Con la (semi)liberazione del 4 maggio, una prima vera conquista, una prima vera parvenza di libertà l’abbiamo ottenuta: il caffè al bar.
Ovviamente, non il vero caffè seduto nel mio bar preferito, con lo zucchero a portata di mano, la scollatura della barista a portata di occhi e la Gazzetta dello Sport a portata di…cervello. Quello è il mio sogno, quello è il mio vero caffè che voglio! Ma, per lo meno, abbiamo potuto riassaporare il gusto del caffè del bar, sebbene da asporto, sebbene in un bicchierino di carta, sebbene da consumare velocemente e furtivamente fuori dal bar, quasi come dei ladri, sebbene senza Gazzetta dello Sport, sebbene senza la scollatura della barista – ora in cassa integrazione – e sostituita dal barbuto proprietario. Meglio che niente!
Ma come mi è mancato il caffè al bar! E’ la cosa che mi è mancata di più, durante questa maledetta quarantena! Anche il bar in piedi, al banco, all’italiana…certo che mi è mancato!
Ma che ne sanno gli stranieri che vogliono sempre sedersi al tavolino del bar, come se fossero al Florian di Venezia anche se si trovano a Pinerolo o a Formigine!? Se sapessero il gusto corroborante di energia pura di un caffè in piedi al bancone del bar……
Ecco, ora lo aspetto: al bancone o al tavolino, non importa. Io voglio il mio vero caffè!
“Pesci Grossi” molto pericolosi!
Il nuovo libro di Cristiano Tassinari & Gualtiero Papurello.
Il primo giallo sulla Torino-Lione.
La “Cioccolateria Grimaldi” è un piccolo gioiello di pasticceria sabauda, creata da Edoardo Grimaldi, con passione e dedizione. Tutto sembra andare a gonfie vele, fino a quando non arriva la maledetta crisi. Che travolge anche la “Cioccolateria”. Grimaldi deve chiudere i suoi punti vendita, deve licenziare i dipendenti, le banche non gli concedono più prestiti. Lui, disperato, prova a chiedere aiuto al vecchio amico Roberto Molteni, diventato un Pesce Grosso dell’economia e della finanza mondiale.
Tutto inutile. E allora, una domenica nella casa di campagna nelle Langhe, decide di farla finita. L’ennesimo caso di imprenditore che si toglie la vita.
Ma c’è chi è pronto a raccogliere il suo testimone. A cominciare dalla vendetta.
Disponibile in formato cartaceo e versione e-book.
https://www.atenedelcanavese.it/pescigrossi/
4 maggio 2020: giorno della (semi)liberazione!
Oggi, 4 maggio 2020, è il giorno della nostra (semi)liberazione!
Dopo 53 giorni di quarantena, da oggi finalmente ho potuto uscire a farmi un’oretta di camminata veloce e nel pomeriggio abbiamo portato a spasso Santiago sotto un bellissimo sole. Stasera, infine, andremo a mangiare una fetta di torta di compleanno di Luca, mio nipote e cuginetto di Santiago, che compie 18 anni. Non credo che terremo la mascherina, per mangiare la torta, non credo proprio….
La libertà, tuttavia, non è completa. Anzi. E’ molto incompleta.
Troppe cose normali ci sono ancora vietate, per altre serve sempre un’assurda autocertificazione, il lavoro non c’è più e chissà se e quando ritornerà.
Ma questo 4 maggio 2020 – pur con le dovute precauzioni – rappresenta pur sempre un piccolo, importante passo in avanti, per tornare a quel mondo libero e bellissimo – e non lo sapevamo – che avevamo prima.
Il 1° maggio al tempo del virus: e il lavoro è sempre più distante…
Ormai l’ho presa con filosofia, dopo quasi due mesi di quarantena, però il 1° maggio è sempre una data simbolica e ritrovarsi il 1° maggio senza un lavoro è una cosa che destabilizza. Non solo l’unico, certo, di questi tempi, ma la cosa non mi allevia la pena di aver perso il lavoro….per colpa di un virus!
Fosse per la crisi, l’avrei pure capito. Ma per un virus no!
Non ci avrei pensato, mai e poi mai!
Che poi, in realtà, essendo free-lance, il lavoro non è perso completamente, potrà pure ritornare, ma bisognerà sudarselo, bisognerà riguadagnarselo e, poichè lavoro prevalentemente all’estero, molto dipenderà dai rapporti di confine tra un paese e l’altro. Perchè se le frontiere rimangono chiuse, non c’è smart-working che tenga, almeno per me.
Un lavoro sempre più distante, sempre più lontano. E, stavolta, non si può nemmeno dare la colpa al capo-ufficio o al capo-redattore, non c’è uno stronzo su cui caricare la responsabilità di un lavoro che non c’è più. E, se riprenderà, sarà per meno gente, per meno soldi, per meno diritti. Sempre meno meno meno…
Purtroppo vale per tutti: bar, ristoranti, redazioni di giornali e tv, fabbriche, uffici…
Spero di sbagliarmi, ma stavolta i bravi sindacalisti serviranno a poco.
Adesso che è passata, posso raccontarlo…
Adesso che è passata, possiamo raccontarlo.
La settimana scorsa abbiamo temuto che il Coronavirus fosse arrivato a casa nostra.
Io con una brutta tosse, eppure senza febbre.
Mio figlio Santiago, all’improvviso, ricoperto di bolle rosse – tipo morbillo, ma molto più grandi – su tutto il corpo.
La pediatra, allarmata, ci consiglia la visita in ospedale. In un ospedale? Il posto più pericoloso del mondo, in questo momento?
Potrebbe essere una forma di Covid-19 dei bambini, pare che altri pediatri abbiano registrato casi simili. E ad attaccarglielo potrei essere stato io, maledizione. Anche se sono veramente uscito pochissimo, durante questa quarantena.
La stessa pediatra mi segnala all’ASL come potenziale positivo: chiede che mi venga fatto il tampone.
Alla mattina, mia moglie e Santiago partono per l’Ospedale infantile Regina Margherita di Torino.
Il bimbo è rosso come una fragola, ma non sembra stare male. La febbre è poco oltre 37. In ospedale, gli fanno gli esami del sangue. Tutto a posto. Allora non è il virus! Probabilmente è solo una malattia dei bimbi, forse quella che si chiama “la quinta malattia”. I medici fanno comunque il tampone a mia moglie e a mio figlio. “In serata vi telefoniamo per il responso”, dicono.
Alla sera, Santiago e mia moglie tornano a casa. Siamo un po’ più tranquilli. Poco dopo, arriva la telefonata dall’ospedale: “Tamponi entrambi negativi”.
Niente fottuto virus. Stavolta, almeno noi, ti abbiamo fregato.
L’indomani, il bimbo comincia a “scolorirsi”, io ho ancora tosse e niente febbre (addirittura 34,9: debolezza infinita!), ma l’ASL mi comunica che – con due negativi in casa – non c’è bisogno di fare il tampone. E’ solo una bronchite di stagione, diagnostica il mio medico di famiglia.
Meglio cosi. Un’esperienza di cui faccio volentieri a meno.
Adesso che è passata, la paura, ho potuto raccontarlo.
Altri, molti altri, sono stati meno fortunati.
Non molliamo la presa, per favore.
“O il virus finisce o il teatro è finito”
Mentre si avvicina la Fase2, con le prime riaperture delle attività economiche decise dal governo italiano durante l’emergenza-Coronavirus, pare sempre più evidente quanto il mondo dello spettacolo (musica, cinema e teatro) venga considerato un’attività “non essenziale”: i rischi di un lungo stop e – poi – di mille problematiche di stanziamento sociale sono davvero concreti, purtroppo.
Sull’onda emotiva della lettera scritta dalla cantautrice Paola Turci e inviata a tutti i mezzi di informazione per sensibilizzare il problema economico enorme che coinvolge artisti, produttori e maestranze del mondo dello spettacolo, abbiamo chiesto a Cristina Bugatty, attrice di teatro e di cinema, come si esce da questa situazione di stallo.
“Purtroppo c’è solo una speranza: che il virus svanisca completamente. Perchè altrimenti il teatro è finito! Ho sentito parlare di teatri che potrebbero riaprire solo a dicembre, facendo entrare soltanto un terzo degli spettatori che può contenere, una poltrona si e due no. 100 spettatori anzichè 300, ad esempio. Vi sembra possibile? Chi avrebbe comunque il coraggio di tornare a teatro? Basti pensare che molti degli spettatori del teatro non sono più giovanissimi… E il cinema? Sento parlare di sanificazione delle sale appena finito un film e prima di far entrare il pubblico per lo spettacolo successivo: ma quanto costa questa sanificazione? A carico del privato? E servirebbe davvero? Temo proprio che, se il virus non sparisce, molti gestori di cinema e teatri saranno costretti a chiudere”.
Poco prima del lockdown in tutta Italia, Cristina Bugatty ha fatto quanto meno in tempo a completare la prima parte della tournèe nazionale dello spettacolo teatrale a due con la mitica Anna Mazzamauro, dal titolo “Belvedere – Due donne per aria” e farsi notare da milioni di spettatori in una bella parte nel film “La dea fortuna” di Ozpetek, uscito a Natale 2019. Ma chissà, ora, quanti impegni saltati…
“Sono rovinata! E molto arrabbiata! Noi e il nostro musicista avevamo in programma ancora due mesi di tournèe a teatro, con uno spettacolo che tocca tematiche delicate e a volte scabrose – ad esempio il sesso per i disabili, ma non solo – ma che noi siamo riuscite a rendere nel modo più sensibile, in modo da ottenere l’approvazione da parte del clero. Abbiamo avuto ovunque un ottimo successo, dovevano ancora andare a Firenze e perfino a Tor Bella Monaca, zona difficile di Roma, dove abbiamo in atto un progetto a sfondo sociale. Insomma: un sacco di cose da fare e, invece, tutto è stato bloccato dal maledetto virus”.
Cristina Bugatty ci racconta come sta vivendo la sua quarantena solitaria. “Vivo da sola, in centro a Milano. Per fortuna la solitudine non mi dispiace, anzi. Sto bene con me stessa. Faccio la spesa on-line e non sono mai uscita, fino a qualche giorno fa. Esco, con la mascherina e i guanti, cerco di stare a debita distanza e poi mi capita di incrociare un tizio senza mascherina che mi tossisce in faccia…allora meglio restare a casa!”
E per il suo futuro a teatro? Come la vede? “Bisogna tornare alla fiducia, nostra e degli spettatori. Ma sapete quanti baci abbiamo dato io e Anna Mazzamauro alla fine degli spettacoli al pubblico che veniva a congratularsi con noi? Centinaia e centinaia di baci! Ed è bellissimo! Ecco, quello è il vero teatro, dobbiamo tornare ad avere fiducia in questo, ma ci vorrà del tempo. E le istituzioni dovranno investire di più in tamponi, in salute, in prevenzione, anche in comunicazione, per farci vincere anche un altro pericoloso virus: la paura”.
Che stranissima bruttissima Pasqua 2020
Che stranissima bruttissima Pasqua che abbiamo appena passato…
I nostri “arresti domiciliari” causati dal Coronavirus e dalle decisioni del governo italiano ci hanno costretto a passare in casa anche queste festività, oltre un mese dopo l’inizio della quarantena.
Abbiamo provato a far finta di niente, a far finta che tutto fosse normale, ma non bastano le pastiere napoletane e le uova di Pasqua a darci una benchè minima parvenza di normalità. Non poter uscire di casa nemmeno per una passeggiata la ritengo una grossa limitazione della libertà personale. Roba da denuncia della violazione dei diritti umani. Non poter neppure poter organizzare una bel pranzo di Pasquetta con la famiglia, come si faceva ai bei tempi. Non poter fare proprio nulla, altrimenti arrivano carabinieri, polizia e vigilotti urbani a denunciarti e a farti la multa.
Qualcuno ha provato a fare il furbo, organizzando una grigliata sul tetto del palazzo (è successo a Palermo) oppure scappando di casa per andare dall’amante (un uomo di Torino per recarsi ad Alba): ma gli è andata male! Contro i droni – addirittura i droni – non c’è stato nulla da fare. Uno stato di polizia.
Che stranissima bruttissima Pasqua, dove abbiamo visto un dispiegamento di forza dell’ordine come non si era mai visto prima, contro delinquenti e mafiosi. Ma contro i poveri cittadini, si. Speriamo che poi, le forze dell’ordine, diano la caccia cosi energicamente anche ai mascalzoni e non riprendano solo a fare multe o ad arrivare in ritardo quando succede qualcosa…
Che stranissima bruttissima Pasqua, dove il premier Conte annuncia qualche riapertura (cartolerie, librerie e negozi per bambini) e il governatore di qualche regione (di area politica diversa dal governo) reagisce decidendo di annullare le decisioni di Conte e le riaperture previste. Sporchi giochetti politici, sulla nostra pelle. Non è proprio il momento. Ma ce ne ricorderemo, alle prossime elezioni.
Che stranissima bruttissima Pasqua, dove noi siamo in casa da oltre un mese e il numero dei morti, più o meno, è sempre lo stesso?
Che stranissima bruttissima Pasqua, dove qualcuno già parla di fase 2, di aziende che riaprono, di economia da salvare, di parenti da andare a salutare, addirittura delle vacanze al mare, ma di sicuro non sappiamo niente, nemmeno quando arriverà il vaccino e se servirà a qualcosa.
Serviranno a qualcosa i nostri sforzi?
Speriamo di si.
Perchè, sappiatelo, ci stiamo stufando.
La Banda delle Malvinas
Era il 2 aprile 1982. Il generale Galtieri, erede del generale Videla alla guida della Junta Militar che nel 1976, con un colpo di stato, aveva soggiogato ad un ruvida dittatura tutta l’Argentina, decise di inviare le truppe ad occupare le Malvinas, piccolo e sperduto arcipelago di isole dell’Atlantico, ricche di pecore e – soprattutto – di petrolio.
Quelle isole al largo dell’Argentina erano sempre state rivendicate dal paese sudamericano, ma dal punto di vista geopolitico erano di “proprietà” del Regno Unito. Gli inglesi le chiamavano “Falklands“. . . Nella capitale, Port Stanley, tutti i locali avevano nomi inglesi, ed erano ormai inglesi tutti gli abitanti, alcuni di loro proprietari di pub, con birre inglesi, scozzesi e irlandesi, fish and chips e cose del genere.
Gli argentini erano solo un folkloristico contorno. Ma non fu esattamente per difendere l’onore dei compatrioti che la Junta Militar decise di avventurarsi in quella guerra, perduta in partenza, contro il Regno Unito. Fu l’ultimo colpo di coda, l’ultimo rigurgito di una dittatura ormai alla fine, strangolata a livello diplomatico internazionale dalla bassa macelleria perpetrata in quei sei anni, compresi, naturalmente, le migliaia di desaparecidos che mai più fecero ritorno a casa. La premier britannica Margareth Thatcher mostrò i muscoli e in poco più di 70 giorni spazzò via le ridicole velleità militari argentine.
E’ una storia che mi ha sempre colpito, una guerra breve e dimenticata, ai confini del mondo. Qualche anno fa ne ho scritto persino un libro, dal titolo “La Banda delle Malvinas”. Lo avranno letto in dodici, pazienza. Volevo attingere da fonti ufficiali, ma gli argentini – soprattutto le associazioni dei reduci – diedero una versione troppo argentina e gli inglesi una versione troppo inglese. Decidi allora di non stare nè con gli uni nè con gli altri, ma di raccontare a modo mio, in maniera anche fantasiosa (in fondo è un romanzo), un episodio sconosciuto di una guerra sconosciuta: la Giunta Militare argentina voleva rapire la Thatcher a Londra. Piano che venne scoperto e che mandò a monte le ultime speranze della dittatura argentina di non perdere una guerra rovinosa. E di non perdere il potere entro le mura di casa.
Una guerra che, se non altro, ebbe poi un risvolto positivo, per quanto positivi possano essere i risvolti di una guerra: la fine della dittatura in Argentina.
Il Paradiso mi stregò…
In questi giorni di quarantena, ho rivisto con piacere uno dei miei film preferiti in assoluto: “Tutta colpa del Paradiso”. Per me si tratta di un capolavoro, firmato da Francesco Nuti alla regia e come attore principale, insieme ad una bellissima Ornella Muti, che in quell’anno di grazia 1985 compiva 30 anni. Io ne avevo 15, ma il film lo vidi qualche anno dopo, in tv.
Un film divertente e, al tempo stesso, toccante: la storia di un papà appena uscito di carcere che vuole rivedere il figlio di sei anni, adottato da un’altra famiglia e inventa una serie di stratagemmi per stargli vicino, fino a quando non viene scoperto da un puntigliosa e spietata assistente sociale (Laura Betti).
Secondo me, il punto più alto della carriera di Nuti, insieme all’altro suo film “Caruso Pascoski“, interpretato insieme a Clarissa Burt. Ma “Tutta colpa del Paradiso” è ancora meglio: non solo per gli occhi di Ornella Muti, non solo per la caccia “matta e disperatissima” allo stambecco bianco da parte di Roberto Alpi (il marito di Ornella Muti nel film), ma proprio per la bellezza del Gran Paradiso, dove fu ambientata la pellicola, con bellissimi scorci delle montagne e belle scene di paese girate a Champoluc. Un film che mi ha stregato, un “Paradiso” che mi ha stregato.
Uno dei film che più ho amato di Francesco Nuti, a cui va il mio eterno ringraziamento per la sua comicità intelligente e stralunata.
E un pensiero a lui, in questa sua lunga e difficile fase della sua vita.