con interesse uno dei corsi di formazione obbligatori per i giornalisti, in cui eminenti ultra-cinquantenni discutevano della “battaglia” attualmente in corso tra i “nativi digitali” e i cosiddetti “immigrati digitali”. Innanzitutto è doverosa una spiegazione dei due termini che abbiamo usato: i “nativi digitali” sono coloro che, fin dalla nascita o giù di lì, hanno avuto a che fare con telefoni, smartphone e le altre diavolerie tecnologiche di questi tempi. Per loro è tutto naturale, cresciuti a pane e tecnologia. Per cui possono essere considerati “nativi” sia i Millennials, nati dal 2000 in poi, che ora hanno 20 anni e hanno comunque seguito loro stessi una certa evoluzione della tecnologia (basta pensare alla differenza tra le funzioni di un cellulare nel 2010 e nel 2020…), sia i bambini – come, ad esempio, mio figlio Santiago, che non ha ancora due anni – che già hanno imparato – guardando i genitori che lo fanno come azione quotidiana ripetuta – a usare il telefono facendo scorrere il dito per vedere le fotografie e a cliccare nel posto giusto per vedere il video di Peppa Pig.
Chissà che funzioni avranno i loro cellulari quando avranno 20 anni o poco più, nel 2040…
E’ innegabile il fatto, del resto, che se fossero nati negli anni ’70 e ’80, avrebbe visto mamma e papà usare il telefono “a rotella” e avrebbero imparato ad usarlo anche loro…
Fin qui, tutto chiaro con i “nativi digitali”. Ma gli “immigrati digitali”? Chi sono?
Questi “immigrati digitali” siamo noi, nati in un periodo in cui non esistevano i cellulari e tutta questa tecnologia. Siamo tanti, e non tutti sono riusciti a fare il passaggio da un sistema all’altro, da uno stile di vita all’altro. Mio padre, per esempio, classe 1940 molto brillante e in gamba per tante cose (anche per il ballo liscio!), è invece assolutamente negato per il cellulare. Ne usa uno piccolo, antiquato, con i tasti grandi, di quelli che pubblicizzano in tv con Biancaneve e il Lupo, dedicati di fatto agli anziani. Hai voglia a dire a mio padre che con un moderno smartphone potrebbe vedere in tempo reale le foto del suo nipotino preferito, ma non c’è niente da fare: semplicemente perchè per lui è troppo complicato!
Meno male che ci sono altre persone non più giovanissime, viceversa, che hanno trovato una sorta di seconda giovinezza proprio grazie alla tecnologia, a Whatsapp, a Facebook e alla comunicazione “social”.
Nel corso a cui ho assistito, si parlava poi del GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple), le quattro superpotenze del web e dell’e-commerce, che ormai fattura in tutto il mondo qualcosa come 41.5 miliardi di euro, il 41% dei quali proviene dal settore “tempo libero”, rappresentato in gran parte dal gioco on-line, con tutti i suoi rischi e i suoi pericoli.
Non è una difesa spasmodica dell’e-commerce, ma la fotografia reale della situazione attuale: il web è più economico e più comodo, senza nemmeno dover uscire di casa, grazie ai furgoncini dei corrieri e alle biciclette dei riders che consegnano a domicilio la pizza, l’hamburger e il sushi. Il mondo, ora, va cosi. Ma siccome il “gratis” non esiste, nè sul web nè nella vita reale, temo che presto – forse non prestissimo, in realtà – ne pagheremo tutti il conto. Che, adesso, è già salato per molti commercianti “old style”, con l’affitto del negozio da pagare.
Intanto, essere riusciti a compiere positivamente il passaggio a “immigrati digitali” ci permette, se non altro, di essere pronti ad altri futuri cambiamenti, che ci saranno certamente. E, come consumatori, siamo preparati a non farci facilmente fregare dal primo sito web che capita. Ma se capita, rivolgetevi alle associazioni dei consumatori. Possono aiutarci, davvero.