di Darwin Pastorin
“Huffington Post”
“Non posso crederci, Pablito. Campione lucente, amico caro. Non posso crederci. È così forte il dolore, già così struggente la nostalgia. Arrivano i ricordi, come un vento senza fine. Ti ricordo al Vicenza, già campione. Eri l’asso, fin da quel tempo, del sorriso: in ogni occasione, per gentilezza, per allontanare la malinconia. Eri un centravanti leggero, ma in area di rigore ti trasformarvi in un gigante: ogni spiraglio era tuo, possedevi l’istinto della rete, sapevi trovarti sempre al posto giusto nel momento giusto. Un attaccante imprendibile e imprevedibile.
Ti ritrovo, soprattutto, con la Nazionale. In quel delirio, in quella allegria, in quella utopia realizzata del Mundial di Spagna del 1982. Prima le fatiche di Vigo, i tre pareggi con Polonia, Perù e Camerun. Le polemiche, il silenzio stampa, voi tutti raccolti intorno a Enzo Bearzot, il grande Vecio. L’allenatore che aveva sempre creduto in te, fin dall’Argentina del ’78, dove diventasti Pablito; che ti aveva convocato per l’avventura spagnola anche se avevi appena scontato una ingiusta squalifica per il calcio scommesse. Tre partite con la Juve bastarono a Bearzot per chiamarti, per preferirti al posto di Pruzzo. E ti difese anche dopo quel primo girone, nessun gol, molti critici che ti volevano fuori squadra. Ma Bearzot era irremovibile. Aveva fiducia in te ed era pronto a combattere contro tutto e tutti, da nobile Don Chisciotte. Andate, voi azzurri, a Barcellona contro Argentina e Brasile. Scrivevano, in tanti, in troppi, della cronaca di una eliminazione annunciata. Ma voi vincete contro Maradona e compagni. Ancora non segni. Perché non mettere Altobelli?, suggeriscono al Vecio. Ma il Vecio sapeva di te, della tua forza interiore, ti conosceva nell’anima e ti voleva bene come a un figlio. E contro il Brasile, quel grande Brasile, rinasci, ritorni a essere Pablito. Firmi una tripletta, il tuo sorriso torna a colorare il tuo cuore e le prime pagine. Due reti alla Polonia in semifinale, poi l’apoteosi del “Santiago Bernabeu”, il 3-1 alla Germania Ovest, davanti al presidente Sandro Pertini felice, in tribuna d’onore, come un bimbo. Il primo gol è tuo, d’anticipo ovviamente. Sei il capocannoniere della manifestazione, conquisti il Pallone d’Oro, diventi l’uomo più popolare dell’universo. Tutti noi diventiamo, in ogni anfratto, in ogni paese o contrada, “paolorossi”, così, tutto attaccato. Il simbolo di un’Italia bella, di un’Italia capace di compiere qualsiasi impresa. Possibile e impossibile.
E, al massimo della gloria, sei sempre rimasto tu, con i tuoi modi garbati. Il ragazzo Pablito. Ho tra le mani la tua autobiografia, che hai scritto con tua moglie Federica Cappelletti, eccellente giornalista, “Quanto dura un attimo” e leggo la tua frase in quarta di copertina: “Può colpirti la sfortuna, sconvolgerti l’ingiustizia. Ma tu non mollare mai. Forza e coraggio, ché i sogni a volte si avverano”. E tu sei riuscito a realizzare tutti i tuoi sogni, senza mai arroganza, senza mai presunzione.
Siamo diventati amici e ti divertivi a salutarmi, a ogni nostro incontro, facendo tre con le dita. Come i gol rifilati al mio amato Brasile. E mi confidavi che quella partita ti aveva ridato una vita, una seconda data di nascita, avevi in quel giorno di luglio, cancellato i fantasmi, le lunghe ombre, i tormenti.
Continua a essere un anno terribile, se ne stanno andando i miti. E tu sei stato un mito che non ha mai perso l’umiltà, il senso reale delle cose, sei rimasto il ragazzino di Prato che giocava, giocava e ancora giocava, sperando di arrivare in serie A.
Ti rivedo nella tua esultanza tipica: con le braccia alzate, il sorriso come un raggio di sole.
Addio Pablito caro, ti piango come un fratello”.