Articolo di Marino Bartoletti
Quando tornai in video – allora, oltre che essere inviato del “Guerin Sportivo,” conducevo la “Domenica Sportiva” – dissi testualmente: “Tre giorni fa ero all’Heysel. Proprio per questo mi auguro, nella mia vita, di non doverne parlare mai più”. E invece ne parlai tante altre volte (e sarebbe stato giusto così): ma sempre con un dolore e uno sgomento che 35 anni non hanno minimamente scalfito . Quando mi capitò di tornare in quello stadio nel 2000 per la partita degli Europei fra Italia e Romania provai un sincero voltastomaco nel vedere quel sepolcro imbiancato a festa e addirittura col nome cambiato
Non c’è un secondo di quel giorno che non abbia nitidamente negli occhi. Né, purtroppo, un secondo di quella notte: con tutte quelle bare allineate in un capannone illuminato in maniera innaturale, attraversato da un’umanità annichilita e sperduta. Persino il dolore era schiacciato dall’incredulità. C’erano fratelli, mogli, madri, padri, figli (almeno quelli che erano riusciti ad arrivare) che dicevano tutti la stessa cosa: “L’avevo visto stamattina partire felice….”. E poi compagni di viaggio che avevano vissuto assieme l’attesa di una festa e che avevano gli occhi fissi nel vuoto. Molti coi vestiti ancora lacerati
L’ho raccontata troppe volte quella tragedia per aver promesso a me stesso di non “volerne parlare più”. Era dal mattino che si capiva come la situazione fosse assolutamente fuori controllo: la Grand’Place aveva il pavimento lastricato di cocci di bottiglie svuotate e gettate dagli inglesi. La polizia sorrideva agli hooligans e “rimproverava” i tifosi juventini che facevano chiasso. Il resto è inutile raccontarlo: si ebbe subito la sensazione che gli occupanti del settore Zeta – la parte più mite e “tranquilla” del tifo juventino – messi irresponsabilmente a contatto con gli avversari più animaleschi, sarebbe stata schiacciata alla prima folata di violenza. Beato chi cadde dal quel muro marcio e si ferì soltanto: quelli che non ne vennero schiacciati morirono contro le reti del campo verso il quale avevano cercato la salvezza (con la Polizia prima a piedi e poi a cavallo che li respingeva a manganellate).
Io lasciai la tribuna per andare verso gli spogliatoi. Trapattoni chiese a me cosa fosse successo: la squadra, in un primo tempo non ebbe la percezione della tragedia. “Se hai un telefono chiami tu la Paola per dire che stiamo bene?” “Sì tranquillo Giovanni, appena torno su”. Ricordo Edoardo Agnelli stranito e inebetito. In Italia, per la voce di Bruno Pizzul, si cominciava a capire. Corsi fuori. Vidi l’operatore della Rai di Torino Isoardi riprendere i primi morti schiacciati: chi a terra, chi adagiati su transenne e cartelloni pubblicitari. Non so se tutte quelle immagini siano mai andate in onda. Vidi persino i primi gesti di pietà della Polizia. Vidi l’esplosione di un sentimento – la disperazione – che da un luogo di sport dovrebbe essere bandito per definizione.
Scrissi un reportage pieno di rabbia. La stessa che provo ancora quando negli stadi si “inneggia” all’Heysel (e ovviamente per ogni “risposta” eguale e contraria di chi pensa che una partita di calcio sia un esercizio da bestie e non da uomini). Non posso augurare a chi non ha capito cosa sia stata quella tragedia di poterne un giorno assaporare lo stesso fiele. Però vorrei essere creduto, questo sì: da chi ancora non ha compreso che il male assoluto non è un rigore negato, ma la nostra predisposizione all’odio!