di Gian Stefano Spoto (L’Opinione)
Carissimi,
di Gian Stefano Spoto (L’Opinione)
Carissimi,
di Eduardo Ferrarese (cinema.everyeye.it)
È sempre difficile in questi casi tenere a freno le emozioni. Ci si chiede quale sia il modo migliore per ricordare un’icona, o se davvero ne esista uno. Perché Sean Connery ha incarnato un modello assoluto di attore, quello che ha azzannato per anni grande schermo e palcoscenico con uno charme e una classe totali: divorava i ruoli senza mai sporcarsi la camicia. E allora come si può ripercorrere una carriera che lo ha trasformato in qualcosa di “oltre”, un Sir della settima arte dentro e fuori lo schermo, che veleggiava fra teatro, televisione e ovviamente cinema, con i capelli sempre in ordine.
Bisogna farlo tramite le emozioni, quelle che ci permettono di sentirlo vibrare sui nostri occhi ogni volta che si accende una sigaretta con il completo da James Bond, o che impartisce lezioni di vita a uno scapestrato Indy. Dopotutto, non è così che si diventa immortali?
Esiste un’immagine più iconica di Sean Connery con la sigaretta in bocca in Agente 007 – Licenza di uccidere? Una manciata di secondi che hanno traslato la carta di Ian Fleming nell’immaginario collettivo mondiale.
Un sorriso, quel “James Bond” pronunciato con gigiona sicumera e la sigaretta leggermente a penzoloni. E in quell’esatto istante, prima di scatenare la sua valanga sul mondo, Sean Connery diventava già immortale, forse senza neanche saperlo.
Qui sta tutta l’importanza che il lavoro dell’attore scozzese ha significato per almeno un paio di generazioni: unire cinema e letteratura, intrattenimento e cinefilia, arte e guadagno.
Il James Bond di Sean Connery è una quintessenza della pellicola, capace di arrivare a qualsiasi tipo di pubblico, conquistando le folle negli anni ’60 e riuscendo a mantenere inalterato il suo fascino ancora oggi.
Come se fosse un passaggio di testimone generazionale nelle domeniche pomeriggio estive, quando la sua Spia spuntava in tv, un genitore cresciuto a pane e cascate di diamanti probabilmente era lì a far appassionare il proprio pargolo al mondo british, spiegandogli perché quello era davvero James Bond. E lo sarebbe stato per sempre.
Poi, improvvisamente, si affastellano decine di altri ricordi. Arriva subito il Prof. Henry Jones Sr., il padre di Indy, quello a cui tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo guardato. E resta lì, vestito di tutto punto, naturale emanazione del suo corpo, cappello, occhialini e barba a farlo già all’epoca uno straordinario gentleman.
Sean Connery riusciva a essere imprescindibile in qualsiasi situazione, perfetto Riccardo Cuor di Leone che suggella matrimoni o poliziotto incorruttibile che demolisce criminali intoccabili.
Il passaggio da icona pop a mentore è stato quasi naturale, attraverso uno dei ruoli che lo ha cristallizzato nel cult: il Ramirez di Highlander – L’ultimo immortale. Un Sir dandy e scapestrato, capace però di rappresentare una sorta di Obi-Wan per chi voleva davvero vivere in eterno cantando i Queen, cercando di non perdere la testa.
E sui nostri occhi resta fisso quel sorriso, che Sean Connery donava a ogni suo personaggio, come se riuscisse a cambiare pelle con estrema bravura senza mai perdere la sua identità. In ogni ruolo quello era Sean Connery, anche se lui ti faceva credere di non esserlo mai.
E poco importa che abbia chiuso la sua carriera con un film meno leggendario di quanto ci si aspettasse: dentro di noi i tamburi dell’Africa vibreranno sempre, e Sean Connery non vivrà solo due volte. Almeno un migliaio in più.
di Darwin Pastorin
(Huffington Post)
Diego Armando Maradona compie 60 anni. Sono giorni di festa, di nostalgia e di nuove sfide per il Pibe, mai stanco – attraverso i social – di dare sfogo alle proprie tenerezze e ai propri furori: ricordando i compagni delle stagioni della gloria e ritornando ad attaccare i poteri forti, i padroni del football, i prepotenti della politica. Per niente facile, Dieguito: esagerato, polemico, ma mai reticente.
E sempre a testa alta.
Per molti, moltissimi è stato il più grande giocatore di tutti i tempi. Lo considero il mio Borges della pelota, così preso dai suoi universi paralleli, dai suoi labirinti, dalla sua passata, ma non perduta poesia. Ritornano i suoi gol memorabili, come in Messico nel 1986 contro l’Inghilterra: dalla Mano de Dios, così meravigliosamente beffarda, al gol più bello di sempre, con gli avversari, increduli e smarriti, saltati come birilli. Guardate e riguardate quell’azione: c’è tutto il genio di un calciatore unico e irripetibile.
Maradona è stato il campione che ha permesso a Napoli, città mondo, di diventare, anche nel calcio, un punto di riferimento internazionale, con più orgoglio e meno pregiudizio. Già, il Napoli: una squadra-simbolo, amata e rispettata da New York a Ouagadougou, da Helsinki a Seoul. Una compagine che divertiva e si divertiva, trascinata, tra dribbling irresistibili e punizioni impossibili, da quel numero dieci dall’umore inquieto e dal sorriso bambino, ora tempesta e ora raggio di sole.
Ho visto Diego giocare, compiere prodezze abbaglianti, perdersi e ritrovarsi. Amato e odiato, diventato un canto popolare e per i partenopei un inno alla felicità e al futuro. Tutto gli veniva perdonato: anche perché sapeva ricambiare quell’affetto immenso e struggente con i suoi colpi d’autore, le sue pennellate d’artista.
Non diventerà mai, Dieguito, triste solitario y final. E non cambierà mai, nel bene e nel male, nella consapevolezza e nelle tentazioni: lui, con il suo cuore ribelle e le sue passioni folgoranti. Mi disse, nei giorni di Siviglia: “Non credere mai alle storie che sentirai su di me. Sono diventato il bersaglio dei falsi perbenisti e moralisti, dei potenti del calcio. Le mie verità fanno male: tenteranno in tutti i modi di chiudermi la bocca, ma tu non dare retta. Tu, se vuoi, difendi l’onore di Diego Armando Maradona”.
60 anni, perennemente in prima pagina, venerato o detestato, sempre sotto i riflettori: ma incapace di recitare una parte, di vestire maschere. Felice compleanno, caro Diego: re del prato verde e della fantasia.
La pandemia di Covid-19 sta avendo un impatto notevole anche sullo sviluppo delle lingue in tutto il mondo.
Il primo ad adeguarsi è stato l’Oxford English Dictionary, che con due aggiornamenti straordinari – in aprile e in luglio 2920 ha pubblicato una serie di nuove parole ed espressioni, diventate ormai di uso comune nella lingua inglese.
Non da meno, in Italia, ha fatto lo Zingarelli, lo storico dizionario della lingua italiana edito da Zanichelli.
“La chiusura redazionale dello Zingarelli 2021, per la prima volta realizzata quasi completamente da remoto, è avvenuta in piena emergenza da Coronavirus”, spiega Andrea Zaninello, della redazione di Zanichelli.
“Nel corso dei decenni, il vocabolario ha raccontato la nostra storia attraverso le parole, ha scandito e registrato gli sviluppi dell’italiano e anche i mutamenti culturali e del costume; oggi racconta di un presente per vari aspetti drammatico, fatto di distanziamento sociale, di terapia intensiva, di ventilazione assistita, di sanificazione degli ambienti, di paziente zero, di DAD (didattica a distanza), e così via. Tutte parole che ormai ascoltiamo e ripetiamo ogni giorno, da mesi”.
Già in questa versione dello Zingarelli 2021 sono previste altre novità.
“Abbiamo inserito un nuovo significato del verbo tamponare (cioè: effettuare un tampone) e sigle legate all’attualità, come Covid-19 e Sars-CoV-2. Coronavirus, viceversa, era già presente, poiché indica il genere di virus”.
Ma si sta già guardando al futuro.
“Il prossimo anno, per lo Zingarelli 2022, le sigle Covid-19 e Sars-CoV-2 saranno inserite anche come lemmi e inseriremo l’ormai celebre neologismo “lockdown“, aggiunge Andrea Zaninello.
Anche un altro pezzo da novanta dei dizionari di lingua italiana, il “Devoto-Oli” (Mondadori Educational) – concepito da Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli nel 1967 – ha deciso di aggiornare il proprio dizionario 2021.
Isabella Di Nolfo, che si occupa delle pubbliche relazioni, scrive: “Fedele al suo ruolo di eccezionale testimone del nostro tempo e della nostra storia, il Nuovo Devoto-Oli nella sua edizione 2021 introduce i termini legati alla pandemia e all’emergenza sanitaria che stiamo vivendo e che ha colpito il mondo intero: Covid-19, lockdown, distanziamento sociale, spillover, droplet, autoquarantena, quarantenare, tamponare, termini che ogni italiano ha dovuto imparare a conoscere durante questo anno difficile e sospeso, ma anche termini più specifici come biocontenimento o cisgender“.
Nella versione inglese dell’Oxford English Dictionary, alcune parole e modi di dire in realtà già esistenti sono stati colpiti da improvvisa popolarità: come self-isolation (autoisolamento) e shelter in place (sinonimo di lockdown), ora integrati da descrizioni che ne spiegano l’uso corrente.
Stanno anche emergendo differenze locali; nel Regno Unito, per l’espressione “quarantena volontaria” si usa in effetti il termine self-isolation, mentre negli Stati Uniti si preferisce self-quarantine.
Alcune espressioni hanno persino cambiato significato. Sheltering in place, che prima indicava la ricerca di un riparo durante un evento circoscritto come un tornado o una sparatoria, ora si riferisce ad un periodo prolungato di isolamento sociale.
Con il loro tipico humour, i curatori inglesi non hanno resistito alla tentazione di aggiungere al loro Dictionary anche parole assolutamente nuove, “costruite” dalla fusione di altre parole: è il caso di maskne (l’acne causata dall’uso della mascherina), zoombombing (l’intrusione di sconosciuti in una videoconferenza) e covidiot (chi ignora le raccomandazionati per la sicurezza di tutti).
In tutta Europa, i principali editori di dizionari stanno mettendo a punto gli aggiornamenti “post-Covid” della loro lingua.
E questo, tutto sommato, è un effetto non negativo – diciamo cosi – della pandemia.
di Riccardo Cestaro
Poco più di vent’anni fa, un gruppo di sconosciuti mise in ginocchio l’onore del calcio professionistico fatto di soldi, fama e infine di passione. Già la passione, questa sconosciuta che nel mondo del pallone non esiste quasi più. Ebbene fu così che il Calais Racing Union Football Club, squadra dilettantistica francese allenata dallo spagnolo Ladislas Lozano, decide di iscriversi alla Coppa di Francia 99/2000. Sì, perché a differenza della Coppa Italia, nello stato transalpino, anche i club non professionisti minori possono partecipare. Per vincere bisogna inanellare una sequela di ben 13 partite a eliminazione diretta. Sembra impossibile e invece il Calais si qualifica per i trentaduesimi di finale il 22 gennaio 2000. Da quel momento in poi ci sono le grosse squadre di prima e seconda divisione da affrontare, che equivalgono a serie A e B del calcio italiano. Ma contro ogni pronostico i ragazzi di Lozano, compiono un vero e proprio miracolo sportivo senza precedenti vincendo su tutto e tutti. Giocando in modo ottimale e mettendo in campo una tenacia e una determinazione da campioni, questi valorosi calciatori, entrarono a far parte della storia di quella coppa da protagonisti indimenticati. Prima il Lille superato ai rigori 7-6, poi il Langon-Castet nei tempi regolamentari per 3-0; e ancora il Cannes sempre ai rigori per 4-1, lo Strasburgo per 2-1 e infine il Bordeaux (la seconda squadra in carriera di Zidane) per 3-1 nei tempi supplementari. Una storica cavalcata di 12 vittorie su 13. Si arriva così alla finale del 7 maggio allo Stade de France di Parigi. Di fronte a circa ottantamila spettatori, dopo una gara combattuta fino all’ultimo, i calesiani purtroppo capitolarono per 2-1 a causa di un rigore più che dubbio. Il trofeo lo vinse il Nantes, ma la notizia era che una squadra di impiegati, giardinieri, con un presidente parrucchiere e un allenatore geometra, avevano dimostrato al mondo intero che nello sport c’è anche divertimento, fatica, spirito di squadra ma soprattutto lealtà. Al rientro dalla capitale, quella magica compagine, fu accolta da un bagno di folla che riempi la piazza del comune per accogliere trionfalmente i propri beniamini. È una vicenda che vale la pena di essere ricordata. È l’essenza del vero calcio. È la storia di piccoli grandi eroi!
di Riccardo Cestaro
Cosa spinge i grandi imprenditori stranieri a investire nel calcio italiano? Qual è la nuova visione di questi ultimi sul mondo del pallone? Che il sistema sia visto come un business non è certo una novità. Fino a qualche anno fa, il concetto di presidente appassionato che pur di non vendere era disposto a perdere denaro perché teneva alla società e a ciò che rappresentava era ancora presente. Vedi Moratti e Berlusconi negli ultimi anni della loro carriera a Inter e Milan per citare due nomi, ma ora tutto ciò rimane soltanto un ricordo. Si parla infatti di “franchising” del mondo del pallone quindi di magnati che rilevano grosse o piccole società, o per effettuare operazioni finanziare a breve termine, oppure considerando tali squadre vere e proprie attività industriali (asset). Questi ultimi sono molto sottovalutati in Italia, ecco perché nel nostro paese è possibile acquistare squadre con bilanci in ordine a cifre che non sarebbero nemmeno proponibili all’estero. Così si formano le cosiddette MCO (multiple club ownerships): più squadre possedute da un individuo o una singola società in campionati diversi. In poche parole, investire nel nostro paese conviene. Un classico esempio è sicuramente rappresentato da Paul Elliot possessore dell’omonimo fondo che detiene il 99,7% del A.C. Milan con un patrimonio economico che si aggira attorno ai 3,2 miliardi di dollari. Oppure altri casi noti sono quelli di Dan Friedkin neo presidente della Roma, di Joey Saputo a capo del Bologna e di Rocco Commisso che detiene la presidenza della Fiorentina e dei New York Cosmos, rispettivamente con capitali di 4.1, 5 e 9 miliardi di dollari. Senza contare del predecessore di Friedkin, James Pallotta con addirittura 10 miliardi di dollari di ricchezza. Una vera e propria colonizzazione di uomini d’affari americani, che probabilmente continueranno e svilupperanno questa politica. Insomma scordiamoci per sempre l’acquisto per amore della società. Ma allora perché le loro squadre non hanno importanti fatturati e non possono vantare prestazioni di livello con titoli annessi? Se l’obbiettivo è la valorizzazione della squadra, per quale ragione il Bologna non è il Manchester City d’Italia per fare un appunto? E ancora… Quale sarà il futuro dei nostri campionati? Che cosa manca alle squadre italiane per eccellere in Europa? Su questi e su molti altri interrogativi bisogna riflettere e non è semplice dare una risposta.