Catalogna, condanne agli indipendentisti: una vergogna spagnola


In assenza dell’ex presidente Carles Puigdemont, da allora riparato in Belgio, e per il quale è stato emesso un nuovo mandato di cattura internazionale, la condanna più dura colpisce quello che era il suo vice, Oriol Junqueras, che è anche il leader, carismatico e indiscusso, della più forte formazione politica secessionista, Esquerra Republicana de Catalunya. Per lui, appunto, 13 anni, da scontare nella prigione catalana di Lledoners, dove è già rinchiuso da due.

Dodici anni di carcere per gli ex assessori Jordi Turull, Raül Romeva e Dolors Bassa, 11 e mezzo per l’ex presidente del Parlament, Carme Forcadell, 10 anni e mezzo per gli altri assessori Josep Rull e Joaquim Forn e 9 anni per gli unici due imputati che non avevano responsabilità dirette nell’amministrazione, Jordi Sànchez e Jordi Cuixart. “Los Jordis”, come sono conosciuti, erano i presidenti dei due grandi movimenti della società civile, Anc e Òmnium Cultural, che negli ultimi anni avevano organizzato le manifestazioni di massa dell’indipendentismo catalano. E furono loro a convocare anche la protesta del 20 settembre 2017 davanti alla sede dell’assessorato all’Economia, a Barcellona, subito dopo l’arresto di alcuni alti dirigenti dell’amministrazione regionale. Una manifestazione – maggioritariamente pacifica, ma con qualche incidente – che si protrasse per tutta la giornata, raccogliendo a sorpresa fino a 40mila persone mentre all’interno era ancora in corso la perquisizione da parte della Guardia Civile.

Quella protesta (seguita il 1° ottobre dalla giornata referendaria, con l’uso della forza da parte della polizia per tentare di impedire agli elettori di andare alle urne) è stata la base su cui la procura del Tribunale supremo ha costruito la tesi accusatoria contro gli indipendentisti, ipotizzando il reato di “ribellione”. Per il codice, una “sollevazione pubblica e violenta” nel tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale. In sostanza, un attentato alla Costituzione, un “golpe” come lo hanno definito gli stessi 4 procuratori che si sono alternati davanti al Tribunale supremo nei quattro mesi di processo, da febbraio fino al giugno scorso. Ma alla fine i sette giudici della più alta istanza giurisdizionale spagnola hanno accolto all’unanimità la tesi dell’avvocatura dello Stato (e quindi del governo) che parlava di “sedizione”. In questo caso si tratta di un reato contro l’ordine pubblico, una “sollevazione tumultuosa” per impedire l’applicazione delle leggi o non permettere all’autorità di applicare le “risoluzione amministrative e giudiziarie”.

La morale è una sola: nessuno vuole sul serio fermare Erdogan

di Claudio Visani (Globalist.it)

“#poveraeuropa: nessuna posizione comune, neanche un documento comune di condanna della Ue per l’invasione turca del Kurdistan siriano.
Patetico Di Maio che dice “ora l’Europa parla con una sola voce”.
Ogni paese dovrà decidere in autonomia sul blocco delle esportazioni di armi a Erdogan. Che poi sarebbe solo una decisione simbolica perché Erdogan ha gli arsenali pieni delle armi fornite dall’Occidente con le quali sta massacrando i curdi, occupando una fetta di territorio di un altro paese, la Siria, e uccidendo i giornalisti per tenerli lontani dalla scena.
Morale: nessuno vuole fermare Erdogan. Se lo volessero fare la Nato dovrebbe decidere subito una “no fly zone” su quell’area, ma la Turchia è membro di peso della Nato quindi nisba. E si dovrebbero decidere dure sanzioni economiche. Ma gli affari sono affari e i soldi non hanno odore, neanche quelli che arrivano all’Italia, terzo partner commerciale, dal dittatore turco.
Poi c’è il ricatto dei profughi che Erdogan minaccia di far arrivare in Europa. Vorrete mica che ci facciamo invadere per difendere i curdi?
Che brutto mondo”.

Soldatesse curde.

Adesso chiamatelo CR700…

Una brutta sconfitta per il Portogallo, una grande cifra per Cristiano Ronaldo.

Quota 700!

Con il rigore trasformato allo Stadio Olimpixsky di Kiev contro l’Ucraina (partita persa 2-1 dal Portogallo), il 34enne attaccante portoghese della Juventus ha raggiunto i 700 gol in carriera, cosi distribuiti: 95 con la maglia della nazionale, 605 con le sue squadre di club (Sporting Lisbona, Manchester United, Real Madrid e Juventus).

CR7 si conferma come il giocatore in attività con piiù reti realizzate: il suo rivale di sempre, Leo Messi, lo segue a distanza, con 672 gol.

Sono passati ben 17 anni dal primo gol del 17enne Cristiano Ronaldo, segnato con la casa biancoverde orizzontale dello Sporting contro la Moreirense e 17 anni dopo l’impresa del brasiliano Romario, l’ultima capacità di arrivate alla vetta delle 700 reti.

I gol di CR700 sono stati cosi ripartiti: 5 gol in 31 partite con lo Sporting Lisbona (2002-2003), 118 in 292 partite con il Manchester United (2003-2009), 450 in 435 partite con il Real Madrid (2009-2018), 32 in 51 gare con la Juventus (2018-2019).

Se il primo gol fu in Sporting-Moreirense del campionato portoghese, il 100° fu in Manchester United-Tottenham di FA Cup, il 500° in Real Madrid-Malmo di Champions League e il 600° proprio contro la Juventus, sempre in Champions.

Delle 95 reti in nazionale portoghese, 30 (in 39 partite) le ha segnate nelle qualificazioni mondiali, 7 (in 17 partite) nelle fasi finali dei Mondiali, 27 (in 32 incontri) nelle qualificazioni europee, 9 (in 21 in match) nelle fasi finali degli Europei, 17 in 47 amichevoli, 3 in due partite di Nations League e 2 in quattro partite di Confederations Cup.

Secondo una meravigliosa statistica, dei suoi 700 gol in carriera Cristiano Ronaldo ne ha segnati 442 con il piede destro, 129 con il sinistro, 127 di testa e 2 di…petto!

Sembra impossibile, semmai, l’assalto di Cristiano Ronaldo al record assoluto dell’austriaco Josef Bican, che dal 1933 al 1956 – altri tempi – mise a segno in totale 885 gol.

 

Cristiano Ronaldo trasforma il rigore del suo gol numero 700 in carriera.
REUTERS/Valentyn Ogirenko

Curdi: 100 anni di lotte e promesse mancate

Ai tradimenti i curdi sono abituati. Il ritiro degli Stati Uniti dalla Siria deciso da Trump, seguito dall’offensiva turca, è solo l’ultimo di una lunga serie. Il grande Kurdistan, sogno cullato da uno dei più grandi gruppi etnici senza uno stato, è sempre rimasto sulla carta.

Il primo tradimento è storia di quasi cento anni fa. È il 1920: il trattato di Sèvres sancisce la fine della prima guerra mondiale e dell’impero ottomano, ai curdi viene promessa la concessione di uno Stato autonomo nell’altopiano del Kurdistan.

Tre anni dopo a Losanna Regno Unito, Francia e Stati Uniti si rimangiano la parola, dando il via libera alla creazione di altri stati. Da quel comento comincia una storia costellata da delusioni cocenti e successi fugaci come la Repubblica di Mahabad, fondata nel 1946 e durata appena 11 mesi prima di essere rasa al suolo da Teheran.

Il 1972 è l’anno del primo tradimento americano. Lo Scià di Persia, Mohammad Reza Pahlavi, chiede agli Stati Uniti di appoggiare la rivolta dei curdi in Iraq. Il presidente americano Richard Nixon e il segretario di Stato Henry Kissinger accolgono la richiesta. Gli Usa armano i ribelli per destabilizzare Baghdad, ma tre anni dopo Iran e Iraq trovano un accordo e i curdi vengono lasciati al loro destino.

Il 1978 è l’anno di nascita del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) di Abdullah Ocalan. Il nord dell’Iraq diventa l’avamposto per la guerriglia contro Ankara: un conflitto destinato a segnare i quattro decenni successivi.

Negli anni ’80 i curdi si ritrovano ancora una volta in mezzo al conflitto tra Iran e Iraq. Saddam Hussein dà inizio al genocidio che culmina con l’attacco chimico di Halabja, dove muoiono circa 5mila persone.

La Guerra del Golfo nel 1991 rappresenta il secondo tradimento americano. Saddam reprime nel sangue la rivolta curda incoraggiata da Bush senior. I curdi sono costretti a rifugiarsi nelle montagne tra Turchia e Iraq. Se non altro gli Stati Uniti impongono una no-fly zone per salvarli dai bombardamenti: un accordo durato fino all’invasione americana del 2003 voluta da Bush junior.

Il resto è storia recente. Nel 2011 la guerra civile in Siria permette ai curdi siriani di formare un’amministrazione autonoma nel nord-est del Paese. Gli Stati Uniti gli danno man forte per combattere l’Isis. Un’alleanza finita con un altro tradimento.

W la tecnologia! (senza esagerare)

Ho avuto il primo cellulare a 27 anni e il primo indirizzo e-mail a 31 anni: adesso mi sembra impossibile poter vivere senza. Ma come si faceva prima? Non solo gli amici, ma anche il datore di lavoro ti chiamava al telefono di casa per comunicare qualche novità? Sembrano passati mille anni da allora. Eppure si viveva bene lo stesso, ignari della “rivoluzione tecnologica”. Ma ora, per fortuna, non si può più tornare indietro dal progresso, in nessun settore. E quelli che invocano un ritorno ai “bei tempi di una volta” si mettano l’animo in pace o vadano a fare i monaci buddisti sull’Himalaya.
W la tecnologia – magari senza esagerare a scapito dei rapporti umani – che mi permette, tra l’altro, di vedere mio figlio che, da un telefono, mi dice “Ciao” di fretta e poi scappa perchè ha mille cose da fare e non ha tempo da perdere con il vecchio babbione del suo babbo….

Non è che siamo un po’ troppo connessi con il mondo?

Una frecciatina a Greta

Andrew Bolt, giornalista di SkyNews Australia smaschera l’ipocrisia dei giovani che manifestano per il clima:

«Voi siete la prima generazione che ha preteso l’aria condizionata in ogni sala d’aula; le vostre lezioni sono tutte fatte al computer; avete un televisore in ogni stanza; passate tutta la giornata a usare mezzi elettronici; invece di camminare a scuola prendete una flotta di mezzi privati che intasano le vie pubbliche; siete i maggiori consumatori di beni di consumo di tutta la storia, comperando in continuazione i più costosi capi di abbigliamento per essere trendy; la vostra protesta è pubblicizzata con mezzi digitali e elettronici.

Ragazzi, prima di protestare, spegnete l’aria condizionata, andate a scuola a piedi, spegnete i vostri telefonini e leggete un libro, fattevi un panino invece di acquistare cibo confezionato. Niente di ciò accadrà, perché siete egoisti, mal educati, manipolati da persone che vi usano, proclamando di avere una causa nobile mentre vi trastullate nel lusso occidentale più sfrenato. Svegliatevi, maturate e chiudete la bocca. Informatevi dei fatti prima di protestare”.

Il giornalista australiano Andrew Bolt, “nemico” di Greta.

I 90 anni del “Re senza Corona”, Stirling Moss

La salute non è delle migliori, fa sapere l’amico tre volte campione del mondo di F.1 Jackie Stewart – che ancora possiede un autografo di Stirling Moss quando Jackie aveva appena dodici anni -, ma la testa di quel grande campione che è stato Sir Stirling funziona ancora bene.

Funziona ancora bene per ricordare il suo primo successo nel G.P. d’Inghilterra, primo inglese a vincerlo, nel 1955, sul circuito di Aintree, proprio a fianco dell’ippodromo.
Fu la prima delle sue 16 vittorie mondiali (con Mercedes, Maserati, Vanwall, Cooper e Lotus) e 16 pole position su 66 Gran Premi disputati.

Mai campione del mondo, però: ecco il perchè della definizione “Re senza Corona“, etichetta che non è mai dispiaciuta a Stirling Moss, anzi.
Quando Nigel Mansell si laureato campione del mondo di F.1 nel 1992 mi sono sentito sollevato. Avevo conservato la mia particolarità“, disse Sir Stirling.

La sua particolarità? Quattro secondi posti nel Mondiale di F.1 per quattro anni di fila (1955-56-57-58), l’ultima volta per un solo punto di distacco da Mike Hawthorn!

A metà degli anni ’50, la carriera di Stirling Moss – che aveva corso finora con piccole scuderie inglesi (HVM, ERA, Connaught) – ha un’impennata quando entra nella scuderia Mercedes, che – all’epoca come oggi – dominava il Mondiale di F1.
Alla Mercedes il primo pilota era il mitico Juan Manuel Fangio, ormai 44 anni carichi di gloria. Moss, a 26 anni, gli fu un perfetto “secondo”.

La leggenda narra addirittura che la vittoria nel Gran Premio d’Inghilterra del 1955, a cui abbiamo accennato prima, sia stato proprio un gentile omaggio di Fangio, che avrebbe lasciato vincere il compagno di squadra inglese nella corsa “di casa”.
Non ho mai saputo la verità“, dichiarò Moss in un’intervista a ‘Motorsport’. “Glielo chiesi, ma Fangio, con un sorriso, mi rispose: ‘Oggi sei andato fortissimo, era il tuo giorno’“.

Da compagni di squadra e amici a rivali il passo è breve.
Nel 1956, dopo il ritiro dalla corse della Mercedes, Fangio va alla Ferrari, Moss alla Maserati.
Sir Stirling vince, tra l’altro, a Montecarlo e due volte il Gran Premio d’Italia (1956 1957), ma l’argentino lo procede sempre nella classifica mondiale, nel 1956 (per appena tre punti) e nel 1957 – con Moss alla scuderia inglese Vanwall, vincendo di nuovo il G.P. d’Inghiterra -, quando Fangio conquista il suo quinto titolo mondiale piloti.

“Preferisco passare una serata a parlare di corse con Stirling Moss che una notte con Marilyn Monroe”.

Steve McQueen

Attore (1930-1980), appassionato di auto

Steve McQueen con Stirling Moss

 

Quando nel 1958 Fangio si ritira, Stirling Moss è il grande favorito per il Mondiale.
Ma lo “regala” a Mike Hawthorn su Ferrari per… troppa sportività.

Durante il Gran Premio del Portogallo, la giuria avrebbe voluto squalificare il ferrarista per un manovra pericolosa e marcia indietro dopo un testa-coda, ma Moss – vincitore della corsa – perorò la causa del rivale e la giuria confermò cosi il secondo posto di Hawthorn, con i suoi sette punti in classifica. Ecco spiegato quel punticino di differenza alla fine…

Un terribile incidente nel 1962, a Goodwood – rimasto imprigionato per oltre mezzora nella sua Lotus – gli procurò gravi ferite alla testa e, convinto di non poter tornare ad alti livelli, chiuse definitivamente con la F.1, ad appena 32 anni.

Ma il suo amore per i motori sarà consacrato negli anni a venire alle corse con auto storiche, lui che aveva vinto la Mille Miglia e la Targa Floria nel 1955 e molte altre corse, come la 12 Ore di Sebring, la 1000 Chilometri del Nurburgring e il RAC Tourist Trophy.

Una passione per le corse che, ne siamo certi, continua a scorrere nelle vene di Stirling Moss anche oggi, nel giorno del suo compleanno numero 90.

I 100 anni del “Campionissimo”

Fausto Coppi, il Campionissimo, l’Airone, uno dei più grandi ciclisti di tutti i tempi, compirerebbe 100 anni il 15 settembre.

Nato nel 1919 a Castellania, in provincia di Alessandria, Coppi è da sempre un simbolo dello sport italiano, ma anche della rinascita del nostro paese dopo la Seconda Guerra Mondiale – a cui Fausto sacrificò parecchi anni della carriera – e di un certo stile di vita nell’Italia del Dopoguerra che stava cambiando.

Ma soprattutto, è stato un grande campione.
L’albo d’oro parla chiaro: 5 Giri d’Italia (1940-47-49-52-53), 2 Tour de France (1949-52), 5 Giri di Lombardia, 3 Milano-Ssanremo, un Campionato del Mondo, il record dell’ora su pista e un’infinità di altre vittorie.

In mezzo, la Guerra, la prigionia, la tragedia del fratello Serse, l’amore per la *Dama Bianca*, la rivalità – strumentalizzata anche politicamente – con Gino Bartali.

Fino alla morte prematura, ad appena 40 anni.

Serse e Fausto Coppi.

Caserta è la città dove Fausto, dopo la prigionia in Tunisia e in Algeria, era stato trasferito nel febbraio del ’45 come attendente del colonnello inglese Towell.
A guerra finita, Coppi era partito in bici da Caserta il 30 aprile e, un po’ pedalando e un po’ grazie a passaggi di fortuna in automobile, aveva risalito la penisola semidistrutta, giungendo al suo paese nel pomeriggio di sabato 5 maggio.
Poco prima di arrivare a casa, aveva fatto una sosta a Villalvernia per salutare la fidanzata Bruna, che non vedeva da due anni e mezzo e che avrebbe sposato il 22 novembre di quello stesso anno.

La gente lo ama ancora, come prima, come sempre.
Come quei cicloamatori che – tutti gli anni a settembre – partono proprio da Caserta per arrivare a Castellania, ripercorrendo il “percorso storico” compiuto dal Campionissimo per tornare a casa.

800 km.
Semplicemente nel nome di Fausto Coppi.

In ricordo di Erika

Apprendo in queste ore, con tristezza e sgomento, la notizia della scomparsa di Erika Vaccaro, avvocato e attrice.
Per un breve e intenso periodo abbiamo condiviso la stessa passione per il teatro, con sabati pomeriggio e lunedi sera invernali di prove e con la prima dello spettacolo “Non tutti i mali vengono per…suocere”, appena 7 mesi fa.
Appena 7 mesi fa, sembra incredibile. Eravamo lì sul palco e adesso lei non c’è più.
Ci rimangono tante foto spiritose, qualche video allegro da vedere e rivedere e il ricordo di una persona tutta d’un pezzo.
Rip, Erika.