Articolo di Marino Bartoletti
Nel 1980 lavoravo ancora al “Giorno”. Alle spalle del grande open space della redazione sportiva c’era quello degli “spettacoli”. Un pomeriggio entrarono tre poliziotti in borghese: vennero a informare Morando Morandini, uno dei più specchiati e mansueti galantuomini che abbia mai conosciuto (oltrechè, all’epoca, il più accreditato e stimato critico cinematografico italiano) che suo figlio Paolo era un assassino: che era appena stato arrestato per la morte di Walter Tobagi. Un giornalista come lui: e come me.
Aveva 56 anni, Morando. Quando uscì in mezzo a quegli agenti ne dimostrava 100. Nel tormento, si stava probabilmente chiedendo in cosa avesse sbagliato. Probabilmente in nulla. Aveva fatto tutto la vigliaccheria di suo figlio: e dei suoi cinque scellerati complici, a cominciare dal “capo” Marco Barbone, ventiduenne rampollo della “Milano bene” inebriato dall’infame desiderio di attuare chissà quale “giustizia proletaria”. Ma così cinico e pusillanime da “pentirsi” subito dopo l’arresto, usufruendo degli sconcertanti sconti che la legge aveva previsto per debellare il terrorismo. In pratica quasi tutta la “Brigata XXVIII marzo” (chiamata così per “onorare” i tre brigatisti sorpresi ed eliminati a Genova dai carabinieri del generale Dalla Chiesa) stette in galera solo per il tempo della carcerazione preventiva: Morandini e Barbone (che a Tobagi aveva sparato anche il colpo di grazia a una tempia) vennero condannati a poco più di otto anni – pena già inaccettabile per un delitto così vile – e immediatamente mandati a casa fra lo sgomento di tutti
Inutile ripercorrere la follia di quei tempi e di quegli uomini (la reiterata presenza mediatica di alcuni dei quali offende ancor oggi la civiltà di questo Paese). Tutti delitti incomprensibili, biechi, spregevoli, codardi, spesso senza senso: contro vittime sistematicamente inermi. Ma l’assassinio di Tobagi andò oltre la soglia più inimmaginabile della dissennatezza e della crudeltà. La “Brigata XXVIII Marzo” lo scelse proprio perché era il più indifeso di tutti. E lo ammazzò per poter fare quel salto di qualità che potesse far “promuovere” i suoi giovani componenti al rango di brigatisti rossi “effettivi”
Aveva 33 anni Tobagi: quasi due più di me che lo conobbi appena arrivai a Milano perché l’”Avvenire” in cui lavorava prima di passare al “Corriere d’Informazione” e poi al “Corriere della Sera” era nello stesso palazzo del “Guerin Sportivo” in Piazza Duca d’Aosta e ne divideva la rotativa. Amava parlare (e a volte anche scrivere) di calcio e quasi mi “invidiava” per quello che facevo. In realtà era uno dei più brillanti, preparati e intelligenti giovani giornalisti in circolazione: talmente bravo da sfondare subito in un mondo professionale nel quale era piuttosto difficile scalzare i baronati delle “grandi firme”. La consacrazione del “Corriere” lo fece decollare, anche se non rinunciò mai alla sua vocazione sociale e sindacale impegnandosi (forse anche troppo secondo qualcuno) alla ricerca di equilibri etici e professionali che disturbarono qualche collega
Poteva scrivere di tutto (di politica, di economia, di sindacalismo, di cronaca): fu in primissima linea nei reportage sul terrorismo. Soffrì molto nel raccontare l’assassinio del giudice Alessandrini, progressista come lui, puro come lui: come lui vittima sacrificale della follia umana (declinata in chissà quale “progetto”)
Lo vidi per caso proprio la sera prima che morisse: perché andai a una riunione al Circolo della Stampa che, per tanti versi, lo amareggiò parecchio. Gli spararono per strada alle undici della mattina dopo: era il 28 maggio di quarant’anni fa. La colpa, secondo qualcuno, fu proprio quella di essere un socialista che non capiva – ovviamente – anzi si batteva contro i deliranti concetti di “rivoluzione”. Ebbe il torto, questo sì, di aver sostanzialmente scritto che i brigatisti e gli aspiranti tali oltre che degli assassini erano soprattutto dei falliti. E i falliti, che sono sempre dei vigliacchi, gli spararono alla schiena
Il Cardinale Martini davanti alla sua bara disse a chi l’aveva ucciso: “Avete odiato l’uomo sbagliato”.