“Ma chi ti credi di essere? Gimondi?”

Quando vedevi qualcuno sfrecciare a tutta velocità su una bici persino improbabile, veniva naturale chiedergl, a guisa di bonario sfottò: “Ma ti chi credi di essere? Gimondi?

Tale era la popolarità dell’ex grande Campione del ciclismo italiano, Felice Gimondi, scomparso per un malore mentre faceva il bagno nelle acque di Giardini Naxos, in Sicilia.

L’ex corridore, vincitore di tre Giri d’Italia e un Tour de France, avrebbe compiuto 77 anni il prossimo 26 settembre e da tempo soffriva di cuore.

Gimondi, in vacanza assieme alla famiglia, quando ha accusato il malore è stato soccorso da una motovedetta della Guardia Costiera. Tuttavia a nulla sono valsi i tentativi di rianimarlo da parte dei medici, a detta dei quali sarebbe morto per un infarto.

La salma è stata trasferita nell’ospedale di Taormina, nell’attesa che venga autorizzato il trasferimento a casa.

Soprannominato “Felix de Mondi” e “Nuvola Rossa”, Felice Gimondi ha scritto la storia del ciclismo internazionale: leggendarie le sue sfide con Eddy Merckx, il suo grande rivale.
Quanto avrebbe vinto Gimondi, se non avesse incontrato sulla strada il “Cannibale*…

Gimondi vinse sorprendentemente il Tour de France nel 1965 a nemmeno 23 anni e solo dopo quel trionfo si dimise dal lavoro di postino (che aveva ereditato dalla mamma, celebre postina di Sedrina, il paese di Gimondi).

i trionfi al Giro d’Italia, invece, giunsero nel ’67, ’69 e’76.

Dopo il ritiro dall’attività agonistica, fu Direttore Sportivo della Gewiss-Bianchi nel 1988 e nel 2000 Presidente della Mercatone Uno-Albacom, la squadra di Marco Pantani, cercando – e non sempre riuscendoci – un rapporto da “fratello maggiore” con il “Pirata”.

Nato a Sedrina, in provincia di Bergamo, Gimondi è stato professionista dal 1965 al 1979: è uno dei sette corridori ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri (Giro d’Italia, Tour e la Vuelta a España, nel 1968) e anche un Campionato del Mondo, nel ’73.
Ha vinto anche tre classiche “monumento”: una Milano-Sanremo (1974), una Parigi-Roubaix (1966) e un Giro di Lombardia (1973).

Felice Gimondi in maglia gialla al Tour de France 1965

Personalmente, mi era capitato di incontrare Felice Gimondi almeno un paio di volte, ormai parecchi anni fa, almeno una decina.
Una volta per la presentazione della tappa bergamasca di un Giro d’Italia, naturalmente a lui dedicata, e – in un’altra circostanza – al via della sua “Gran Fondo Felice Gimondi“, che da anni raccoglie la partecipazione di migliaia di appassionati di bici per le strade di Bergamo, riuniti sotto l’ala protettrice del “Felice nazionale”.

Lo ricordo sempre gentile e disponibile, con i giornalisti, anche con quelli più giovani.
Mai una foto negata, mai una intervista negata, mai un atteggiamento da star, lui che è stato un grande Campione.

In queste ore tanti ex corridori, ciclisti del passato e del presente, ma anche semplici appassionati hanno ricordato Gimondi a modo loro. Anche attraverso un rito a cui nessuno di noi ragazzi di una volta si è mai sottratto: la corsa delle biglie con le “facce” dei ciclisti sulla sabbia.

E io, che veleggiavo con il tifo già verso Moser, rimasi comunque affascinato dalla biglia del “vecchio fusto” Felice Gimondi.
Devo ancora averla, da qualche parte.
Mi piacerebbe ritrovarla.
Chissà, un giorno…

Annecy, finalmente!

Non solo il lago, c’è di molto di più ad Annecy.
Dopo un paio di rinvii dell’ultimo minuto – una volta anche per i mercatini di Natale, causa eccessiva nevicata – finalmente ce l’ho fatta ad Annecy. Una città-canale, una piccola Venezia, una Amsterdam in miniatura, una Bruges in scala ridotta, giusto per rifersi ad altre città che “vivono sull’acqua”. Non a caso, infatti, viene definita la “Venezia delle Alpi”.

Tasso c’è, ad Annecy.

Siamo in Alta Savoia, a 40 km da Ginevra, ancora meno dal confine svizzero. E dai loro vicini elvetici, l’amministrazione pubblica di Annecy ha sicuramente preso esempio per mantenere un alto livello di pulizia, ordine e decoro. Nonostante le migliaia di turisti che in estate ogni giorno prendono d’assalto la città.
Lago, canali, chiese, parchi (molto bello il Parco Europa!), installazioni artistiche e il Castello appartenuto ai conti di Ginevra. Poi, per fare un break, tanti tipici ristoranti “savoiardi” con le tovaglie a quadretti bianco e rossi, dove scegliere la più tipica delle specialità: la Raclette, una sorta di tagliere di salumi e formaggi (il Raclette incluso), anche fusi, che vengono serviti con diversi tipi di accompagnamento. Buono, dicono, ma un tantino invernale. In agosto è meglio l’eccellente frittura di pesce di lago. Attenzione: i prezzi non sono propriamente economici!
La foto simbolo è quella del Palais de l’Ile, le “vecchie prigioni” (e lo erano veramente), sistemato al centro di uno dei canali, il canale di Thou. E se siete innamorati, cosa c’è di meglio del Pont des Amours, che poi vi conduce al lago, magari per una gita in motoscafo (o, romanticamente, in pedalò) all’interno del lago di Annecy.
Adesso, lo ammetto, sono curioso di tornare per i famosi mercatini di Natale.
Chi viene?

Che foto immortale!

John, Paul, Ringo e George, i Beatles, erano ormai alla fine, ma i loro scatenati fan in tutto il mondo non potevano ancora saperlo.

L’ultimo loro album in studio, “Abbey Road“, è diventato un cult anche grazie anche alla celeberrima copertina, che ritrae i Fab Four mentre attraversano le strisce pedonali proprio di Abbey Road, a Londra.
La foto fu scattata da Ian McMillan l‘8 agosto 1969, esattamente 50 anni fa.
L’album usci il 26 settembre di quell’anno e per le nozze d’oro sono previste ulteriori celebrazioni.

La foto del passaggio pedonale è imitata da tutti i turisti, nessuno resiste alla tentazione di farsi uno scatto in stile-Beatles.
Qui si respira Beatles ovunque: ci sono anche gli Abbey Road Studios, della EMI, l’etichetta discografica degli “Scarafaggi”.

L’idea della fotografia fu di Paul Cartney: “Usciamo e facciamo una foto, cosi sue due piedi“, disse.
Un poliziotto fermò il traffico, il tutto doveva durare cinque minuti, invece servirono ben sei attraversamenti pedonali e sei scatti per poi scegliere il migliore (il quinto), quello rimasto immortale.

Su Twitter, in questa giornata di infinite celebrazioni e ricordi, esce anche una curiosa foto del backstage, qualche minuto prima della iconica foto…

La leggenda narra, però, che la copertina di “Abbey Road” non rappresenti altro che il funerale del vero Paul McCartney.

Si pensa che l’abito bianco di John rappresenti il colore del lutto in alcune religioni orientali e che Ringo indossi un tradizionale completo nero. In più, Paul, a piedi scalzi, tiene una sigaretta nella mano destra. A quel tempo, le sigarette erano comunemente chiamate “chiodi della bara“.

Non dimentichiamo poi che Paul tenne i sandali ai piedi per i primi due scatti e, soltanto in un secondo momento, decise di camminare scalzo. Alcuni hanno visto in questo gesto il tentativo di darci un ulteriore indizio.

Ma è solo una leggenda…

 

 

 

 

“Block 46”: l’evoluzione della specie “noir scandinavo”

E’ l’evoluzione della specie “noir scandinavo”. Scritto nel 2016 da Johana Gustawsson, scrittrice svedese residente da anni in Francia, dove i suoi libri hanno molto successo (in Italia è pubblicata da La Corte Editore, editore indipendente e intraprendente), questa caccia al serial killer ha almeno due particolarità che lo contraddistinguono dal resto dell’offerta giallistica del Nord-Europa, un filone che sembra non finire e non stancare mai (io, un po’ si).
Intanto la scena del crimine (dei crimini) è doppia: la classica Svezia sotto la neve – qui, in particolare, la città di Falkenberg -, ma anche la Londra più metropolitana e turistica che ci sia. È in questi due luoghi cosi diversi e cosi distanti, infatti, che avviene una serie di omicidi – diversi bambini tra i 6 e gli 8 anni – e una donna, Linnéa Blix, stilista di successo, che sembra essere stata assassinata…per caso. O perchè ha riconosciuto qualcuno che non doveva riconoscere. Tutte le vittime, tuttavia, vengono sezionate in modo identico: squartata la trachea, cavati gli occhi, rasati i peli, con la lettera Y o X (ma sono veramente lettere?) incisa sul braccio. Perchè questo macabro rituale? Indaga la polizia svedese, indaga Scotland Yard, indaga la scontrosa profiler Emily Roy, indaga la scrittrice francese Alexis Castells, con un tragico passato, che scrive di altre tragedie come fosse una terapia del dolore.
Manca ancora la seconda peculiarità del libro, che ci riporta al 1944, al campo di concentramento di Buchenwald, dove un giovane deportato tedesco, Erich, presta le sue conoscenze mediche al servizio dei medici nazisti, nel famigerato Block 46…

Senza indugiare in particolari horror (tranne forse per il racconto del lager, veramente un pugno nello stomaco!), “Block 46” è un noir appassionante e “puro”, dallo stile sobrio ed essenziale. Che vi appassionerà al genere o, nel mio caso, vi riconcilierà con le troppo spesso ripetitive storie svedesi, norvegesi, islandesi…
Ma, alla fine, una domanda sorge spontanea: capisco che la neve fa il suo effetto, ma non si potrebbe scrivere un giallo scandinavo ambientato in estate?
E adesso mi leggo il nuovo romanzo di Johana Gustawsson, “L’Emulatore”…

Egan Bernal, il “Pantani” della Colombia

I francesi ci sono rimasti male, e bisogna capirli: non vincono il Tour de France dal 1985 (l’ultimo trionfatore fu Bernard Hinault), avevano sperato in Thibaut Pinot e, soprattutto in Julian Alaphilippe – in maglia gialla fino alla terz’ultima tappa -, ma poi hanno scoperto che a “scippare” loro la Grande Boucle è stato un signor giovane corridore: Egan Arley Bernal Gómez. Per tutti, semplicemente: Egan Bernal.

Ha vinto meritatamente questo Tour de France 2019, lo ha vinto perchè è stato il miglior scalatore di tutti e perchè, bisogna dirlo, la mancanza di una cronometro finale lo ha favorito, a scapito del suo (presunto) capitano e precedessore (nell’albo d’oro) Geraint Thomas.

A Egan Bernal vogliamo bene anche noi italiani, anche perchè la sua storia sportiva da professionista è cominciata proprio in Italia. A scoprirlo fu il talent-scout torinese Gianni Savio – scopritore dei più grandii ciclisti colombiani degli ultimi decenni e Commissario Tecnico di Colombia e Venezuela – che lo portò nella sua squadra, la Androni-Giocattoli. Bernal è stato “torinese” a tutti gli effetti – e con molti affetti -, vivendo nel Canavese, a San Colombano Belmonte e a Cuorgnè, grazie all’amico Vladimir Chiuminatto, ora presidente del Fan Club dedicato a “Eganito”

Ma noi siamo affezionati ancor di più a Bernal da quando abbiamo scoperto che è nato il 13 gennaio, lo stesso giorno di Marco Pantani.
27 anni dopo.
Un segno del destino? Sicuramente. E un po’ del “Pirata”, nel suo modo di correre e di attaccare le salite, Bernal ce l’ha.

La sua passione per il ciclismo gliel’ha inculcata il padre German: sognava di essere un ciclista professionista, magari come il leggendario Lucio “Lucho” Herrera, si è dovuto accontentare di fare il custode ad una miniera di sale e poi diventare un agente di sicurezza, ma senza la…sicurezza del lavoro. La mamma, Flor, lavorava come donna delle pulizie in diversi edifici pubblici, tra cui l’ospedale, della loro città, Zipaquira.
Poi è arrivato Ronald, il fratellino di Egan, che ora ha 14 anni. E grazie ai soldi già guadagnati dal figlio maggiore, i genitori hanno smesso di lavorare e accompagnano il figlio un po’ ovunque in giro per il mondo, proprio come fa la fidanzata Xiomena Guerrero, anche lei una sportiva, nazionale colombiana di mountain bike. E il nonno Alvaro è il suo primo tifoso.

Egan Bernal all’arrivo a Parigi bacia la fidanzata.

E il primo amore di Egan Bernal è stata proprio la mtb. A 7 anni, vince una gara scolastica che gli permette di ottenere in regalo una bici marca Trek e una borsa di studio per continuare a correre e a studiare.
Con la mountain bike, e con la squadra creata dal suo pigmalione Pablo Mazuera, Bernal ha vinto le prime corse e le prime medaglie, argento e bronzo ai mondiali mtb juniores in Norvegia (2014) e ad Andorra (2015) e oro nei Giochi Panamericani (Colombia 2015), ma aveva capito che non avrebbe mai guadagnato tanto come con il ciclismo su strada.
A 17 anni, il giovane Egan Bernal pensa di abbandonare definitivamente la mtb, si iscrive alla facoltà di Giornalismo all’Università, ha bisogno di una svolta.
Che arriva all’improvviso.

Egan rimane folgorato da Chris Froome, uno dei suoi idoli insieme a Vincenzo Nibali, e decide di buttarsi: la sua prima corsa a tappe su strada è il “Clasico Nacional de Turismeros“, vicino a Fusagasugà, non lontano da Bogotà, a casa di “Lucho” Herrera. Arriva secondo nella classifica generale, conquistando la maglia di vincitore del Gran Premio della Montagna. Da lì è scattata la molla. Pur continuando a fare mountain-bike, il suo chiodo fisso ora è trovare una squadra per le corse in linea.

Gli dà una mano Andrea Bianco, l’italiano che allenava la nazionale colombiana di mtb. Lo fa iscrivere ad una corsa in Italia, in Toscana: il Trofeo d’Autunno del Monte Pisano, il “piccolo Fiandre”, come viene definito. E Bernal vince. La sua vittoria non passa inosservata agli occhi dell’ex professionista Paolo Alberati. Ê lui il primo a contattare Egan per un primo contratto da professionista all’Androni-Giocattoli di Gianni Savio. Contatto e contratto, firmato su una terrazza di Montecarlo, mangiando una pizza Margherita…

E da quel momento – anche con l’aiuto in allenamento di un certo Michele Bartoli – iniziano gli anni “piemontesi” (2016-2017) di Bernal, quelli in cui – pur non vincendo grandi cose (Tour de Bihor, Tour di Savoia-Monte Bianco, Sibiu Cycling Tour, Tour de l’Avenir, più la classifica di miglior giovane al Giro del Trentino, al Giro di Slovenia e alla Coppi&Bartali) – pone le basi per il passaggio al Team Sky (da maggio 2019 si chiama Ineos) e a questo suo straordinario 2019: Parigi-Nizza, Giro di Svizzera e Tour de France.

E pensare che non avrebbe nemmeno dovuto correrlo: tutta colpa di una caduta durante gli allenamenti (il 4 maggio) e della frattura della clavicola, che gli ha impedito di partecipare al Giro d’Italia, poi vinto da un altro “campesino” sudamericano, l’ecuadoriano Richard Carapaz. E quindi Bernal dirottato, casualmente, al Tour de France…

Chi potrà fermare la corsa del 22enne Egan Bernal?
Eddy Merckx, alla partenza del Tour da Bruxelles, aveva pronosticato: “Vincerà Bernal”. E ha azzeccato il pronostico. E Bernal, in cambio, potrebbe “rubargli” il suo celebre soprannome: del resto, chi – se non Bernal – può essere il nuovo “Cannibale”? Almeno delle corse a tappe, perchè il “Cannibale” vero, Merckx, vinceva anche le corse in linea, che invece non sembrano essere nelle corde di Bernal…
In tanti attendono l’esplosione del giovanissimo belga Remco Evenepoel, classe 2000, definito – tanto per cambiare – “il nuovo Merckx”.
Se così sarà, aspettiamoci tante belle sfide nel futuro.

Passaggio di consegne all’ombra dell’Arc de Triomphe: Geraint Thomas e Egan Bernal.

Poi mi tocca pure fare l’esperto del Genoa…

Guardate, io l’esperto del Genoa provo pure a farlo, ma se non mi fosse venuto in soccorso Luca Vargiu, una vita in rossoblù, sarebbero stati…Grifoni per diabetici. Fatto sta che, all’intervista che mi ha proposto OLTV, la televisione tematica dell’Olympique Lyonnais, ho risposto “presente” e me la sono cavata pure abbastanza bene, in francese (e senza sottotitoli), spiegando al giornalista Gabriel Vacher…vita, morte, miracoli, passato, presente e futuro del Genoa.
Una bella ripassatina di storia, che non fa mai male: il più antico club italiano (fondato nel 1893), 9 scudetti (l’ultimo nel 1924), uno stadio bellissimo, una tifoseria appassionata, tempi recenti incerti e traballanti, ma pur sempre al 13esimo anno di fila in serie A, qualche acquisto interessante (da Zapata a Barreca), qualche giocatore già venduto,ma che rimane ancora un anno (Romero e Radu), qualche vecchio leone che non molla mai (Pandev), la rivalità storica con la Sampdoria e il solito ritornello – vero, però – che il Genoa è la squadra degli autentici genovesi... E gli amici francesi, davanti al Groupama Stadium per un’amichevole di luglio, sono andati in sollucchero! “Abbiamo trovato uno che conosce bene il calcio italiano e genovese“, avranno pensato. Lasciamoglielo pensare…

Tasso, Gabriel Vacher e il cameraman davanti allo stadio del Lione.

Ho persino pronosticato un campionato tranquillo per il Genoa, magari addirittura nella parte sinistra della classifica (anche se l’allenatore Andreazzoli non mi convince), ma non so se è un pronostico che vale qualcosa: l’ultima volta che ero stato ospite, in una trasmissione di OLTV, per Atalanta-Lione (1-0) di Europa League, nel dicembre 2017, dissi che la prossima volta dell’Atalanta in Europa sarebbe stato tra 10 anni… e, invece, me la ritrovo in Champions! Figure de…merde, direbbero i francesi. Pazienza. L’importante è provarci, no?
Intanto, il Genoa ha vinto 4-3 l’amichevole con il Lione, in rimonta dopo essere stato sotto 1-3.
I casi sono tre: o il Genoa è fortissimo, o il Lione è tristissimo, o il Tasso porta fortuna al Genoa e sfiga al Lione.
Fate voi.

L’uomo sulla Luna, 50 anni fa…

50 anni fa, fu “un piccolo passo per l’uomo e un grande passo per l’umanità”.
L’originale in inglese è: “One small step for a man, one giant leap for mankind“.

“One small step for a man, one giant leap for mankind”.

Neil Armstrong

Astronauta, appena sceso sulla Luna. 20.7.1969.

La celeberrima frase fu pronunciata dall’astronauta Neil Armstrong, il primo uomo sulla Luna.
Era il 20 luglio 1969. Alle ore 20:17:40.

Edwin “Buzz” Aldrin, ora, ha 89 anni.
Camminò sulla Luna 19 minuti dopo Neil Armstrong.
Armstrong non c’è più (dal 2012) e il terzo astronauta dell’Apollo 11, Michael Collins, in realtà rimase in orbita attorno alla Luna.

Neil A. Armstrong, Michael Collins e Edwin “Buzz” Aldrin. NASA/Handout via REUTERS/File Photo A

Tutti a bocca aperta e con il fiato sospeso

Un’avventura nello spazio che tenne il mondo a bocca aperta e con il fiato sospeso – anche in Italia, con la famosa “telecronaca-racconto” di Tito Stagno – e che decretò la superiorià spaziale degli Stati Uniti sull’Unione Sovietica.

Una pagina incancellabile della storia del XX secolo

Eravamo così giovani, non avevamo idea di potercela veramente fare, gli astronauti e le persone di controllo della missione sono stati grandi compagni di squadra”, commenta Gerry Griffin, responsabile dell’Apollo 11.
“Avevano tutti i pulsanti pronti, anche per interrompere la missione, ma tutto è andato per il meglio, anche grazie a noi, che da giù davamo molte informazioni su come risolvere eventuali problemi… Il lavoro di squadra tra la Terra e gli astronauti è stato davvero speciale”.

Ma siamo veramente andati sulla Luna?

Quante volte abbiamo sentito questa domanda!
Ma nonostante dubbi e perplessità – mai provatI – sul fatto che l’uomo sia veramente andato sulla Luna, la missione dell’Apollo 11 rimane una pagina indelebile della storia del XX secolo e dell’intera umanità.

E poi ci sarebbe anche un ex stagista della Nasa che afferma di essere in possesso dell’unico filmato originale dell’allunaggio…

2024, ritorno sulla Luna

Dopo aver abbandonato il progetto-Luna per interi decenni – anche a causa degli enormi costi – la NASA sta pianificando un viaggio di ritorno sulla Luna entro il 2024, si chiamerà Missione Artemis, sperando di usare la superficie lunare come terreno di prova per la futura esplorazione di Marte.
E tra gli astronauti, per la prima volta, ci sarà anche una donna.

E sulla Luna ci andrà anche Amazon…

Attenzione, però: la Nasa rischia stavolta di perdere la corsa alla Luna non dall’Unione Sovietica – che non esiste più – bensì da un rivale più insidioso: Jeff Bezos. Il fondatore di Amazon, infatti, sta realizzando il progetto “Blue Moon” per andare sulla Luna prima del 2024.

L’Apollo 11 in partenza…
NASA/Handout via REUTERS/File Photo

 

W il calcio femminile!

Sono appena terminati i Mondiali femminili di calcio: per la quarta volta – la seconda di fila – li ha vinti gli Stati Uniti, battendo 2-0 in finale l’Olanda. Io, francamente, facevo il tifo per le olandesi: anche per i suoi tifosi, veramente simpatici, con quella macchia “orange” che li ha evidenziati in giro per Lione e al Groupama Stadium nei 90 minuti della finale. Ma le atlete a stelle e strisce, guidate da Megan Rapinoe e Alex Morgan, sono stati semplicemente più forti. Ma a vincere questa Coppa del Mondo femminile di calcio è stato…il calcio femminile. Io stesso sono rimasto davvero impressionato dall’alto livello delle partite disputate, sia dal punto di vista tecnico, agonistico e fisico: abbiamo visto giocatrici di talento, di forza, di intelligenza, vere e proprie atlete che non hanno niente da invidiare ai colleghi maschi. Insomma, qualcosa da invidiare si, ci sarebbe: lo stipendio. Ma questa è un’altra storia…

Soccer Football – Women’s World Cup – Group C – Australia v Italy – Stade du Hainaut, Valenciennes, France – June 9, 2019 Italy coach Milena Bertolini REUTERS/Phil Noble


Sbeffeggiato per decenni, il calcio femminile si è ripresa la sua giusta e meritata vendetta. Anche se in molti paesi nordeuropei, e negli stessi Usa, è ormai lo sport “al femminile” più seguito, in tv, e più praticato, sui campi di gioco. In Italia no: eravamo rimasti indietro, sbeffeggiando anche le poche coraggiose ragazze, che sfidando certi tabù e pregiudizi, scendeva in campo in maglietta, pantaloncini corti e scarpette con i tacchetti. Hanno cominciato cosi, in campetti di periferia, anche le ragazze di Milena Bertolini, la ct che conobbi ed intervistai nel lontano 1999, quando lei era “solo” un’allenatrice delle giovanili, maschietti, del Modena. Ne ha fatta di strada, da allora. Ne hanno fatta di strada, da allora, tutte le ragazze azzurre diventate ormai dei personaggi: da Sara Gama a Barbara Bonansea, da Cristiana Girelli ead Aurora Galli. Ma prima di loro, le apripista, le pioniere, erano stato Betty Vignotto, Carolina Morace, Patrizia Panico…
Adesso, a farne, di strada, sarà il calcio femminile. Peccato che dobbiamo aspettare altri quattro anni per il Mondiale, ma intanto ci sarà il campionato italiano, che si è arricchito delle squadre femminile di molti club maschili prestigiosi, che hanno capito che funziona. Oltrettutto, senza proteste, senza brutti falli, senza simulazioni…
Quasi quasi viene da chiederci: ragazze con il pallone, ma dove siete state finora? 

Soccer Football – Women’s World Cup Final – United States v Netherlands – Groupama Stadium, Lyon, France – July 7, 2019 Megan Rapinoe of the U.S. celebrates winning the Women’s World Cup with the Golden Boot trophy REUTERS/Denis Balibouse

Il “sogno olimpico” di Milano-Cortina si è realizzato

L’annuncio è arrivato a Losanna, nella sede del Comitato Olimpico, intorno alle 18 del pomeriggio. La candiatura italiana per i Giochi Olimpici invernali del 2026 è piu’ solida di quella svedese. Milano e Cortina hanno vinto la sfida. E hanno convinto gli 82 giudici nonostante Torino 2006 sia dietro l’angolo e nonostante Stoccolma sia un paese leader negli sport invernali (ma vorrà pur dire qualcosa se la Svezia non ha mai ospitato un’edizione delle Olimpiadi invernali).

La vittoria del tandem italiano è stata salutata con un’ondata di entusiasmo: a Cortina le campane hanno suonato a festa mentre dal campanile si srotolava un tricolore di 30 metri. A milano, in Piazza Gae Aulenti, un silenzio inquietante ha lasciato il posto a un urlo liberatorio di una folla di milanesi, assessori in lacrime inclusi.

LE REAZIONI DEL MONDO POLITICO: UNA VITTORIA BIPARTISAN

Una vittoria salutata anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che si è unito all’applauso delle persone presenti al Piccolo teatro Paolo Grassi, a Milano, subito dopo l’annuncio.

Per il presidente della regione Veneto, Luca Zaia, impegnato in prima fila nella partita istituzionale legata all’assegnazione dei Giochi Olimpici, ha spiegato che in certi momenti sembrava stesse “saltando tutto”. “Con Conte – aggiunge – abbiamo parlato tante volte insieme, ci siamo incontrati, anche nei momenti difficili, perchè questa candidatura ha avuto anche momenti complicati, ma noi abbiamo tenuto il punto e il risultato è arrivato”. Anche il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha espresso sui social la sua soddisfazione.

Sofia Goggia, Giuseppe Sala, Luca Zaia. Dietro, Luca di Montezemolo.

UN PO’ DI OSSIGENO PER L’ECONOMIA: QUALCHE DATO SU MILANO-CORTINA 2026

  • L’edizione 2026 dei Giochi invernali sarà, in linea con i dettami della Carta olimpica, all’insegna del rispetto della politica ambientale e dello sviluppo sostenibile. E su quest’ultimo fronte ci sarà un saldo economico chiaramente positivo per lo Stato. Secondo uno Studio sull’analisi di impatto economico-finanziario commissionato lo scorso inverno dal governo all’Università ‘La Sapienza’“i Giochi invernali contribuiranno positivamente alla crescita dell’economia: gli incrementi del Pil tra il 2020 e il 2028 vanno da 93 a 81 mln di euro annui. La crescita cumulata del prodotto raggiunge un massimo di circa 2,3 mld nel 2028”. Secondo l’analisi, “le uscite dell’Amministrazione Centrale per finanziare i Giochi 2026 sarebbero compensate dagli introiti diretti e indiretti connessi alle attività sviluppate attorno ai Giochi nel periodo 2020/2028”.
  • Gli investimenti previsti sono pari a circa 346 milioni: serviranno a realizzare i villaggi olimpici, i media center, interventi speicfici sugli impianti già esistenti nonchè la realizzazione di impianti nuovi.
  • I costi di gestione previsti per la realizzazione dell’evento sono pari a 1.170 milioni. Il costo contabilizzato per le Olimpiadi invernali organizzate a Torino nel 2006 era stato di 1.229 milioni.
  • Ma l’effetto positivo si misurerà anche su Pil e Occupazione: già a partire dal 2020 si registrano aumenti significativi del prodotto e dell’occupazione. Il picco in termini di Pil si registra nel biennio 2025-2026, con un aumento medio pari a 350 milioni annuali. Inoltre l’organizzazione delle Olimpiadi produce un aumento medio di circa 5.500 unita’ di lavoro equivalenti a tempo pieno, con un picco nel 2026 pari ad oltre 8.500 unita’.

 

il favoloso mondo dei “senza”

All’inizio, fu la margarina. Il primo prodotto ad essere “demonizzato” sulle cucine italiane, e anche dall’opinione pubblica, in quanto considerata troppo grassa e, quindi, ben presto sparita dalla ricette, benchè – viceversa – sia tutt’altro che sparita dagli scaffali dei supermercati. Ma ora, da diversi anni ormai, all’indice alimentare è arrivato il “maledetto” olio di palma. Praticamente tutti biscotti e le merendine pubblicizzate in tv puntano sul potere etico – e commerciale, certo – della frase magica “senza olio di palma”. Resiste solo la Nutella, visto che l’azienda produttrice, la Ferrero, ha più volte ribadito di non voler eliminare l’olio di palma dalla ricetta segreta della spalmabile più famosa del mondo, proprio per non diminuire la qualità della Nutella, che – “senza l’olio di palma non sarebbe più la stessa”, come ha dichiarato recentemente un dirigente dell’azienda di Alba. Del resto la Ferrero se lo puô permettere, resistendo pure ad un eventuale calo “etico” delle vendite…
Difficile, se non impossibile, esprimere un giudizio sul gusto dell’olio di palma, ma se rende cosi buona la Nutella, tanto male non dev’essere! Ma, piuttosto: fa veramente cosi male l’olio di palma?

“Senza olio di palma” 
Come spiega bene il sito sicurezzalimentare.it, da anni l’uso alimentare dell’olio di palma è al centro di accese polemiche, sia perchè la sua produzione comporta un forte impatto ambientale sia a causa del suo elevato contenuto di acido palmitico. Paradossalmente, è soprattutto l’impatto ambientale a colpire maggiormente i consumatori, sempre più sensibili alle tematiche legate al nostro pianeta. E ciò nonostante il problema ambientale sia stato affrontato e, almeno in parte, risolto, mettendo sotto controllo le deforestazioni selvagge e introducendo misure maggiormente rispettose degli eco-sistemi.
Eppure, soprattutto sul web, circolano ancora veementi campagne denigratorie nei confronti di quelle poche aziende, Ferrero compresa, che ancora utilizzano l’olio di palma. utilizzando slogan di sicuro effetto come “Per l’olio di palma intere foreste vengono rase al suolo e gli oranghi vengono sterminati” oppure “L’olio di palma ha ucciso 100mila oranghi“.
Il dato si riferirebbe agli ultimi 16 anni, nella zona del Borneo, in Malesia, paese che offre al mercato mondiale il 39% della produzione complessiva di olio di palma.
La demonizzazione completa dell’olio di palma è stata certificata nel 2016, quando l’EFSA (Autorità Europea della Sicurezza degli Alimenti) ha prodotto un documento secondo il quale nell’olio di palma sarebbero presenti, in quanti maggiore rispetto ad altri olii vegetali, dei cosiddetti “contaminanti”, che si formano quando i grassi sono esposti a temperature molto elevate e potenzialmente cancerogeni.

Da allora, apriti cielo e tutti “senza olio di palma”.
Ma questa è soltanto la storia più recente e più famosa del favoloso mondo alimentare del “senza”.

 
“Senza glutine”
Un’altra storia interessante è quella del “senza glutine”, peraltro legata ad una effettiva necessità alimentare da parte dei consumatori celiaci. Un prodotto “senza glutine”, per essere definito tale, deve contenere una quantità di glutine inferiore ai 20 ppm, che significa “20 parti per milione” e corrisponde ad una concentrazione di 20 mg di glutine su un kg di alimento. L’indicazione “senza glutine, specificamente formulato per celiaci” o “senza glutine, specificamente formulato per persone intolleranti al glutine” diventa obbligatoria per i prodotti inseriri nel Registro nazionale degli alimenti senza glutine, erogabili al celiaco attraverso il Servizio Sanitario Nazionale italiano. Purtroppo, dopo un’iniziale impennata dei ristoranti – ma anche dei panifici, ad esempio – “gluten free”, visto il numero comunque ridotto di celiaci, molti locali hanno tolto dal menu i piatti specifici senza glutine, sostituendoli con altri più alla moda, a cominciare da quelli vegetariani e, soprattutto, vegani.

“Senza zuccheri aggiunti”
La battaglia dell’associazione “Altro Consumo” sembra aver funzionato contro gli zuccheri aggiunti: la scritta “senza zuccheri aggiunti”, fino a qualche anno applicata in maniera ingannevole, ora sembra finalmente rispettare la realtà. Anche il fruttosio – che godeva di una immeritata fama salutistica – e il saccarosio sono ormai finiti sul libro nero.

E gli alimenti “con”?
I prodotti figli del “senza” sono sicuramente prodotti più sani e salubri, frutto di una maggiore consapevolezza di quella che è, ogni giorno la nostra alimentazione. Ma sarebbe bello avere la stessa attenzione anche per gli alimenti “con” qualcosa in più: facciamo un esempio? “Con” più potassio, e non soltanto nelle banane, già famose per il loro contenuto di potasso. Ma anche, scientificamente provato, nei fagioli borlotti, nelle patate, negli spinaci (Braccio di Ferro ha sempre ragione!), nell’avocado e nel salmone affumicato. E potremmo continuare “con” più magnesio, ferro, fosforo…
Che dite? Magari ne parliamo la prossima volta.