Andrea Pirlo, “l’allenatore fatto in casa”

 Rivoluzione Juventus in poche ore.

Accade tutto in un sabato pomeriggio di agosto: Maurizio Sarri non è piu l’allenatore dei bianconeri. Paga a caro prezzo l’inaspettata e clamorosa eliminazione agli ottavi di finale di Champions League della Juventus, che pur battendo 2-1 il Lione non riesce a qualificarsi per la Final Eight di Lisbona.

A quel punto, il presidente Andrea Agnelli rompe gli indugi e strappa il contratto di Sarri.

D’obbligo e di facciata i ringraziamenti, anche per la conquista dello scudetto firmato Sarri, il nono consecutivo della Juventus, al culmine – come ricorda il comunicato ufficiale del club – di una grande ascesa professionale del tecnico toscano.

E in poche ore cambia tutto, segno che la Juventus ci stava gia pensando.
Il nuovo allenatore – forse con il consiglio di Cristiano Ronaldo – è **Andrea Pirlo, 41 anni, campione del mondo plurititolato con Milan e Juve, ma alla primissima esperienza da allenatore, nemmeno nell’Under 23, a cui era destinato,

Contratto biennale, da 1.8 milioni di euro a stagione.

Una scelta coraggiosa, “alla Guardiola”, l’allenatore fatto in casa, si direbbe: che qualche volta funziona e qualche volta no.

Ma per la Juve è davvero una clamorosa svolta.

 

Conto alla rovescia per la “Nuova Scuola”

C’è ancora molto da fare, in vista della riapertura delle scuole, prevista per il 14 settembre. 

Tra l’altro, appena una settimana dopo, sono previste le elezioni-referendum del 20-21 settembre e le scuole rischierebbero subito un primo stop. La ministra Azzolina spinge perchè invece non si perde nemmeno un giorno di scuola. E parecchi sindaci si stanno già impegnando per spostare i seggi fuori dalle scuole, in altri spazi.

E a proposito di spazi…

Sono circa 20.000 le aule che dovranno essere allestite in spazi alternativi rispetto ai tradizionali edifici scolastici.
Per oltre il 50% non sono ancora stati trovati gli spazi idonei.

Le difficoltà a reperire spazi sono diverse da regione a regione, ma si registrano maggiormente nelle grandi città, come Roma.
E’ quanto riferisce l’Associazione Nazionale Presidi, secondo l’ultima stima effettuata.

In considerazione dei dati, il numero degli studenti che dovranno fare lezioni in luoghi diversi rispetto alla propria scuola è di circa 400.000 alunni.

E si va a caccia di pubblici spazi scuola un po’ ovunque.
Anche in abitazioni private e persino in hotel e in Bed and Breakfast, appositamente attrezzati.

“Compatibilmente con le risorse disponibili, prevediamo presto la pubblicazione di Avvisi Pubblici in diversi comuni, per il reperimento di spazi alternativi dove poter allestire le aule per ospitare le classi che dovranno fare lezioni nei luoghi alternativi al proprio istituto”.
Lo riferisce Cristina Giachi, responsabile Scuola dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI), intervenuta in merito alle apposite risorse per gli Enti locali sull’affitto degli spazi aggiuntivi, previste nel decreto legge di agosto.

“Gli avvisi pubblici, in quanto tali, saranno aperti a tutti – ha aggiunto Cristina Giachi -. Laddove sarà necessario, oltre a musei, cinema e centri congressi, potrebbero partecipare anche hotel, Bed & Breakfast e perfino appartamenti singoli, purché le strutture rispettino i requisiti di capienza e sicurezza”.

Altro che la DAD, la famigerata Didattica a Distanza che ci ha tenuto compagnia – volenti o nolenti – durante la quarantena.
Altro che scuola a casa: qui la scuola va in giro per la città, in posti che prima non c’entravano assolutamente nulla con la scuola. Ci manca solo la sala giochi…

Ma si fa di necessità virtù e, comunque vada, si tratta di una svolta clamorosa, una sorta di “rivoluzione culturale”, anche se legata più all’edificio che ospita la scuola che alla sostanza vera e propria del programma didattico.

La ricerca di nuovi spazi scolastici alternativi è un altro passettino in avanti verso la riapertura delle scuole.
Ma a che punto è il percorso che ci accompagna verso il prossimo anno scolastico? 

Naturalmente massima attenzione alla sicurezza.
E, infatti, qualche giorno fa la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, ha firmato – insieme alla organizzazioni sindacali di categoria – il protocollo sanitario per la ripresa della scuola.
Dall’help desk per le scuole, alle modalità di ingresso e uscita, all’igienizzazione degli spazi, il protocollo offre regole chiare alle istituzioni scolastiche e agli stessi studenti.

Secondo il protocollo, nel caso in cui una persona presente nella scuola sviluppi febbre e/o sintomi di infezione respiratoria quali la tosse, si dovrà procedere al suo isolamento in base alle disposizioni dell’autorità sanitaria, contenute nel Documento tecnico, aggiornato al 22 giugno 2020.

La disposizione in materia di controllo territoriale prevede: “In caso di comparsa a scuola in un operatore o in uno studente di sintomi suggestivi di una diagnosi di infezione da SARS-CoV-2, il CTS sottolinea che la persona interessata dovrà essere immediatamente isolata e dotata di mascherina chirurgica, e si dovrà provvedere al ritorno, quanto prima possibile, al proprio domicilio, per poi seguire il percorso già previsto dalla norma vigente per la gestione di qualsiasi caso sospetto”. 

La storia dei banchi tiene ancora… banco.
Gli ormai famosi banchi a rotelle sembrano destinati a rimanere solo nei progetti della fantascuola, anche perchè secondo l’accusa di una professoressa, sindaco di Rossano Veneto, sarebbero pericolosi in caso di terremoto o incendio. Sulla non idoneità di questi banchi a rotelle, insiste anche l’assessore alla scuola della Regione Veneto, Elena Donazzan, che spiega: “Si tratta di banchi non omologati in Italia, la cui struttura è incompatibile con la didattica italiana in cui si usano penne e quaderni e libri e non tablet. E non avrebbero i freni in dotazione“.

Ii banchi con i freni: non ci avevamo mai pensato.
Il rischio, però, è che si passi da i banchi ultra-moderni a quelli che si trovano ancora nei vecchi magazzini delle scuole, forse non più con il buco per il calamaio, ma probabilmente con le scritte oscene lasciate dagli studenti dell’anno scolastico 1987-88. 

Speriamo di no, però.
Secondo il sito studenti.it, invece dei discussi banchi singoli con le rotelle ora entrano in ballo i tavolini trapezoidali singoli a spicchio, che possono essere usati singolarmente oppure accorpati. Soluzione che, in qualche modo, coniuga modernità, tradizione e praticità.

Un bel dilemma, non solo per la scuola italiana.
Anche in Germania, dove le lezioni sono appena ricominciate, ogni Land fa un po’ di testa propria, in base al numero di contagi e alla prudenza di ogni singolo governo regionale.
In alcune zone, ad esempio a Rostock e nel Meclemburgo-Pomerania, la mascherina non è necessaria in nessuna aree dell’edificio scolastico, in città come Berlino e Monaco di Baviera la mascherina è obbligatoria negli spostamenti e negli spazi chiusi, ma non in classe. A Potsdam, nel Brandeburgo, invece, la mascherina è obbligatoria anche per gli insegnanti durante la loro lezione (ma non per gli studenti).
E se il caos regna sovrano anche nella ben organizzata Germania…

Anche qui, teoricamente, dovrebbe decidere la Regione, che ha autorità in materia sanitaria. Mascherine solo negli spazi comuni, durante gli ingressi e le uscite, o anche in classe? Per tutta la durata della giornata? E durante la ricreazione? 
Per razionalizzare spazi e tempi di ingresso, ed evitare assembramenti di studenti, a fine giugno si era addirittura parlato di un’entrata anticipata alle 7 del mattino, ma è arrivata la precisazione del Comitato Tecnico Scientifico: si raccomandano ingressi scaglionati sì, ma nessuno ha parlato dell’orario delle 7.
Si era parlato anche di entrate scaglionate di 15 minuti per ogni classe, a partire dalle 8 di mattina, poi un rapido calcolo del preside di una grande scuola di Torino – con 52 classi – ha evidenziato l’impossibilità della cosa: la 52esima classe avrebbe iniziato le lezioni alle 9 di sera!
Una vera scuola serale…

Gli orari delle lezioni, semmai, secondo le indicazioni dei sindacati della scuola, potrebbero accorciarsi a 40-45 minuti ogni ora e gli studenti sarebbero chiamati ad andare a scuola anche il sabato mattina, dove questo già non accada normalmente. 

Infine, c’è il discorso legato ai dipendenti delle scuole, quelli che le fanno funzionare. I dirigenti. Le maestre, gli insegnanti, i professori. Ma anche il personale ATA (amministrativo, tecnico e ausiliario).
I sindacati sono d’accordo: servono più assunzioni.
Sul sito del MIUR ci sono già le procedure per le immissioni a ruolo dei docenti.

Già il decreto “Rilancio” di maggio 2020 prevedeva il reclutamento di 16.000 insegnanti in più rispetto ai 62.000 inserimenti già programmati attraverso i concorsi 2020, per insegnare nelle scuole secondarie, primarie e dell’infanzia.

Entro l’anno scolastico 2020-2021 sono previste ben 32.000 immissioni in ruolo per il personale docente, sia nei posti comuni che in quelli di sostegno.

Qualcosa, insomma, si muove. Sembra quasi che si stia profilando una “Buona Scuola”, ma quella era di un altro governo…
Questa potremmo chiamarla “Nuova Scuola”, aspettando che dalle promesse e dalle ipotesi si passi ai fatti concreti.
Basta attendere, manca poco alla prima campanella.

Hiroshima, 75 anni dopo

Sono passati 75 anni.
Il 6 agosto 1945, un bombardiere americano di nome “Enola Gay” lanciò una bomba atomica ribattezzata “Little Boy” sulla città di Hiroshima, in GIappone. Rimasero uccise circa 140.000 persone

Tre giorni, il 9 agosto, dopo una seconda bomba atomica ancor più potente (“Fat Man”) fu sganciata su Nagasaki. Altre 70.000 vittime.

Nel giro di due settimane, la resa giapponese pose fine alla Seconda Guerra Mondiale.

Un minuto di silenzio ricorda il momento in cui la bomba colpi Hiroshima.

Sopravvissuti e parenti delle vittime si sono riuniti nel Parco della Pace della città in occasione del 75° anniversario del bombardamento.

Il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha deposto una corona di fiori

Anche sull’onda di quella terribile esperienza, in Giappone esiste ora un forte sentimento pacifista e un impegno concreto per un mondo libero dal nucleare.

Il discorso del sindaco di Hiroshima Kazumi Matsui:
“Non dobbiamo mai permettere che questo doloroso passato si ripeta. La società civile deve rifiutare il nazionalismo egocentrico e unirsi contro ogni minaccia”.

Il primo ministro Abe ha rinnovato il suo impegno a mantenere il Giappone lontano dal nucleare.
“La nostra nazione manterrà saldamente i “Tre Principi non nucleari” (di non possedere, non produrre e non permettere l’ingresso di armi nucleari nel paese), Sollecitando con insistenza la discussione e l’azione di ciascun paese, il Giappone assumerà un ruolo guida negli sforzi della comunità internazionale per la realizzazione di un mondo senza armi nucleari”.

Quest’anno gli eventi commemorativi sono stati ridimensionati a causa della pandemia di Coronavirus, ma a Hiroshima, l’emozione è sempre grande e tangibile.

Chiedi chi era Tiziano Terzani…

Un articolo di “Vanity Fair” del 2018, in occasione dell’80esimo anniversario della nascita di Tiziano Terzani, scomparso nel 2004.

Nella sua vita ha «volato tanto»: ha avuto il coraggio di farlo, di dire no, di cambiare tutto e di ricominciare da capo. Oggi Tiziano Terzani avrebbe compiuto ottant’anni. Invece il giornalista e scrittore toscano, nato a Firenze nel 1938, si è spento quattordici anni fa. Ma senza rammarico o nostalgia. «La mia vita è stata un giro di giostra, sono stato incredibilmente fortunato e sono cambiato tantissimo», aveva scritto.

È vero: la sua vita è stata un giro di giostra. Terzani non si è mai fermato fino a quando non ha trovato il lavoro che rispecchiasse la sua personalità e soddisfacesse le sue ambizioni, ha vissuto una vita famigliare intensa, ha esplorato e raccontato per decenni il continente asiatico in tutte le sue dimensioni.

Ma andiamo con ordine. Il papà Gerardo aveva un’officina meccanica, la mamma Lina lavorava come cappellaia in un negozio di sartoria: la famiglia Terzani viveva in una piccola casa modesta, e per Tiziano forse non era previsto un futuro di studi e di impegno intellettuale. Ma un professore della scuola media, Ernesto Cremasco, convocò i genitori: il ragazzo doveva assolutamente andare al liceo classico. Gerardo e Lina si convinsero, e con tutti i loro risparmi andarono a comprargli il suo primo paio di pantaloni lunghi. Non sbagliarono a puntare su quel figlio diligente: Tiziano si diplomò brillantemente.

Fu allora che la Banca Toscana gli offrì un lavoro. Una proposta che aveva elettrizzato i genitori, ma terrorizzato il giovane. «Per me era la morte civile. Però avevo tutta la famiglia contro». Disse comunque di no e continuò a studiare. Tentò l’ammissione al collegio Medico-Giuridico annesso alla Scuola Normale di Pisa: c’erano cinque posti a disposizione, e lui arrivò secondo. Con la sua laurea con lode in mano, entrò alla Olivetti e fece il manager per cinque anni. Un lavoro che gli permise di viaggiare in tutta Europa e in Oriente, e di rendersi conto di che cosa davvero gli facesse battere il cuore.

In quegli anni Tiziano, che si era sposato con una ragazza di origine tedesca, Angela Staude, iniziò a innamorarsi della Cina. E quando la Olivetti lo mandò in Sud Africa, lui tornò indietro con un reportage sull’apartheid pronto da pubblicare su l’astrolabio, settimanale diretto da Parri. Passò ancora qualche anno nell’azienda prima di riconoscere che la sua vera, unica e grande passione era il giornalismo. E che non aveva più intenzione di sprecare tempo facendo altro.

Trovò lavoro a Il Giorno, fece il praticantato e diventò professionista. Ma lui voleva fare il corrispondente dall’Oriente, e quando il direttore gli disse che il giornale non ne aveva bisogno, si dimise. Iniziò a girare l’Europa per trovare quel posto di lavoro, finché approdò al settimanale amburghese Der Spiegel, diretto da Rudolf Augstein, che gli diede la possibilità di scrivere dal Sud-Est asiatico, da freelance. L’avrebbe poi fatto per trent’anni.

Da Singapore, dove si stabilì con la moglie e i figli Folco e Saskia, cominciò anche la collaborazione con diverse importanti testate italiane, da L’Espresso, a Il Messaggero, da La Repubblica al Corriere della Sera. Il suo primo libro, Pelle di leopardo, è dedicato alla guerra in Vietnam. Nel 1975 rimase a Saigon insieme a pochi altri giornalisti per assistere alla presa del potere da parte dei comunisti, e scrisse Giai Phong! La liberazione di Saigon, che fu tradotto in molte lingue. Dopo l’aggressione della Cambogia da parte del Vietnam, Terzani fu tra i primi cronisti a tornare a Phnom Penh, e raccontò il suo viaggio in Holocaust in Kambodscha.

Scriverà altri libri preziosi, e scriverà anche di se stesso: nell’aprile del 2004, poco prima di morire, pubblicò Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo. Ancora un’osservazione giornalistica, ma questa volta della delle tecniche più moderne di quella medicina che stava tentando di curare il suo tumore all’intestino, senza riuscirci. Ma sappiamo che Terzani se ne è andato in pace. «Senza alcun rimpianto, di promesse mancate, di cose incompiute, senza pena aggiunta mi preparo a volare un’altra volta».

Sarri, dalla gavetta allo scudetto: che lungo percorso!

Dopo i tre titoli di Antonio Conte e i cinque di Massimiliano Allegri, lo scudetto 2019-2020 – il nono di fila della Juventus – entra nella bacheca personale di Maurizio Sarri, un allenatore che ha dovuto fare una lunghissima gavetta e affrontare un lunghissimo percorso professionale per diventare un Allenatore Scudettato, a 61 anni. L’allenatore più anziano di sempre a vincere uno scudetto, battuto Nils Liedholm (60 anni e 219 giorni ai tempi della Roma 1983).

Per intenderci: quando la Juventus vinse il primo scudetto dell’era-Andrea Agnelli (6 maggio 2012, Cagliari-Juventus 0-2 sul neutro di Trieste), Sarri era un allenatore disoccupato, esonerato a dicembre in Lega Pro dal Sorrento.
L’estate 2012 si accasò all’Empoli e qui spiccò il volo.
E sono passati esattamente 17 anni dal primo titolo conquistato (e orgogliosamente rivendicato da Sarri); la Coppa Italia di serie D con il Sansovino.

Ne ha fatta di strada…

Non amatissimo dai tifosi per il suo stile non esattamente “da Juventus” e per il suo recente passato al Napoli, Sarri ha per ora messo a tacere tutti i critici, conquistando lo scudetto in quello che lui stesso ha definito “il campionato più difficile della storia”.

L’incredibile fenomeno dello “smart working”: adesso ho provato anche io!

Adesso posso dirlo: so anch’io che cos’è lo “smart working”. 
Lavoro intelligente, lavoro agile, semplicemente lavoro da casa. 
Prima in Italia quasi non esisteva, ora è diventata un’esigenza “di moda”. Tutta colpa del Coronavirus, naturalmente. E cosi, per mesi e mesi (anche ora che il peggio è passato), chi ha avuto la fortuna di non perdere il lavoro nei 50 e passa giorni di quarantena, si è ritrovato a lavorare da casa. Magari fianco a fianco con un altro coniuge in “smart working” anche lui e magari pure gomito a gomito con uno o due figli in D.A.D. (per intenderci: la didattica a distanza), Un intasamento mostruoso di computer, cellulari e reti tecnologiche! E che stress! Non è tutto oro quello che luccica (nel lavoro da casa)…
Finalmente (e dico finalmente perchè si tratta sempre di lavoro, evviva il lavoro!) ho provato anch’io l’ebbrezza del lavoro da casa. In realtà, da un ufficio vicino a casa, utilizzato appositamente per il mio lavoro di tele-giornalista (si, lavoro per una tv, ma in questo caso è inteso come lavoro da casa!), con tanto di wi-fi, fibra ad altissima velocità, cavo di rete e roba del genere, con un computer portatile nuovo di zecca, con i Ram giusti, la scheda grafica giusta e il numero giusto di Windows.
Ho appena finito il terzo giorno di “smart working”, è quasi mezzanotte. Che devo dirvi? Che mi piace da impazzire? No, perchè non sarebbe vero.
Il primo giorno l’ho passato inchiodato alla poltrona, troppo teso perchè tutto filasse tecnicamente per il verso giusto (è andata!). Poi mi sono un po’ sciolto, è vero, ma qui si rischia davvero di diventare degli eremiti asociali, senza mai parlare con nessuno, senza avere uno scambio di opinioni alla macchinetta del caffè con chicchessia. Oddio, si può sempre scendere al bar di fronte e importunare la barista, e soprattutto si può scegliere chi frequentare, a volte meglio nessuno che un collega non il più simpatico del mondo. Questo si. Non nego, del resto, che lo “smart working” abbia i suoi lati positivi: si può andare al lavoro con la barba lunga e con i pantaloncini corti, non si spende niente in vestiti nuovi e in pause-pranzo (vado a mangiare a casa! Ma i baristi si lamentano…) e in abbonamenti per i mezzi pubblici o per la benzina della macchina, si può stare al calduccio invece di uscire alle 7 di mattina d’inverno, qualcuno si guarda addirittura le repliche del tenente Colombo in tv mentre sta “telelavorando”, mettendo a repentaglio la proprio produttività giornaliera…

Io, ammetto, di aver lavorato tanto, persino troppo, senza quasi un attimo di cazzeggio. Sempre inchiodato alla scrivania, alla poltrona, una roba da vero “culo seduto”, solo in compagnia delle zanzare, del cellulare e del ventilatore, sempre con gli occhi puntati su questo maledetto schermo. Troppo.
Nei giorni successivi ho addirittura lavorato alle 5 di mattina. Roba strana. Uscire in orario antelucano per fare 200 metri di macchina e arrivare in ufficio. Quasi quasi potevo andarci in pigiama e ciabatte…
Poi, però, ho saputo che il macellaio – che abita di fronte al mio studio e ha il negozio subito sotto – si è lamentato perchè avrei fatto casino all’alba… Beh, non posso mica dire a Euronews “scusatemi, ma non posso più lavorare perchè il macellaio non vuole”…il suddetto macellaio se ne farà una ragione, no?
Comunque,
non è cosi divertente lo “smart working”, ma è un fenomeno sociale di cui tenere conto, perchè il futuro – anche dopo la fine del virus – sarà sicuramente quello. Anche le aziende risparmiano, in trasferte e alloggi, per esempio, in caso di viaggi di lavoro. E lo “smart working” è già anche il presente, è evidentissimo.
Proviamo a fare buon viso a cattivo gioco?
Proviamo, si. Del resto, finchè c’è lavoro c’è speranza. E pazienza se ci siamo solo io e il computer. 

Quasi quasi, però, vado a cercarmi un lavoro manuale…

Le chiacchiere da bar, tra adipe incipiente e deretani vari….

di Beppe Rasolo
(beppe-rasolo.blogspot.com)

Come al solito la differenza la fanno i contenuti e per un Foglio (inteso come testata giornalistica) che ci allieta con Essere e diventare Jurgen Klopp una sorta di retrospettiva sulla filosofia che sta alla base dell’allenatore vincitore dell’ultima Champions League, il giornalismo nostrano è diventato sempre più una sorta di vetrina dedicata al body shaming, dal posteriore di un ministro della repubblica all’adipe incipiente di un allenatore di serie A, c’è di che esserne fieri ma è tutta colpa di chi scrive o di chi legge. Una suddivisione della colpa è forse più corretta c’è l’offerta, assolutamente discutibile e c’è la domanda e la richiesta altrettanto orripilante da parte di chi legge da chi ascolta ecc. Ormai farsi gli affari degli altri, pratica sdoganata dai social, è un vero e proprio must così come guardare a volte censurando a volte commentando i comportamenti delle persone che stanno intorno a noi. E’ un mondo in cui il commento da bar è diventato licenza poetica e supremo giudizio. L’arena in cui i gladiatori esperti in rutti avanzano a pontificare e dare giudizi di merito. Flaiano bollerebbe questa situazione come grave ma non seria, occorre una sterzata e di brutto per tornare a comportamenti più consoni, ci riusciremo ?? la speranza è l’ultima a morire o per meglio dire una volta arrivati sul fondo si riuscirà a invertire la tendenza?? 

Anche noi siamo stati paninari?

Siamo noi, la generazione più felice di sempre.
Siamo noi, gli ormai cinquantenni, i nati tra gli inizi degli anni ’60 e la metà degli anni ’70. La generazione più felice di sempre.
Siamo quelli che erano troppo piccoli per capire la generazione appena prima della nostra, quelli del ’68, della politica e dei movimenti studenteschi. Ancora troppo piccoli per comprendere gli anni di piombo, l’epoca delle brigate rosse e delle stragi nere.
Siamo quelli cresciuti nella libertà assoluta delle estati di quattro mesi, delle lunghe vacanze al mare, del poter giocare ore e ore in strade e cortili, delle prime televisioni a colori e i primi cartoni animati. Delle Big Babol e delle cartoline attaccate alle bici con le mollette da bucato. Delle toppe sui jeans e delle merendine del Mulino Bianco. Dei gelati Eldorado e dei ghiaccioli a 50 lire. Dei Mondiali dell’82 e della formazione dell’Italia a memoria. Di Bearzot e Pertini che giocano a scopa.
Siamo quelli che andavano a scuola con il grembiule e la cartella sulle spalle, e non ci si aspettava da noi nulla che non fosse di fare i compiti e poi di giocare, sbucciarci le ginocchia senza lamentarci e non metterci nei guai. Nessuno voleva che parlassimo l’Inglese a 7 anni o facessimo yoga. Al massimo una volta a settimana in piscina, giusto per imparare a nuotare.
Poi siamo cresciuti, e la nostra adolescenza è arrivata proprio negli anni ’80, con la musica pop, i paninari e il Walkman. Burghy e le spalline imbottite. Madonna e il Live Aid. Delle telefonate alle prime fidanzate con i gettoni dalle cabine e delle discoteche la domenica pomeriggio. Di Top Gun e Springsteen. Degli Wham, dei Duran Duran e degli Spandau Ballet. Delle gite scolastiche in pullman e delle prime vacanze studio all’estero.
E poi c’era l’esame di maturità, e infine il servizio militare, 12 mesi lontano da casa, i capelli rasati e tante amicizie con giusto un po’ di nonnismo. Nel frattempo magari un Inter Rail e infine un lavoro. All’Università ci andavi solo se volevi fare il medico, l’avvocato o l’ingegnere. Che il lavoro c’era per tutti.
Siamo cresciuti nella spensieratezza assoluta, nella ferma convinzione che tutto quello che ci si aspettava da noi era che diventassimo grandi, lavorassimo il giusto, trovassimo una fidanzata e vivessimo la nostra vita. Non abbiamo mai dubitato un istante che non saremmo stati nient’altro che felici.
E, dobbiamo ammetterlo, per quanto il futuro ci sembri difficile, e per quanto questa situazione ci appaia incomprensibile e dolorosa, siamo stati felici. Schifosamente felici. Molto più dei nostri genitori e parecchio più dei nostri figli.
Siamo la generazione più felice di sempre.

Non sappiamo chi l’ha scritto, ma era davvero bello…Bravo/a!