di Pier Paolo Capozzi
Heysel è una parola soffiata che sa ancora di morte.
Heysel è odore di cemento rotto, sudore, sangue e paura.
Heysel è soprattutto dolore e occasione perduta per sempre.
Sono passati 39 anni e lo hanno fatto terribilmente a vuoto se ancora oggi, in nome del calcio, ci si scaglia su nemici sconosciuti.
Quello stadio maledetto, adesso, è stato completamente ristrutturato e ribattezzato (“Re Baldovino”) e del settore Z, tardivamente, non esiste più traccia alcuna: sorvolarlo è addirittura piacevole, immerso com’è nel parco che gli dava il nome e che comprende l’Atomium, il monumento a sfere d’acciaio, simbolo incontrastato di Bruxelles.
Da quel mercoledì sera di maggio, nel 1985, nessuno di noi è stato più lo stesso. Quella strage è la cattiva coscienza di tanti, è la pagina più buia e controversa di tutta la storia del calcio moderno con anni di dichiarazioni contraddittorie degli stessi giocatori, una vittoria di cui non andare fieri, un arbitraggio imbarazzante, le autorità di pubblica sicurezza del Belgio colpevoli almeno quanto gli hooligans, Bruno Pizzul (su Raidue) che non rivelava opportunamente numeri e particolari, mentre su Raiuno scorrevano le immagini dei cadaveri.
In quello stadio, nel 1990, ci andò il Milan a giocare col Malines e capitan Baresi portò un mazzo di fiori davanti allo spicchio incriminato. I belgi non gradirono, fischiarono dagli spalti e l’altoparlante intonò una marcetta. Una clamorosa confessione di colpevolezza, tardiva, vigliacca ed autolesionista.
Ma a Torino, nella curva juventina, la domenica dopo, esposero uno striscione riconoscente: “Baresi, 39 volte grazie”.
Già, non abbiamo ancora ricordato i morti: 39 appunto, di cui 32 italiani, 4 belgi, due francesi e un irlandese.
E 370 feriti, i numeri di una strage.
Franco Martelli aveva 22 anni e sua madre, da allora, gli porta un fiore tutti i giorni. Andrea Casula, 11 anni, era il più piccolo, è morto col papà Giovanni. Barbara Lusci aveva, più o meno, la mia età ed è stata la vittima meno giovane e scrivo così per allontanare la consapevolezza.
Il biglietto nel settore Z costava 300 franchi, il prezzo per morire schiacciati.
Eppure, prima della partita, ci sono centinaia di fotografie che testimoniano scene di amicizia tra le due tifoserie e, se andate a leggere gli scritti in ricordo di quella tragedia, troverete che quelli inglesi sono davvero toccanti. E ribaditi negli anni dopo. Nell’andata dei quarti di finale della Champions League 2004-2005 con la Juventus, i tifosi del Liverpool formarono la scritta «Amicizia» con una splendida scenografia nella loro curva.
Tornando alla tragedia, si può pensare che uno stadio non così fatiscente e una polizia locale che conoscesse il suo mestiere avrebbero evitato la strage, controllando gli inglesi più esagitati.
“Io ero all’Heysel nel 1985. Pensavo di aver visto tutto. Sbagliavo” (Cesare Prandelli).
“Per quell’esultanza e quel giro di campo, oggi posso solo chiedere scusa” (Marco Tardelli).
“L’ultima cosa che ci interessa è quel trofeo. E’ come se non esistesse” (Giovanni Agnelli).
C’è ancora imbarazzo a ricordare. Domenico Laudadio, che si batte da tempo per una sala della memoria nello stadio di Torino, ha scritto: “Un’ultima preghiera, mia dama, prima della sera / Un bacio ai fratelli dispersi nel Belgio / Rimboccali meglio, che non sentano più freddo / Sotto il manto delle nostre bandiere”.
Heysel è odore di cemento rotto e profumo intenso di lumini verso sera...