Ho finito il deludentissimo SEROTONINA di Michel Houllebecq. Metà libro a scrivere sesso e volgarità, la seconda metà a raccontare la triste solitudine di un “Fu Mattia Pascal” francese, un funzionario del ministero dell’Agricoltura, che a 46 anni, imbottito di pastiglie di serotonina per non morire di depressione, molla tutto (lavoro e fidanzata) per vivere da solo, in un grigio hotel, senza più rapporti umani. In mezzo, una lunga noiosa battaglia sindacale dei contadini della Normandia che sfocia in tragedia e mille rimpianti per le donne della sua vita, che ormai si sono rifatte una vita altrove e senza di lui.
Un romanzo tristissimo, senza alcun contesto sociale, come invece fu per il suo libro precedente, “Sottomissione”. Ora, per cercare di capire se esiste una grandezza nel sopravvalutato Houllebecq, mi sottoporrò dolorosamente alla lettura de “Le particelle elementari”, già preso in biblioteca. Non ho più voglia, infatti, di spendere un solo centesimo per Houllebecq. Ma, nel caso, sono pronto a ricredermi.
Sanremo? Tutti lo criticano, ma poi lo guardano. Perché? Perché Sanremo è Sanremo. Lo slogan – sigla di Pippo Baudo spiega ancora in sole 4 parole il motivo del successo di questo appuntamento che può essere definito una vera e propria festa popolare.
Insomma 11 milioni di italiani sono già pronti. Nello specifico in stile Fantozzi, quando l’amato Ugo decide che per nulla al mondo sarebbe stato disturbato durante la partita della nazionale condita da una straordinaria “frittatona” di cipolla. Un Fantozzi però versione 2019. Immaginiamo infatti il ragioniere alle prese con il cellulare per scrivere sui social in tempo reale il proprio commento sullo spacco della conduttrice, sul fischiare lo stonato di turno o sui fiori che non si vedono.
I ricordi
Da show musicale degli anni 50/60 il Festival si è trasformato negli 80 in vero e proprio fenomeno mediatico. Nello specifico il più nazional-popolare con il suo mescolare alto e basso. Gli episodi del passato legati alle critiche? Basta andare nel 1982, quando Vasco, allora sconosciuto e ora re Mida dei concerti, si presentò con “Vado al massimo”. I commenti più benevoli furono: ”Chi è questo ubriacone? Rispeditelo a casa”. Oppure Zucchero che arrivava sempre agli ultimi posti. Ogni anno partiva la solita critica davanti alla tv: “Ancora tu, ma non dovevamo vederci più?”. Eppure da “Vita Spericolata” a “Donne”, il Festival è pieno di gioielli che resteranno per sempre nella storia della musica italiana.
Sanremo è social
Sui social intanto i criticoni alla vigilia di Sanremo si scatenano. Guardi il Festival? Alcune risposte: “No, da quasi sempre”, “Festeggio allegramente il mezzo secolo di vita senza più aver guardato un solo minuto del pallosissimo e pompatissimo festival dei fiori!”. Oppure “Se mi pagano bene, sì. Altrimenti non ci penso neanche”.
Agli appassionati della soap-opera “Un posto al sole” – tra cui si annovera modestamente il sottoscritto -, in onda da 23 anni su Rai3 e con un bel malloppo di milioni di telespettatori ogni giorno, non è certo sfuggita una trasferta, almeno virtuale, di una parte del cast. Ambientato nelle zone più belle di Napoli, solo raramente qualche protagonista di “Un posto al sole” si è spostato più in là di Posillipo: qualche puntata girata a New York, qualcuna in una clinica svizzera, e poco altro.
Da prima di Natale, uno dei personaggi, il giovane Patrizio Giordano, promettentissimo chef già vincitore di un talent televisivo di cucina, ha deciso di mollare tutto (Napoli e pure la fidanzata Rossella) per trasferirsi ad Alba, per un prestigioso stage nel ristorante stellato di tale chef Niki Panero, altrettanto stellato.
Sfruculiando su Google, non esiste nessun Niki Panero, bensì Enrico Panero, chef poco più che 30enne di Savigliano. Difficile pensare che i produttori della Rai non abbiano fatto caso all’omonimia, almeno nel cognome, a meno che dietro non ci sia una qualche operazione pubblicitaria. Tantè: la scelta di un cognome tipicamente piemontese e di un locale di Alba – con tutte le zone d’Italia che potevano essere scelte: certo, doveva essere parecchio lontano da Napoli, per creare più pathos nella storia d’amore tra Rossella e Patrizio, che finiscono per lasciarsi – è sicuramente una certificazione di qualità per Alba e la sua gastronomia. Non che ci fosse bisogno di “Un posto al sole” per saperlo, ma il messaggio arrivato ad un grande pubblico nazional-popolare è “Ad Alba si mangia bene”, spingendo magari qualcuno dei telespettatori a cliccare “Alba” e a scoprire che è terra di tartufi, nocciole, Nutella e buon vinto…ed è pure una bella città!
Aumenteranno i turisti grazie a queste puntate di “Un posto al sole?” Temo di no. Troppo “virtuale” la pubblicità di Alba, non ci sono riprese esterne nemmeno quando Rossella va a trovare Patrizio per le feste di Natale, troppo poco la guida del Monferrato e Roero che lui le manda prima di partire, per mostrarle in quali posti andranno (e poi non ci sono andati, si lamenta Rossella, visto che Patrizio era troppo preso dal lavoro).
Una pubblicità virtuale (e involontaria, forse) come quella fatta da Checco Zalone, nel suo ultimo film, a Roccaraso: in quella famosa scena, lui relegato al Polo Nord, dice alla mamma al telefono che là è molto più freddo che a Roccaraso, di fatto regalando una bella notorietà nazionale alla località montana abruzzese.
Per lanciare il fenomeno-Alba ci voleva una bella puntata interamente girata in città, allora si…ma siamo sulla strada buona. Non è cosi facile uscire dal dominio di Roma (e, in second’ordine, Milano e Palermo, in questo caso per gli ormai insopportabili e innumerevoli telefilm sulla mafia) nelle fiction italiane. E, infatti, chi lo ha fatto ha avuto grandi risultati, in termini di share e di turismo.
I casi più famosi di turismo “televisivo”
Il caso più eclatante è quello di “Montalbano“, inimmaginabile fuori da quel suo pezzetto di Sicilia che è l’immaginaria Vigata. Girato in diverse zone della Sicilia (il commissariato, in realtà è il comune di Scicli, casa sua è a in riva al mare a Punta Secca, poi ancora a Modica e Ragusa e altrove), ha creato un aumento vertiginoso del turismo in quella zone della provincia ragusana: tutti a voler vedere i luoghi di Montalbano.
Un caso simile è quello di “Don Matteo“, la lunga serie tv che vede Terence Hill nei panni del parroco di Gubbio. Una pubblicità straordinaria per la cittadina umbra, che anche in questo caso ha avuto un’impennata considerevole di arrivi turistici e, per lo meno, non è più conosciuta solo per la storia di San Francesco e il lupo. Quando, per una stagione della serie, Don Matteo viene trasferito in un’altra chiesa, a Spoleto, il pubblico non ha particolarmente apprezzato. Che almeno il prete sia fedele alla sua comunità!
Meno storiche, ma di uguale successo, altre fiction ambientate fuori dai soliti luoghi comuni televisivi: “Provaci ancora Prof” con Veronica Pivetti a Torino, “Vento di Ponente” a Genova, “L’ispettore Coliandro” a Bologna, “Il commissario Manara” a Orbetello, in Maremma, “Il Giudice Mastrangelo” con Abatantuono in Salento, “I Bastardi di Pizzofalcone” con Alessandro Gassman a Napoli, “Il Restauratore“con Lando Buzzanca a Trieste e il recentissimo “Rocco Schiavone” del romano Marco Giallini in Val d’Aosta. Tutte fiction di successo, di pubblico e di “ambiente”. Ed ecco, allora, che potrebbe essere un’idea – anche delle istituzioni – promuovere, commercialmente, una serie tv dalle nostre parti. Provate ad immaginare un “Commissario Roagna“, un “Ispettore Sciaccaluga” o un “Giudice Mondino“, con panorami locali incorporati: meglio di uno spot pubblicitario, sicuro.
Sto firmando così – “Torinese per sempre, anche se emiliano” – le copie del libro di racconti “Torinesi per Sempre” che sto autografando alle presentazioni in giro per Torino. In realtà, finora, ne ho fatta una sola, di presentazione, in un luogo che non conoscevo e che trovo bellissimo: “La Piola-Libreria da Catia“, che non si capisce bene se è più piola o più libreria, ma in entrambi i casi è favolosa!
Il libro, edito dalla casa editrice romana “Edizioni della Sera“, sta andando letteralmente a ruba e gran parte del merito, oltre ai racconti che vi fanno parte, è della straordinaria curatrice Loredana Cella, che sta facendo un eccezionale lavoro di marketing, portando il libro ovunque – in librerie, supermercati e centri commerciali – e, visto il successo, ricevendo insperati inviti laddove sembrava difficile, se non impossibile, entrare. Ma, poi, naturalmente, i protagonisti, sono i racconti. C’è il mio, certo, ambientata in uno dei luoghi che amo di più di Torino: il mercato di Porta Palazzo. “Un viaggio emozionale” – come dice il sottotitolo del libro, nella sua stupenda copertina giallo e blu e con la prefazione di Enrico Pandiani – ma anche “sensoriale e olfattivo”, aggiungo io, avendo ben stamapto in mente il ricordo di quella mia volta, di sabato mattina, quando mi persi incredibilmente al mercato… Vi risparmio il finale, anche perchè non è un giallo, ma soprattutto per non farvi perdere il gusto della suspence, per scoprire se, alla fine, mi sono “ritrovato”.
Per fortuna, oltre a me, ci sono anche tanti altri scrittori, anche famosi, e molti altri che hanno provato semplicemente a scrivere le loro emozioni di “torinesi”. E ci sono riuscii! E, molti di noi, non lo siamo proprio, torinesi, nel senso stretto del termine. Ma, del resto, è la storia stessa della città, fatta di immigrazione, sudore, fatica, lontananza e integrazione.
Io sono arrivato a Torino un freddo giorno del febbraio di 12 anni fa, nel 2007, un anno dopo la fine delle Olimpiadi, il tanto celebrato spartiacque tra la Torino di prima e la Torino di dopo. C’erano ancora i “Gianduiotti” dell’Atrium in Piazza Solferino e persino un pupazzone gigante, di cui non ricordo il nome, con cui feci subito una foto (i selfie sarebbero stati inventati da li a poco). In 12 anni, in mezzo a qualche andata e ritorno, ormai mi sento torinese quasi DOC e il mio sguardo sulla città, da quello benevolo di un turista è diventato quello critico di un residente. Forse è persino un bel segno.
Per fortuna, dicevo, ci sono i veri scrittori, che in questo libro di racconti, in poche pagine, hanno vissuto e vivisezionato solo una città, ma anche un’epoca, come ha fatto l’amico Darwin Pastorin, ricordando i favolosi anni ’60, quelli della sua adolescenza, segnata dalla grande passione per il calcio, per la Juve, ma anche per un mito come Gigi Meroni, che morì all’improvviso, in una domenica sera d’ottobre del 1967, dopo una partita vinta.
Per fortuna che c’è la Torino raccontata da Rocco Ballacchino, che sotto la Mole Antonelliana, il simbolo sabaudo per eccellenza, ambienta un episodio inedito di un’avventura del suo commissario Crema, personaggio che si può ritrovare nei suoi libri. E quelli si che sono gialli…e anche il suo racconto è molto giallo, ci lascia con il fiato sospeso!
Per fortuna che ci sono tutti gli altri – in ordine alfabetico, da Serena Artom a Lorenzo Vergnasco – che, come me, hanno contributo a questo omaggio ad una città che, natale o adottiva, ci è entrata nel cuore. E magari succederà anche a voi, dopo aver letto tutti i racconti. Ma proprio tutti, mi raccomando.
Io stesso sono, da almeno dieci anni, un assiduo “praticante” del mondo dei social network, quindi lungi da me criticare un sistema di trasmissione delle notizie e delle opinioni che ha rivoluzionato al 1000% il modo di fare informazione. Tutti, ormai, ci siamo accorti di quanto velocissima sia la diffusione di una notizia tramite i social (Twitter, ma soprattutto il molto più “popolare” Facebook). Prendiamo l’esempio di una scossa di terremoto: dopo pochi secondi, l’evento è riportato da decine, centinaia, migliaia di persone, che hanno appena “subito” l’evento stesso e l’hanno descritto immediatamente sulla loro bacheca social, scatenando un immediato moto di solidarietà e preoccupazione. Non c’è radio, non c’è tv all news, non c’è sito, non c’è giornale che possa stare umanamente al passo con questa pazzesca velocità di reazione garantita da un dito su un touchscreen.
Per qualcuno, ad esempio i tanto temuti “Gilet Jaunes” francesi, l’unica vera informazione è quella dei social network. Qualcun altro, sui social e sui blog, ci ha costruito una carriera politica, da parlamentare o da vice-ministro.
Tutto assolutamente fantastico, certo, A parte un paio di controindicazioni (e lasciamo perdere quello che pensava Umberto Eco). La prima, va da sè, è quella delle fake-news, il cui proliferare è diventato direttamente proporzionale all’aumentata percentuali di “creduloni da tastiera” pronti a credere ciecamente a quello che si scrive sui social. Non siamo ai livelli di “l’ha detto la televisione” di qualche tempo fa, ma poco ci manca. Con la possibilità, oltretutto, di replicare in tempo reale: e questa è la vera rivoluzione culturale dell’informazione del Terzo Millennio. Se Nunzio Filogamo, Niccolò Carosio e Enrico Mentana (e, nel suo piccolo, Cristiano Tassinari) pontificavano in televisione o alla radio, nessuno poteva controbattere, se non spegnendo il televisore. Adesso, invece, è il trionfo dei “leoni da tastiera”, dei cosiddetti “haters”, coloro che odiano tutti e tutti, ma anche dei “professori di Facebook”, che sanno sempre tutto e sono insopportabili come il primo della classe che non passa il compito da copiare, bastardo lui…
Un altro grande difetto dei social network, forse sottovalutato, è quello di ingigantire tutto. Prendiamo, anche in questo caso, alcuni esempi: non tanto il caso-Battisti, decisamente “pompato” con dirette televisive fuori luogo del suo arrivo in Italia, quando altre piccole storie, quisquiglie di cronaca che senza i social non avrebbero mai raggiunto gli onori delle prime pagine: le dichiarazioni “pro migranti” di Baglioni, direttore artistico del Festival Sanremo o, notizia di ieri, la presenza di un corazziere nero al Quirinale proprio nel giorno dell’arrivo di Salvini, quasi fosse uno sgarbo del Presidente della Repubblica, Mattarella, al ministro dell’interno.
Sono notizie degne di particolare attenzione, quasi morbosa? Direi proprio di no. Anzi: la storia del corazziere potrebbe essere anche interessante da raccontare (e qualcuno l’ha fatto: 29 anni, brasiliano, adottato insieme alla sorella da una famiglia siciliana), ma senza l’ideologia “stranieri o italiani?” di questi cinici tempi.
Quindi: senza i social, queste due micro-notizie non sarebbero arrivate sui siti, sui telegiornali, sui giornali. Notizie e polemiche stucchevoli ingigantite dai social. Ma, del resto, quando migliaia di persone si prendono la briga di commentare, immediatamente la notizia vola alta, vive di vita propria e di un elevatissimo numero di click. O no?
In definitiva: beati quelli che non frequentano Facebook o Twitter, e si accontentano di radio, tv e quotidiani, perchè cosi rimangono piacevolmente all’oscuro di notizie inutili e polemiche fastidiose.
E, per una volta, essere “ignoranti” diventa una nota di merito.
Sulla vicenda-Battisti, stemperiamo i toni con queste vignetta che gioca sul cognome di due noti cantanti e sulle recenti dichiarazioni politiche di Claudio Baglioni, direttore artistico del Festival di Sanremo…
Grande successo per la nostra commedia “NON TUTTI I MALI VENGONO PER..SUOCERE”, nuova fatica teatrale 2019 del Teatroci…
Ma la vera star è stato Santiago, per la prima volta sul palco!!!
Vatti a fidare degli amici e dei maestri.
Eh già, perchè a spingere il giovane Antoon Van Dyck (si pronuncia ‘fan deic’) fu proprio il suo mentore e Maestro Pieter Paul Rubens (1577-1640), che nella sua bottega d’arte di Anversa, ad inizio Seicento, indirizzò l’allievo a specializzarsi nei ritratti. Di fatto, togliendosi di torno un pericoloso concorrente come paesaggista – Rubens aveva intuito il talento di Van Dyck – e relegandolo ad una più oscura carriera di ritrattista. Infatti, Rubens è rimasto nella storia della pittura, fiamminga e non solo, e almeno di nome lo hanno sentito nominare in tanti, mentre Van Dyck è finito, ingiustamente, nell’oblio.
Per fortuna, a rendergli giustizia, ci sta pensando la splendida mostra allestita dai Musei Reali alla Galleria Sabauda di Torino, in cartellone fino al 17 marzo 2019 e dal titolo non casuale: “Van Dyck. Pittore di corte”. Una professione che, alla fine, aveva stufato lo stesso artista, a tal punto che tentò più volte di riciclarsi come paesaggista e ottenere altri commesse di lavoro, senza riuscirvi, in quanto ormai era credibile – e quotatissimo, in verità – solo come ritrattista. E in questa veste, Antoon Van Dyck, scomparso nel 1641 ad appena 42 anni, è stato un autentico giramondo, pittore ufficiale di alcune delle più grandi corti d’Europa, ritraendo nelle sue opere principi, Re, Regine, gentiluomini e nobildonne delle più prestigiose famiglie della nobiltà dell’epoca, dagli aristocratici genovesi ai reali di Torino, passando per altre importanti casate europee. compreso un soggiorno lungo sei anni in Italia (dal 1621 al 1627: Venezia, Torino, Roma, Palermo, Milano, Firenze, Bologna, Mantova e soprattutto Genova) e le cui memorie sono stati da lui riportate in un celebre taccuino, ora conservato al British Museum di Londra.
RITRATTI BELLI, MA ANCHE MEMORABILI?
Suddivise in un percorso espositivo in quattro sezioni, le opere esposte alla Galleria Sabauda sono 45 tele e 21 incisioni, compresi quattro quadri del Maestro Rubens, tra cui il celebre “Susanna e i vecchioni”. Quelli di Van Dyck sono ritratti molto belli e affascinanti, realizzati con grande perfezione di tecnica e con innovazioni stilistiche, come gli sguardi di trequarti, nuove misture di colori e diverse profondità. Ma proprio perché sono “solo” ritratti e non paesaggi, magari impressionisti, non possiamo definirli quadri memorabili. Molto belli e ben fatti si, memorabili non proprio.
E, in effetti, questa mostra che comunque vale interamente il prezzo del biglietto (12 euro se avete qualche riduzione, altrimenti 14 euro, più il costo dell’indispensabile audio-guida) si ricorda soprattutto per qualche particolarità.
DA TORINO A WINDSOR
Ad esempio, in tutta la mostra c’è un solo quadro che non può essere assolutamente fotografato: è un ritratto dei tre figli di Carlo I d’Inghilterra, di proprietà privata della Regina Elisabetta d’Inghilterra, che lo ha staccato personalmente da una parete del Castello di Windor per prestarlo alla Galleria Sabauda solo a patto che non venisse fotografato. Questione di privacy. E, infatti, un solerte guardiano controlla che nessuno faccia la foto a quel quadro regale, altrimenti bisognerà pagare profumati diritti alla Regina…
Inoltre, di fronte a questo quadro “proibito” ce n’è un altro (che si può fotografare) che sembra esattamente la sua copia, sempre con protagonisti gli stessi tre figli di Carlo I (si tratta, infatti, di una seconda versione, datata 1636, appena qualche mese dopo la prima versione) e che lascia al visitatore un dubbio: quali sono i maschietti e quali le femminucce? Per la storia della pittura: una femmina e due maschi (Mary, Charles e James), che indossano, però, una cuffia e abiti femminili, tipici per l’epoca. Un’opera commissionata dalla Regina Henrietta Maria, desiderosa di far conoscere alla sorella Cristina di Francia, moglie del Duca di Savoia Vittorio Amedeo I, l’aspetto dei propri figli. Il quadro di Van Dyck fu così spedito direttamente a Torino.
UN CAPOLAVORO DELLA RITRATTISTICA
Molto bello il ritratto della Marchesa Elena Grimaldi Cattaneo, esponente di spicco della nobiltà genovese, moglie del ricco mercante Giacomo Cattaneo. Considerato un capolavoro della ritrattistica di tutti i tempi (e utilizzato anche come locandina della mostra), il quadro spicca per l’eleganza della figura, l’ambientazione scenografica, la ricchezza dell’abito e la presenza insolita di un servitore che sorregge l’ombrello della gentildonna…
INFANTA DI SPAGNA IN “FOTOCOPIA”
Infine, i tre curiosi quadri dedicati all’Infanta di Spagna Isabella Clara Eugenia, ritratta in abito da clarissa (entrò nelle suore di Santa Chiara dopo la morte del marito, l’arciduca Alberto d’Austria).
Il visitatore può persino rimanere un attimo sconcertato, vedendo tre dipinti che sembrano la fotocopia l’uno dell’altro! Poi, guardando meglio, si notano le differenze…
Arrivata attorno ai 60 anni, l’Infanta di Spagna, divenuta governatrice dei Paesi Bassi spagnoli, viene ritratta due volte da Van Dyck prendendo spunto dall’originale di Rubens del 1625, ma senza giungere ai livelli di intensità ritrattistica del Maestro.
IL BERNINI BEFFA VAN DYCK
Infine, per chiudere in bellezza, troviamo il calco del busto di Carlo I d’Inghilterra realizzato nientepopodimenoche da Gian Lorenzo Bernini nel 1636 e andato distrutto in un incendio. Pensate che per ottenere il proprio ritratto dall’impegnatissimo scultore, il Re dovette inviargli tre ritratti fatti proprio da Van Dyck che lo ritraevano di fronte, di profilo destro e di profilo sinistro. Anche stavolta, Van Dyck lavora alla perfezione, come un grande “tecnico”, ma l’artista – cosi come era stato per Rubens – è sempre “l’altro”, in questo caso il Bernini. Un destino poco fortunato per Van Dyck, che tra i posteri meriterebbe maggior considerazione. Pian pianino, anche grazie alla mostra alla Galleria Sabauda, ci sta arrivando.
L’anno nuovo comincia bene con i Teatroci: il 12 gennaio 2019 al Teatro Cardinal Massaia di Torino arriva la nuova commedia “NON TUTTI I MALI VENGONO PER…SUOCERE”!
Per i biglietti: prenotazioni@teatrocardinalmassaia.it