Quella volta che feci 12 al Totocalcio…..
Fu il giornalista della Gazzetta dello Sport, Massimo Della Pergola, a inventare nel 1946 il “sogno italiano”: il Totocalcio e quella schedina che, per decenni, ha fatto sognare milioni di italiani. L’attuale governo-Conte, con la legge di Bilancio, l’ha cancellata, annunciando una riforma. Il Totocalcio è ormai diventato un gioco marginale. Troppa la concorrenza di Gratta e Vinci, Lotto e scommesse on-line.
Quell’1-X-2 era davvero un rito, soprattutto nei primi anni del Dopoguerra, un modo per sognare di cambiare vita, come perfettamente raccontato nel film “La Domenica della Buona Gente” (1953), con Renato Salvatori e Sophia Loren. Una storia d’amore all’ombra di una partita di calcio (Roma-Napoli) e di una fortunata vittoria al Totocalcio…
Questo, il passato. E il futuro?
La riforma prevede l’aumento del montepremi, visto che proprio le scarse probabilità di vincita legate all’alta difficoltà della giocata sono alla base del declino del Totocalcio: l’ultimo concorso ha visto 714 vincite da appena 407 euro ciascuno, “quote popolari”, come si diceva una volta, spiccioli che non interessano più quasi a nessuno. In futuro le vincite saranno molto più alte. Il montepremi passerà dal 50 al 75% della raccolta e cambierà la formula di gioco. Niente più 12, 13 e 14, Totogol e quant’altro: ci sarà un unico nuovo prodotto di gioco, ma sempre legato al calcio. Resta da vedere cosa ne penseranno gli scommettitori.
Io, comunque, resto legato a quella domenica 11 marzo 1990, quando – insieme all’amico Cristian – vinsi per la prima e unica volta al Totocalcio: un 12 da 400mila lire (diviso due, s’intende, quindi 200mila lire a testa). Peccato che il 13 valesse 20 milioni, sarebbe stato un bel gruzzolo da spartirsi. Tutta colpa di un Lazio-Atalanta, che fini’ 4-0, mentre noi avevamo scommesso sul pareggio.
Peccato per i soldi sfumati, ma volete mettere la soddisfazione di aver finalmente vinto qualcosa?
2018 anno nero per i giornalisti: 80 morti in tutto il mondo
(da repubblica.it)
Ne sono stati uccisi 80 in giro per il mondo, segnando un aumento dopo tre anni di calo. L’anno scorso hanno perso la vita 65 giornalisti, uccisi per aver esercitato la loro missione d’informazione.Tra le vittime di quest’anno, vi sono 63 giornalisti professionisti, con un incremento del 15%, 13 giornalisti non professionisti (contro 7 l’anno scorso) e quattro collaboratori dei media, ha spiegato l’Ong con sede a Parigi, denunciando la violenza “senza precedenti” contro la categoria.
n totale – secondo Rsf – più di 700 giornalisti professionisti sono stati uccisi negli ultimi dieci anni. Oltre la metà dei reporter sono stati “deliberatamente presi di mira e assassinati”, come l’editorialista saudita Jamal Khashoggi, ucciso il 2 ottobre scorso all’interno del consolato di Riad a Istanbul. E come il giornalista slovacco, Jan Kuciak, trucidato nella sua abitazione il 21 febbraio scorso.
“L’odio verso i giornalisti proferito e persino sostenuto da leader politici, religiosi o uomini d’affari senza scrupoli ha conseguenze drammatiche sul terreno, e si traduce in un aumento preoccupante delle violazioni”, avverte Christophe Deloire, segretario generale di Rsf, che mette sotto accusa anche i social. “Portano una pesante responsabilità in questo senso, questi sentimenti di odio legittimano la violenza e indeboliscono, ogni giorno di più, il giornalismo e con esso la democrazia”.
L’inferno dei reporter è di nuovo l’Afghanistan: nel 2018 qui hanno perso la vita 15 giornalisti, nove solo nel doppio attacco del 30 aprile scorso in cui sono stati presi di mira proprio gli operatori dell’informazione. Seguono Siria, con un 11 morti, Messico (9), India (6) e Stati Uniti (6 morti, di cui 4 nell’attacco alla redazione di Capitolo Gazette del Maryland).
Nel 2018 è aumentato anche il numero di giornalisti detenuti: sono 348 (nel 2017 erano 326). Oltre la metà dei reporter in prigione si trova in cinque Paesi: Iran, Arabia Saudita, Egitto, Turchia e Cina.
Antonio Megalizzi: un eroe non tanto per caso
Editoriale di Alessandro Sallusti, da “Il Giornale”. 15.12.2018
Antonio Megalizzi non ce l’ha fatta, come era chiaro fin da subito, dopo essere stato colpito alla testa da un proiettile sparato dal terrorista islamico che ha fatto strage a Strasburgo.
Era un collega che si è trovato al momento sbagliato nel posto sbagliato, perché mai avrebbe potuto immaginare di essere a rischio passeggiando, dopo una giornata di lavoro, per un mercatino di Natale della capitale europea. Non c’è nulla di eroico in questo, ma la sua vita fino a quell’attimo l’ha vissuta in modo eroico nel senso letterale del termine, cioè, cito dalla Treccani, «in modo duro e faticoso per le lotte da sostenere e le difficoltà da superare ma perciò intensa e piena di entusiasmo, che si ricorda con compiacimento soprattutto se paragonata a un presente piatto e poco interessante».
Nell’epoca dei record di ascolto del Grande Fratello, del disimpegno e del «tutti ladri», Antonio era appunto un eroe perché credeva e si batteva per cose oggi merce rara. Per esempio era convinto della centralità e della nobiltà della politica come unico strumento per dirimere le questioni; pensava che l’informazione e la sua libertà fossero un bene assoluto e da proteggere; era convinto che un’Europa unita, equa e solidale, fosse il punto di approdo da perseguire da parte di tutte le nazioni che ne fanno parte. E per questo si trovava a fare il giornalista politico al Parlamento di Strasburgo.
Chi gli ha sparato, un bastardo terrorista islamico, tutto questo non lo sapeva, né gli importava conoscerlo. Sono bastati i suoi tratti fisici da occidentale a trasformare il ragazzo italiano in un facile bersaglio. Ma a noi importa eccome sapere e ricordare chi era Antonio Megalizzi, 29 anni appena compiuti. Ha vissuto poco, ma non invano, anche se questo non può consolare l’immenso dolore dei suoi cari. Non invano perché il lavoro e gli ideali di Antonio restano in eredità a tutti noi che ci battiamo, ognuno nel suo campo, per una società pacifica, libera e liberale. È una eredità che non possiamo dissipare, pena essere complici di chi lo ha ucciso e dei suoi mandanti.
E questo è un patto che ci impegniamo oggi, nella memoria di Antonio, a non tradire mai.
NIENTE MISERICORDIA PER I FRATI: LICENZIATI I GIORNALISTI!
«È la stampa, bellezza! E tu non puoi farci niente! Niente!» chissà se Humphrey Bogart avrebbe mai immaginato che questa sua battuta – pronunciata a chiusura di un film del 1952 da un giornalista dalla schiena dritta – sarebbe stata poi usata come incipit di un articolo che parla della crisi di un giornale. Perché ormai la stampa è sinonimo di conti in rosso, chiusura, licenziamenti.
L’ultimo in ordine di tempo è il Messaggero di Sant’Antonio, il mensile retto dai frati di Padova che ha licenziato in tronco gli 8 giornalisti assunti, da un anno in contratto di solidarietà. Lasciati a casa a due settimane dal Natale e senza trattativa. I frati si sono così guadagnati il titolo di “peggiori padroni editoriali” (parole testuali della Fnsi, il sindacato unico dei giornalisti italiani).
C’è persino chi, in vacanza in questi giorni, apprende del proprio licenziamento… dalla stampa.
Sembra però che il giornale non chiuda e le pubblicazioni siano destinate a continuare (non si sa come e, soprattutto, con chi). Nel frattempo il Corriere del Veneto tira fuori una vecchia inchiesta sul “tesoretto” di Sant’Antonio…
Perché in questi ultimi anni ne abbiamo visti tanti di giornali dati per morti e poi ricomparsi, di fake news (la migliore degli ultimi tempi è sicuramente “Lele Mora direttore de L’Unità”), di passaggi di proprietà. Sono salvi per il momento Avvenire, Italia Oggi, Libero quotidiano, Manifesto e Il Foglio, tra i pochi che ancora godono delle sovvenzioni all’editoria. Il vicepremier Luigi Di Maio ha infatti assicurato che il taglio dei fondi (un cavallo di battaglia dei 5 Stelle) sarà graduale: 25% nel 2019, il 50% nel 2020, il 75% nel 2021. E infine il taglio totale nel 2022.
E tra i “miracolati” c’è pure Radio Radicale: il CdR aveva espresso “forte preoccupazione” in un comunicato, perché nella discussione della legge di bilancio era entrato un emendamento che, pur prorogando di un anno la convenzione per la ritrasmissione dei dibattiti parlamentari, ne dimezzava il finanziamento (da10 a 5 milioni). Ma poche ore dopo si è appreso di una marcia indietro della maggioranza, con il ripristino della cifra iniziale. Sempre che l’impianto attuale della manovra regga…
E se i cacciatori di fake news sono certamente preziosi per la democrazia e per la professione ma non necessariamente per gli affari, imprenditori commercianti e forse anche qualche edicolante, e perché no anche qualche politzico, vedrebbero probabilmente con un occhio di riguardo dei novelli cacciatori di fake Lol, ché con quelle si campa, mica con l’informazione…
(Eloisa Covelli, Euronews)
TUTTI PAZZI PER IL MOSCATO D’ASTI, LA BARBERA E IL TARTUFO!
Una vera e propria “Moscato and Barbera Experience”.
Proprio così, all’inglese, perchè il Moscato d’Asti e la Barbera d’Asti hanno ormai varcato i confini dell’Astigiano, del Monferrato e del Piemonte per diventare vini sempre più internazionali.
A tal punto che cento giornalisti, blogger e “influecer” del settore wine&food – provenienti da 15 paesi, con folta rappresentanza da Usa, Cina, Corea e Giappone (e molte donne: il gentil sesso beve “meglio”…) – hanno letteralmente preso d’assalto Asti e le altre tappe del tour promozionale, organizzato dal Consorzio dell’Asti DOCG e dal Consorzio Barbera d’Asti e Vini del Monferrato, nelle terre considerate patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.
Luoghi meravigliosi e carichi di storia
Il tour ha visitato il Castello Gancia di Canelli (mai aperto al pubblico), il Relais San Maurizio, in località San Maurizio di Santo Stefano Belbo (paese natale dello scrittore Cesare Pavese), il Castello di Costigliole d’Asti (sede dell’ICIF, Italian Culinary Institute for Foreigners: la scuola di cucina italiana per stranieri), Acqui Terme (patria del Brachetto, con capatina alla favolosa fonte termale “La Bollente”, che sgorga acqua curativa a 74,5 gradi), il Foro Boario di Nizza Monferrato e il Castello di Grinzane Cavour, che ospita l’Enoteca Regionale del Piemonte). Oltre a qualche interessante cantina locale.
Tutti sognano la Cina
Con i loro 9.700 e 4.600 ettari di territorio piemontese, Moscato d’Asti e Barbera d’Asti (e ci aggiungiamo il Brachetto d’Acqui, per una doverosa incursione per l’esordio dell’Acqui Rosè secco, presentato in comune ad Acqui Terme, in provincia di Alessandria) hanno già una dimensione mondiale e un fiorente mercato internazionale: basti pensare, ad esempio, che la maggior parte dei 90 milioni di bottiglie di Moscato d’Asti prodotte ogni anni finisce già all’estero (circa 32 milioni di bottiglie).
Ma non è mai abbastanza, visti i limiti del mercato italiano: un occhio di riguardo, da parte dei consorzi e dei produttori, va sempre allo sterminato – ma complicato – mercato asiatico e, in particolare, a quello cinese.
“In realtà, il consumatore medio cinese non ha ancora una grande vera cultura del vino“, spiega Francesco Ye, in un italiano perfetto, frutto di dieci anni di collaborazione tra Shanghai, dove vive, e l’Italia.
“Per cui conta ancora molto la pubblicità, la fama del marchio, la zona d’origine, lo status symbol che rappresenta quel vino. Non a caso, lo champagne è sempre il numero uno, anche se lo spumante Moscato d’Asti si sta facendo sempre più conoscere“, aggiunge Francesco Ye, Business Consulting di “ITaste”.
…e il sogno americano continua
“Se un vino è di qualità, un buon marketing lo può lanciare definitivamente. Ma una buona vendemmia rimane comunque meglio di un buon marketing“.
Lo dice Walter Speller, inglese che fa la spola tra Padova e Londra, esperto del vino italiano del sito www.jancisrobinson.com.
Sulla qualità di Moscato e Barbera, del resto, non ci sono dubbi. Per il Moscato, una sola uva, ma tre differenti interpretazioni (Asti secco, Asti dolce, Moscato d’Asti) e una precisa identità rurale: le bollicine, dolci o secche, che gli americani apprezzano e che amano abbinare – pensate un po’ – con il cibo asiatico molto speziato.
“Ormai un buon Moscato si trova dappertutto negli Stati Uniti, anche nelle cittadine più sperdute del Texas o del Kansas, per intenderci“, racconta con un ottimo italiano Jeremy Parzen, giornalista esperto di “roba buona” italiana, uno dei più quotati, insieme al connazionale Joe Roberts.
“Nello store sotto casa si può sempre trovare il Moscato d’Asti DOCG originale, di solito con il marchio Cupcake, uno dei più famosi degli States“, aggiunge Jeremy Parzen.
Dall’altra parte dell’Oceano, è molto apprezzata anche la Barbera d’Asti, finalmente non più vista solo come un “secondo vino” alle spalle del Barolo: da abbinare rigorosamente con le bisteccone americane e persino con le mitiche “ribs”, le braciole alla griglia tipicamente made in Usa.
“Ora stiamo puntando molto sul Nizza, un Barbera Superiore che ci sta regalando molte soddisfazioni, soprattutto sui nostri tradizionali mercati esteri“, dice Filippo Mobrici, vulcanico Presidente del Consorzio di Tutela della Barbera d’Asti. “Del resto ce lo stanno confermando in numerosi riconoscimenti che ci stanno arrivando“, continua Mobrici.
E a proposito del Nizza. proprio nelle ultime settimane il Nizza 2015 “Cipressi” dell’azienda di Michele Chiarlo è stato giudicato il Miglior Vino del Mondo del 2018, secondo la prestigiosa rivista americana “Wine Enthusiast”, che recensisce i migliori 100 vini del Pianeta. Miglior pubblicità di così….
Una delle giornaliste di punta proprio di “Wine Enthusiast” è Kerin O’Keefe, americana di Boston, innamorata della Toscana, del Piemonte e dei suoi vini (anche se poi ha scelto di vivere in Svizzera..).
Presente al Foro Boario di Nizza Monferrato, Karin O’Keefe ha confermato la sua passione per le nostre bottiglie. “Ci sono ancora potenzialità enormi sul mercato americano per il Moscato, per la Barbera e per molti altri vini italiani di qualità”, ha detto la giornalista americana. Confermando una tendenza alla “sperimentazione” degli abbinamenti vini-cibo, che parrebbero assai azzardati. In Norvegia, ad esempio, bevono la Barbera con il salmone!
In altri tempi, il pesce con il rosso avrebbe fatto inorridire i puristi, ma ora i tempi sono proprio cambiati.
Bollicine bianche o rosso corposo? Impossibile scegliere
L’evento “Moscato and Barbera Experience” – oltre ad una splendida sinergia tra i due consorzi nell’attività di promozione e comunicazione – è stata anche l’occasione per presentare l’anteprima della vendemmia 2018 del Moscato. “Ci è sembrata un’ottima opportunità per presentare agli esperti internazionali, provenienti da tutto il mondo, il nostro prodotto più fresco“, dice Giorgio Bosticco, Direttore del Consorzio di Tutela dell’Asti.
“Abbiamo fatto degustare in anteprima, ad appena due mesi dalla vendemmia, il Moscato d’Asti 2018: è il primo vino, a denominazione d’origine controllata, che si può già presentare a così breve tempo dalla vendemmia e, grazie alla tecnologia del freddo, può essere conservato e imbottigliato nell’arco dell’anno fino all’arrivo della prossima annata“, aggiunge Bosticco.
Nel corso di questo vero e proprio “tour de force” tra bollicine bianche e corposo rosso (con adeguato uso del “secchiello-sputacchiera” per non…perdere la testa), tra Moscato e Barbera – ma non solo: ci è capitato di godere di eccezionali tajarin al tartufo bianco, fatti con 40 tuorli! -, i 100 giornalisti internazionali hanno dimostrato grande attenzione ed entusiasmo.
A tal punto che qualcuno di loro, un paio di giovani cinesi e un un attempato signore olandese, hanno alzato il gomito, sono crollati in pieno pomeriggio e si sono messi a ronfare alla grande. Lo abbiamo interpretato come un ottimo segno della qualità del vino italiano e piemontese.
Come dire: non si vive di solo “prozecco” (come lo chiamano i tedeschi).
IL GIRO DEL MONDO…CON I PATTINI!
L’avventura che ha intrapreso da tre mesi Rosario Basciotti, per gli amici “Rox Bax”, torinese giramondo di 32 anni, è assolutamente straordinaria. Non tanto perché farà il giro del mondo (già: chi non ha fatto il giro del mondo? Io no, ad esempio…), ma perché lo farà con i pattini in linea, e mai nessuno prima di lui era arrivato ad azzardare tanto, una autentica circumnavigazione del mondo, a tal punto che se Rox completerà il suo tour mondiale entro marzo 2020 (“Ma il mio obiettivo è tornare per Natale 2019!”, esclama il nostro viaggiatore), vedrà il suo nome giganteggiare sulle pagine del mitico Libro del Guinness dei Primati. In realtà, un record da superare – e già superato – c’era: quello del tedesco Peter Boegelein, che nel 1986 percorse 8596 km con i pattini. Ma, come vedremo, non è solo una questione di record…
Segnalatomi dalla preoccupata mamma Maria, che – ironia della sorte – lavora alla Motorizzazione (“Ma ormai si è abituata ai miei viaggi”, dice di lei Rosario), ho preso contatto con l’intrepido viaggiatore – che ora si trova in Uruguay, ennesima tappa del pazzesco viaggio – per telefono e via whatsapp. E così è nato questo “diario di bordo”, che riproduce quello che Rox aggiorna spesso e volentieri sulla sua pagina Facebook “Rox ‘N’ Roll – Around the world on inline skates” (scritto proprio così, in inglese. Su Instagram: rox_n_roll_around_the_world; su YouTube cercate i suoi video cliccando su Rox ‘N’ Roll around the world): in totale sono 29.000 km, 25 nazioni, 5 continenti.
Non fatelo tutti, lui è allenato!
Subito un avvertimento: questa avventura non è proprio per tutti, bisogna essere giusto “un filo” allenati. E Rosario lo è di sicuro, visto che dello sport, della sua passione, ha fatto anche un lavoro. Laureato in Scienze Motorie, con specializzazione in Management dello Sport, Rox è un istruttore di fitness in formissima, mica con la pancetta come il vostro sedentario cronista… Oltretutto, non è esattamente un neofita di queste “maratone”: tanti viaggi, anche a piedi, poi nel 2012 ha fatto il giro d’Italia con i pattini, 3000 km in 42 giorni, toccando 13 regioni e tre mari. E da lì è stata un’escalation continua: Torino-Lisbona, stavolta in bicicletta, con l’amico di sempre, Federico, 3300 km in un mese, poi la Corsica in bici in solitaria in dieci giorni e, infine, la manifestazione “Rallentando 2.0”, dove, per la prima volta, Rosario ha alternato i pattini alla bici. Da qui, il progetto del viaggio “a motore umano, che è anche un viaggio introspettivo, una sfida con me stesso ed è, anche, una campagna di sensibilizzazione all’ecologia, al rispetto per la Madre Terra sui cui viviamo, partendo proprio da Torino, la mia città, più volte classificata come città più inquinata d’Italia”, dice Rox. Che aggiunge, tanto per farci capire il personaggio: “Da diversi anni mi muovo il più possibile in bici, ho venduto l’auto nel 2014 e quest’anno ho rottamato pure lo scooter. Quando non posso proprio muovermi in bici, utilizzo il car sharing”. Capito che tipo è?
Il viaggio: ma che viaggio!
Partito il 1° settembre da Torino, dopo 82,5 km in 5 ore e 11 minuti alla velocità massima di 49,9 km/h, Rosario termina la prima tappa ad Oulx, sulle nostre montagne “olimpiche”. Ma il vero viaggio comincia il giorno dopo, con il passaggio di frontiera, arrivando in Francia e lasciando tracce (e foto) del suo passaggio in Costa Azzurra, ad Avignone, Nimes, Montpellier e Perpignan. Poi sbarca in Spagna, dove resta 20 giorni (con 4 giorni di riposo: ogni tanto ci vogliono!) – tra Girona, Barcellona, Tarragona, Valencia, l’Andalusia e fino a Tarifa – e una tabella di marcia riportata sul suo pagina Facebook, che comprende le calorie consumate (90mila!) e la manutenzione tecnica (due freni sostituiti e un cambio gomme, tipo Formula Uno!).
Solitamente le tappe previste dalla tabella di marica sono di 70-80 km, ma ce ne sono altre più lunghe, anche 100-120 km, a seconda delle condizioni delle strade e del meteo, alla media oraria niente male di 15 km all’ora.
La prima tappa “esotica” fuori dell’Europa – e vale come passaggio in Africa – è stata il Marocco, a Fes, Rabat e Casablanca, con fidanzata e genitori al seguito (solo per un breve vacanza, non per tutti i 500 giorni!), ma in automobile, mica con i pattini… Poi, dopo un bel viaggetto aereo (“Mi piacerebbe essere un viaggiatore senza aerei, come Tiziano Terzani, ma come si fa?”, dice Rox, costretto ad usare anche traghetti e bus), l’arrivo in Brasile, a Rio de Janeiro e San Paolo, passando per Curitiba, Porto Alegre e Florianopolis, con tanto di articoli sui giornali e sui siti web e servizi tv su Rede Globo e sulla tv locale del Paranà dedicati proprio alla “pazza idea” (diventata realtà) di Rox.
Le prossime tappe? In tutto saranno ben 430. Tenetevi forte: gli Stati Uniti “Coast to Coast” (anche qui c’è un record da battere: “Devo impiegare meno di 69 giorni a percorrere le 2595 miglia, oltre 4000 km, che separano Crescent Beach, in Florida, da Soltana Beach, in California”, spiega Rosario), quindi l’Australia, Giappone e Cina (da Shanghai a Shenzhen, poi fino ad Hong Kong), Singapore, l’Indonesia, l’India, l’Azerbaijan, l’Armenia, la Georgia, la Russia (tappa a Soci, città di mare che ospitò le Olimpiadi invernali), l’Ucraina, quindi Moldavia, Romania, Ungheria, Croazia, Slovenia e, finalmente, a Torino entro il 500esimo giorno dalla partenza, ma Rox prevede di arrivare decisamente in anticipo, per un super Natale 2019 da festeggiare in famiglia. E a quel punto, sarà nel Guinness dei Primati!
Ecologia, etica, spazio e concetto del fermarsi
Ma le motivazioni del viaggio di Rosario, come abbiamo già intuito, sono ben altre. “Il perché di questi viaggi? Innanzitutto per la curiosità di vedere il mondo e la curiosità di sapere di più su chi aveva già fatto avventure del genere”, spiega il nostro viaggiatore. “Ho letto tantissimi libri di viaggi nel mondo, in tutti i modi: a piedi, in bici, in autostop, in barcastop, senza prendere aerei… Tra i più conosciuti, il “vagamondo” Carlo Taglia, che per me è un punto di riferimento, e ancora Mattia Miraglio, Paola Gianotti e altri italiani che hanno fatto queste esperienze. E poi, naturalmente, c’è la grande storia di Tiziano Terzani, che è un must per tutti quelli che apprezzano questo mondo. Un’altra motivazione è la sfida, una sfida proprio fisica, per fare il giro del mondo. E stavolta mi sono voluto motivare anche con la richiesta di misurazione del record per il Guinness dei Primati. Il giro del mondo in pattini non l’ha mai fatto nessuno e non potevo certo farmi sfuggire questa occasione. Oltre a ciò, c’è anche un messaggio etico, ecologico e di consapevolezza: guardare dall’esterno fin dove siamo arrivati. Ad avere sempre più macchine, sempre più motori. E la difficoltà del concetto di rallentare e di fermarsi. E di godersi il tempo, l’attesa, il tempo necessario per arrivare ad un punto, senza fretta, per arrivare al lavoro, per fare una commissione, per godersi il viaggio stesso. Anch’io ho avuto una macchina, ho avuto un motorino e ho vissuto pienamente questa frenesia: due-tre lavori in giro per la città, spostarmi a destra e a sinistra, la fretta, il traffico, mangiare in macchina, rischiare incidenti. Ora basta. Piano piano, ho cominciato, grazie ai primi viaggi, a usare di più la bicicletta e adesso cerco di spostarmi il più possibile in bici, in libertà, in autonomia, proprio perché non sei legato ad un motore e, soprattutto, al concetto dello spazio. Oltre all’inquinamento e al rumore acustico delle macchine, esiste lo spazio che occupano le auto. Spesso sulle macchine c’è una sola persona, che porta in giro 1.000-1.500 chili di una automobile e la cosa non ha proprio senso di esistere. E’ come se un uccellino”, conclude Rosario, “per spostarsi da un albero all’altro, ogni volta si portasse dietro il ramo. Rende l’idea?”
Eccome, se rende.
Vitto e alloggio
Ma quanto costa fare un viaggio del genere? Sinceramente non mi interessa fare i conti nella tasche del nostro “romantico viaggiatore”, anzi: credo che una impresa del genere, che secondo me sarà solo la prima (e non certo l’ultima) merita una adeguata ricompensa in termini di visibilità e di pubblicità, sotto forma di sponsorizzazioni. Lo vedo bene, il nostro Rox, nei panni del “Giovanni Soldini dei pattini”, con la differenza che Rosario va a “motore umano”, come ama dire lui. Dico bene? “Magari!”, esclama Rox. “Per il momento, comunque, non ho sponsor reali che mi pagano. Ho dei fornitori per i materiali tecnici e un crowfunding continuo da parte di amici e simpatizzanti. Sto cercando anche degli sponsor, certo, ma adesso che sono in viaggio è un po’ complicato fare le trattative! Per l’alloggio, ci sono tanti amici in giro per il mondo che posso rivedere e che mi possono dare ospitalità. Altrimenti ci sono sempre degli ottimi ostelli…”.
A casa? Tutto bene?
E a casa cosa dicono di questa avventura di Rosario? “Lui è sempre stato un ragazzo responsabile”, spiega mamma Maria, che parla a nome anche di papà Mario. “Sono un po’ preoccupata per questi suoi viaggi, ma non mi sembrava giusto rovinare un suoi sogno per un mio egoismo. I figli sono parte di noi, ma non sono nostra proprietà. Devono essere liberi di realizzarsi!”
Siamo tutti giovani, grazie a Rox
In attesa di completare la sua grande impresa e di entrare di diritto tra i Grandi dello Sport e dell’Avventura (e non solo) – poi scriviamo insieme il libro best-seller di questo viaggio, eh? – un obiettivo, il mitico Rosario “intrepido viaggiatore” lo ha già raggiunto: basta sentire i suo racconti, leggere le sue storie città per città in giro per il mondo, ammirare le sue foto, per sentirsi più giovani e avventurosi, come se davvero “nothing is impossibile”.
E io, intanto, domani vado a comprarmi un paio di pattini…
OGNISSANTI: GLI “OS DIJ MORT” PIEMONTESI INSCATOLATI NEI SUPERMERCATI FRANCESI
Comunque, se sapete dell’esistenza anche in Italia e in Piemonte, di questi biscotti “Piémont”, fatemi un fischio. Non si finisce mai di imparare. E di assaggiare.Una tradizione che continua
Ma sono cosi conosciuti questi “Ossi dei morti” dalle nostre parti? Si fanno ancora in casa? L’ho chiesto in giro e anche ai miei contatti su Facebook, la miglior piattaforma “tuttologica” di tutti i tempi: e allora sembra proprio di si, sembra proprio che questi dolci novembrini abbiano ancora un certo successo, soprattutto tra le famiglie (e le pasticcerie) più legate alla tradizione.
Io li conosco poco, lo ammetto, ma io non faccio testo, in quanto emiliano trapiantato un po’ a Torino e un po’ a Lione: per noi i dolci della celebrazione dei Defunti sono i “favetti” o le “raviole”- di cui un giorno vi parlerò – e che, stranamente, vanno bene sia ad Halloween (anche se non esisteva, ai tempi in cui impastava e infornava mia mamma) che a Carnevale. Evidentemente, anche certi dolci (come certi amori) “fanno dei giri immensi e poi ritornano” (per la citazione si ringrazia Antonello Venditti).
I biscotti “liberamente tratti” non sono affatto male
Gli ingredienti? Vi risparmio la ricetta completa dei biscotti del supermercato, fatti con il 49% di cioccolato nero e di altra roba tipo huiles végétales (palmiste, coco, tournesol: il famigerato olio di palma, quello di cocco e quello di girasole) più sirop de glucose e via discorrendo. Però, vi dirò: il risultato è buono e crea dipendenza: ho appena fatto in tempo a fare la foto per l’articolo con la confezione piena che la confezione, un attimo dopo, era già vuota. Per fortuna ne avevo preso due scatole. Previdente, no?
Le mille varianti degli “Ossi dei morti”
Nella ricetta originale degli “Ossi”, con dozzine di varianti regionali, troneggiano farina, uova, zucchero, mandorle, nocciole, cioccolato, frutta candita, marmellata, cannella, chiodi di garofano, zenzero, fichi secchi e chi più ne ha più ne metta e, a seconda del tipo di “ossa”, i biscotti possono essere bianchi, marroni o rosa (con un cicinino di colorante, temo), più o meno morbidi, croccanti o duri (un’amica mi ha detto “sono duri come le ossa, rischi di spaccarti i denti, ma quanto sono buoni”…). Io, in realtà, alla mia dentiera naturale ci terrei ancora.
Ma perchè si chiamano “Ossi dei morti”? Secondo la leggenda (e pure secondo Wikipedia) – ma del resto si intuisce facilmente – il nome è dovuto alla forma e alla consistenza di questi dolci, che sembrano proprio quelle di un osso. In diverse zone d’Italia, nella notte tra il 1. e il 2 novembre, esiste ancora la tradizione di stendere tutti questi dolci sulle tavole imbandite, convinti che possano essere di gradimento ai familiari defunti.In Francia? Solo macarons e madeleine
Ma io ora voglio scoprire questi dolci “Ossi dei morti” o “Pièmont” dal “vivo”, cioè in una pasticceria, una pasticceria francese. E quindi ho perlustrato tutte le vetrine delle otto pasticcerie del centro di Lione, in Rue de la Rèpublique, e in qualcuna sono pure entrato a chiedere lumi e dolci informazioni. Posso, quindi, dirvi con cognizione di causa, che degli “Ossi dei morti” i francesi non ne sanno proprio una mazza, ma se poi spieghi loro qualcosa sui biscotti di Ognissanti, rispondono “Ah, i biscotti Torino”, almeno per sentito dire. Biscotti Torino, capito? Un’altra definizione. Chissà come chiamerebbero i leggendari Krumiri di Casale Monferrato….
La graziosa commessa di “Eric Kayser”, nota pasticceria artigianale diventata una catena in tutta la Francia, mi suggerisce di provare i loro biscotti di Ognissanti, una confezione anonima “croquant noisette amandes” (croccante nocciole mandorle) che assomigliano, molto ma molto vagamente, proprio agli “Ossi dei morti”. E per essere buoni sono buoni, ma sono i biscotti più sbriciolosi del Pianeta Terra e, in effetti, anche con loro la dentiera è a forte rischio…
Per il resto, nelle pasticcerie francesi vige il motto “paese che vai, dolci che trovi”. Quindi: macarons ovunque (belli colorati, ma sopravvalutatissimi, diciamo la verità) , madeleine di proustiana memoria e cioccolatini di lusso in eleganti confezioni altrettanto di lusso, come da “Voisin”, che più che una pasticceria sembra una gioielleria (anche nel prezzo). Per il resto, in questi giorni, tra mille zucche zuccherate di Halloween, al massimo spunta il miglior tiramisù di Lione, che lo fanno in una pizzeria napoletana che si chiama proprio “O’ Tiramisù”, con le partite piratate del Napoli sul maxischermo e pure in un locale che si chiama “Piada: un po’ di italianità” (non proprio la piadina romagnola, ma la loro versione con sardine e crema di cipolla rosse di Tropea è da sballo!).
Nostalgie alimentari italiane
Basta, basta, non voglio mica fare come quegli italiani che ascoltano Toto Cotugno (mito degli emigranti) e sul gruppo di Facebook “Italiani a Lione” scrivono solo di nostalgie alimentari del tipo “Ma dove posso trovare il pane carasau?”, al che io ho risposto: “Torna in Sardegna!”. E mi sa che anche io, per provare i veri “os dij mort”, dovrò tornare in Piemonte. Intanto, per non sentire la nostalgia canaglia, mi sono comprato un’altra scatola di “Les suprenants Pièmont”, sempre più sorprendenti, sempre più buoni. E non demordo sulle origini e sulla diffusione della pasticceria piemontese.
La prossima indagine gastronomica sui dolci piemontesi nel mondo? I cuneesi al rhum…
ATTENTI AL “MACABRO BAR”!
È FINALMENTE USCITO IL MIO NUOVO ROMANZO: “MACABRO BAR”.
PAURAAAAA!
La trama
Uno squallido bar di periferia di una città di provincia diventa l’insospettabile scenario di una serie di inspiegabili omicidi.
Chi vuole vendicarsi di Loretta, la sciatta e innocua barista del bar vicino alla stazione? E chi uccide, ad uno ad uno, tutti i clienti del bar?
Attorno a quelle quattro mura e a quei quattro tavolini si stringe un patto d’acciaio tra componenti della piccola “setta” del Macabro Bar. Ma qualcuno di loro ha un segreto troppo grande per essere ancora tenuto nascosto…
Nelle brevi e tetre giornate autunnali indaga una coppia davvero strana: l’energico commissario Carlo Antonio Gelardi e il disilluso giornalista Max Tartaglia.
Ma anche loro potrebbe finire stritolati dallo spirito del Macabro Bar.
TE LA DO IO LA TORINO-LIONE: MA CON IL FLIXBUS!
dall’articolo di Cristiano Tassinari comparso su www.torinoggi.it il 21.10.2018
Se i Flixbus fossero stati inventati un po’ di tempo prima, forse non avremmo mai sentito parlare della TAV, in particolare della famosa e famigerata linea Torino-Lione.
Per chi, in realtà, non ha mai sentito parlare nemmeno dei Flixbus, urge una presentazione: è un’azienda tedesca, fondata una decina di anni fa da tre ragazzotti di belle speranze, che manda in giro quegli autobus dallo sgargiante color verde, con le frecce arancioni – colori che sarebbero stati visibili anche ai tempi della nebbia che fu – che hanno ormai monopolizzato il mercato europeo dei viaggi low-cost.
Viaggi a “basso costo”, certo, ma non in aereo e nemmeno in treno: sono gli autobus le nuove frontiere dei percorsi a lunga percorrenza (e pazienza) e con un eccellente rapporto qualità-prezzo. Ecco, il prezzo: è solo questo l’unico criterio sulla scelta di un mezzo di trasporto o di un altro.
Io, da oltre un anno, vado con una certa regolarità a Lione per motivi di lavoro: nella maggior parte dei casi, prendo il Flixbus dagli stalli dell’autostazione in corso Vittorio Emanuele, proprio di fronte al Tribunale di Torino. Qualche volta, viceversa, ho preso il TGV che da Torino porta a fino a Lione e poi prosegue per Parigi (per fortuna, esistono anche i TGV diretti Torino-Parigi!). Per certi versi, quindi, sono piuttosto ferrato in materia e posso senz’altro anticiparvi che è molto meglio prendere il Flixbus anzichè il treno. A meno che non ci siano dei ladri di telefoni sull’autobus…
Il prezzo fa la differenza
Innanzitutto il prezzo, dicevamo. Con tariffa regolare, un biglietto di sola andata in seconda classe da Torino Porta Susa alla stazione di Lyon Part-Dieu costa 69 euro e rotti. Un biglietto di sola andata da Torino-Vittorio Emanuele all’autostazione di Lyon Perrache, acquistato esclusivamente via Internet sul sito della Flixbus, può costare anche soltanto 18,90 euro. Oppure 24 euro, oppure 34 o giù di lì, in base al giorno e all’orario della partenza (sei bus ogni giorno sulla tratta Torino-Lione) e a quanti giorni prima si prenota. Prezzi davvero concorrenziali. Nel peggiore dei casi, se dovete prendere al volo il Flixbus senza aver prenotato (se c’è almeno un posto libero), vi costerà 50 euro tondi tondi, da pagare cash (non accettano bancomat o carte) al momento di salire a bordo. Tanti, 50 euro, per la media di Flixbus. Comunque meno rispetto al treno.
Il biglietto dà diritto ad un bagaglio a mano da far salire in autobus e una valigia da mettere nella stiva. Eventuali ulteriori bagagli (c’è chi trasporta persino televisori o lavatrici) sono da pagare a parte. Con un euro in più si può pure prenotare il posto, zona corridoio o zona finestrino. L’autista, di solito un francese che non spiaccica una parola di italiano, vi convalida il biglietto – si può stampare o mostrare il codice a barre ricevuto via mail direttamente dal telefonino -, vi informa sui servizi e sulle regole del Flixbus e vi augura “bon voyage“.
“Bon voyage”
Quali servizi e quali regole? Roba semplice: l’wi-fi funziona, ma le prese usb per ricaricare i telefoni no, sono tutte rotte, vendono bottiglie d’acqua e snack a un euro, c’è la toilette vicino alla “poubelle” (il sacchetto dell’immondizia) e la “poubelle” vicino alla toilette, che non si può usare fuori dall’autostrada e che tanto è sempre chiusa e per usarla, se ce la fate a trattenervi, dove andare davanti e chiedere allo chaffeur di aprirvela. Poi, dentro, l’avvertimento in italiano maccheronico è esilarante: “Preghiera di lasciare questo luogo tanto proprio che desiderate trovare introducendolo“.
Dai, si parte. Durata del viaggio prevista con Flixbus: 4 ore 50 minuti, compresa la pausa obbligatoria di 30-40 minuti prevista per legge per l’autista (la sua tratta comincia a Milano e finisce a Clermont Ferrand).
Quelle poche volte in cui ci sono due autisti, di solito il venerdì pomeriggio, ma anche qualche altro giorno fortunato – con un servizio effettuato da una compagnia di autobus di Gallarate (Varese) con autisti che parlano l’italiano con un evidentissimo accento dell’Europa dell’Est – non c’è bisogno di fare la pausa, visto che i due conducenti si danno il cambio. E mi spiace dirlo, lo dico sottovoce, ma guidano meglio gli autisti francesi…
Dicevamo del tempo: 4 ore e 50 minuti, più o meno, il Flixbus. Il treno Torino-Lione non ci mette molto meno: circa 4 ore 15 minuti. Ferma a Oulx, a Bardonecchia, a Modane (dove sale la Polizia, e si perde un bel po’ di tempo), a Chambery e poi tira dritto senza mai essere un Train à Grande Vitesse, anche perchè i binari non lo permettono proprio.
Il primo scoglio: i controlli di Polizia
Dopo un’ora di viaggio molto tranquillo (i passeggeri del Flixbus, molti sono studenti, sono generalmente assai silenziosi, a meno che non ci sia qualche comitiva di italiani o arabi, obiettivamente i più numerosi e rumorosi…), arriva il primo scoglio, il più duro, per qualcuno addirittura insormontabile. Non si tratta del Tunnel del Frejus, bensì del controllo della Polizia di Frontiera francese, proprio un attimo prima del casello di Bardonecchia che immette nei 13 km del Tunnel del Frejus.
La Polizia francese, che a quanto pare si è completamente dimenticata del Tratto di Schengen, sale a bordo sempre con tono piuttosto sbrigativo e arrogante: i francesi e gli italiani non temono nulla, basta sventolare sotto il naso degli agenti la carta d’identità – anche se qualcuno azzarda talvolta la domanda “Cosa va a fare a Lione?” -, ma con i passeggeri “non europei” i frontalieri francesi sono davvero spietati. Si accaniscono soprattutto sui passeggeri neri, alcuni dei quali – per un motivo o per l’altro – non sono mai in regola con i documenti e i permessi di soggiorno. Fatto sta che, puntualmente, ogni volta, un paio di ragazzi africani sono costretti a scendere dal Flixbus, raccogliere mestamente i loro bagagli e seguire i poliziotti nel posto di Polizia di Frontiera. Che fine faranno poi? Temo nessuno si sia mai posto il problema. Una volta sono stati fatti scendere addirittura sette passeggeri in un colpo solo e, cinicamente, ho visto gli altri passeggeri a bordo addirittura felici e sollevati, perchè l’autobus era strapieno e, senza quei sette, qualcuno poteva stare più largo nel sedile…
Nessuna pietà per i ladri di telefoni
Il caso più clamoroso di controlli di Polizia si è verificato proprio l’altro giorno, un episodio che devo assolutamente aggiungere a questo mio “reportage” sulla Torino-Lione via Flixbus. Poco dopo l’ingresso in territorio francese, e dopo aver superato già il tradizionale controllo di frontiera, il nostro autobus verde-arancione viene affiancato nuovamente dalla Polizia di dogana, che indica di accostare in una piazzola. Con tono marziale ci ordinano di scendere tutti dal bus, di recuperare tutti i nostri bagagli ed effetti personali e di metterci uno di fianco all’altro, con le nostre valigie e i nostri documenti. Se fossero altri tempi, scriverei di “rastrellamento”.
Poi, finalmente, si capisce cosa stanno cercando: né clandestini né droga, ma una confezione rubata di sei telefoni cellulari, sottratti, a quanto pare, in un non meglio identificato negozio. Poiché da Torino, quando sono salito io, non ci siamo mai fermati, il furto dev’essere avvenuto prima della partenza a Milano, perché neppure da Milano a Torino ci sono fermate intermedie. Io stavo dormicchiando e sono stato uno degli ultimi a scendere. Ma altri – a quanto pare – sono stati assai veloci, a tal punto da correre nei bagni della piazzola (guarda caso c’erano i bagni!). Bisogno urgente o mossa strategica?
Un battaglione di poliziotti ci perquisisce anche corporalmente, non soltanto le valigie e gli zaini e, naturalmente, non trovano niente. Poi, ad uno degli agenti, viene l’idea di cercare nelle toilette della piazzola e, dopo qualche minuto, torna con la scatola di cellulari Huawei rubati. Dentro ce ne sono cinque, ma la confezione è dai sei. Vuol dire che il sesto telefono il ladro lo sta già usando e lo tiene con sé. Il tentativo maldestro di sbarazzarsi della refurtiva è andato male. I poliziotti chiedono a tutti di mostrare i nostri cellulari personali, ma nessuno combacia con il modello di quelli rubati. “Se non salta fuori il ladro, l’autobus non riparte”. Intanto, passa il tempo, passa almeno un’ora e mezza, con i passeggeri spazientiti, si perdono appuntamenti, coincidenze, cose da fare. Qualcuno chiede se ci sono le telecamera di sorveglianza nei bagni, qualcun altro propone la raccolta delle impronte digitali e la ricerca del DNA. Tipo CSI-Flixbus. Quando, all’improvviso, dopo essere ritornati a bordo in attesa di sviluppi, nei sedili posteriori vicini al mio succede qualcosa di strano. “Che stai facendo?”, sbraita un ragazzo senegalese alto e magro, rivolto ad un ragazzo arabo seduto dietro di lui. “Stai tentando di nascondere il telefono addosso a me? Per dare la colpa a me?”, gli urla in faccia, in italiano. Anche il ragazzo arabo parla italiano e vive in Italia, lo dice lui stesso. Risponde solo: “Io non c’entro niente!”. Il senegalese, spalleggiato da un amico, scende dall’autobus e denuncia l’accaduto ai poliziotti. Almeno in sei salgono a bordo, trascinando il ragazzo arabo giù dal Flixbus, lo perquisiscono dappertutto e, infine, gli trovano il telefono rubato che cercavano, diverso da quello che, in un primo momento, aveva mostrato agli agenti. Senza pietà per il ladro di telefoni, il ragazzo viene ammanettato lì, davanti a noi che guardiamo increduli quella scena da telefilm poliziesco sotto i nostri occhi.
A quel punto, il giallo sembra risolto e l’autobus può ripartire.
Tutto finito? Certo che no. Perché subito dopo, nel corridoio del bus, si scatena una gigantesca rissa tra i due senegalesi – definiti “spioni” – e un gruppo di ragazzi arabi che avevano fraternizzato con l’arrestato. Volano insulti della peggior risma, in italiano corretto, da “Neri di m…” a “Voi siete dei ladri”, volano anche calci e pugni, pure io – insieme ad altri passeggeri di buona volontà – mi prodigo per far ritornare la calma, ma l’autista ha proprio perso la pazienza, ferma il Flixbus nella prima area di servizio, scende e chiama di nuovo la Polizia. Quando gli stessi poliziotti di prima arrivano sul posto pensano forse di essere su “candid camera”. “Ancora voi?”, chiedono. I due senegalesi denunciano uno degli arabi con cui avevano ingaggiato il duello di cappa e spada “(“Lui è il complice del ladro, viaggiavano insieme”) e i poliziotti se lo portano via, come se niente fosse, come se i due senegalesi fossero gli inventori della macchina della verità.
Nel frattempo abbiamo perso un’altra mezzora, qualcuno ha persino applaudito i due senegalesi paladini della giustizia, l’autista confessa “Meglio se cambio lavoro, ne succedono così quasi tutti i giorni” e la nostra (dis)avventura volge al termine.
Il resto del viaggio scorre placido e persino noioso. Meno male.
Bel tempo si spera
Se, invece, tutto fila liscio, non ci sono ladri di telefoni e c’è bel tempo, lo spettacolo delle Alpi viste dal finestrino è incomparabile. Se c’è la neve, però, e magari pure un incidente, capita di rimanere in coda e arrivare a destinazione con cinque (!) ore di ritardo. Ma la neve crea grossi problemi anche ai treni che, peraltro, in Francia, sono sempre sotto la Spada di Damocle degli scioperi organizzati dagli implacabili sindacati d’Oltralpe.
Poco prima di Chambery, ecco la pausa obbligatoria. Può servire per “riposare le orecchie” se avete avuto la sfortuna, come spesso mi capita, di avere come vicina di posto una bella ragazza africana che passa tutto il viaggio a parlare al telefono con il fidanzato, naturalmente con il loro tipico tono di voce “leggermente” alto. Ma, soprattutto: che vantaggiosissime tariffe telefoniche hanno? Le voglio anch’io!
Il peggior autogrill dell’Europa Occidentale
L’autogrill, di solito sempre lo stesso (avranno una convenzione?), è uno dei più tristi e ventosi di tutta l’Europa Occidentale. Rispetto agli autogrill italiani sembra una stazione di servizio degli anni ’70, però con prezzi alle stelle tipo Hotel Ritz di Parigi (una spremuta d’arancio 4,80 euro scontrino alla mano!). In compenso, sul treno, si può provare, in esclusiva, un altrimenti introvabile muffin al cioccolato bianco e lamponi. Roba da pasticceri stellati! Ma, anche in questo caso, ci vuole un pezzo da 5 euro e di resto vi tornano ben pochi spiccioli.
La mezzoretta di pausa in autogrill passa, comunque, velocemente, ma se d’inverno vi azzardate ad attendere l’apertura del bus cinque minuti prima (l’autista dice un orario di ritrovo e chi c’è c’è, chi non c’è va a Lione a piedi, ma è sempre un orario da barbiere…) rischiate di beccarvi sulla nuca una sventagliata di un quarto d’ora di vento gelido e impetuoso, anche in maggio e a settembre. A luglio e ad agosto, è solo impetuoso.
Come quella volta che, quest’estate, all’autogrill ci siamo rimasti…6 ore! E’ successo, infatti, che – durante la pausa – l’autista si è sentito male, ha accusato un malore, ha chiamato l’ambulanza, l’hanno caricato e portato via. Meglio che gli sia successo quando eravamo fermi e non mentre eravamo in marcia, no? Questo è fuori di dubbio. Ma noi siamo rimasti lì, abbandonati a noi stessi, in attesa di sviluppi e soluzioni. Alla fine, dopo inutili imbestialite telefonate in tutte le lingue al call center della Flixbus, a tutti i passeggeri è arrivato un messaggio sms (il numero di cellulare va segnalato all’atto dell’acquisto del biglietto sul sito): “Il prossimo Flixbus sulla linea Torino-Lione avrà a bordo un altro autista, che prenderà possesso del vostro mezzo e vi condurrà a Lione. Nel frattempo, potrete provvedere alla richiesta on-line di rimborso del biglietto e, presentando lo scontrino, sarebbe rimborsati delle spese effettuate in autogrill fino ad un massimo di euro 10″. Capite bene che, con la cifra che vi ho detto prima per la spremuta d’arancia, con euro 10 non si va tanto lontani….
Alla fine, bene o male, tra una Settimana Enigmistica e uno smanettamento frenetico sullo smartphone, le sei ore sono passate. Ma il peggio doveva ancora arrivare: quando il secondo autista, sbarcato dall’altro Flixbus, ha annunciato urbi et orbi che doveva fare la pausa obbligatoria di 40 minuti, noi passeggeri infuriati lo stavano letteralmente per linciare. E’ dovuta intervenire una pattuglia della Gendarmerie, chiamata dagli spaventati titolari dell’autogrill, per sedare i tumulti provocati da quei temibili “black-bloc” dei viaggi low-cost.
Siamo quasi arrivati, se l’autista non sbaglia strada…
Se tutto procede liscio come l’olio, come succede in realtà quasi sempre, dal momento in cui si riparte dopo la pausa, manca solo circa un’ora e mezza all’arrivo a Lione. E, quindi, siamo già virtualmente in discesa. Se non trovate i soliti autisti di Gallarate che, invece, di prendere la direzione Lione tirano dritto e stanno per andare a Marsiglia, se qualche attento passeggero non glielo fa loro gentilmente notare: “Ma dove minchia state andando?”, chiede un ragazzo siciliano. “Scusare, noi poche volte che veniamo in Lione“, risponde uno dei due autisti con l’accento dell’Est. Correggono il tiro e ci consegnano sani, salvi e persino puntuali all’autostazione di Lyon-Perrache.
Per dovere di cronaca, gli autisti dell’Est europeo sono davvero esilaranti nel loro italiano maccheronico-balcanico, come quella volta, durante un viaggio in piena estate, che ne se ne uscirono con questo annuncio dal microfono del bus: “Si prega di metere piedi in scarpe perchè tropa puza di piedi e non pozzo guidare…altrimenti devo alzare aria condizionata a massimo per battere puza di piedi”, con conseguente controllo “visivo e olfattivo” di tutti i passeggeri, uno ad uno, molti dei quali effettivamente costretti a inforcare di nuovo le calzature. Per buona pace delle nostre sensibili narici.
Controlli si o controlli no?
A parte una temperatura spesso siberiana dovuta proprio all’aria condizionata un tantino troppo alta, il viaggio di ritorno, da Lione a Torino, scivola via più o meno tranquillamente sulla stessa falsariga, ma con una fondamentale differenza rispetto all’andata: se per entrare in Francia c’è uno spietato sistema di controlli di Polizia, per tornare in Italia…non c’è niente e nessuno. E sono tutti contenti, anche gli “integralisti” dei controlli ad oltranza, perchè “almeno non stiamo fermi mezzora“, anche se poi, non so bene perchè, la durata del viaggio è sempre la stessa.
Se prendete il treno, viceversa, vi beccate il controllo di Polizia – quella francese, mica quella italiana, s’intende – anche in uscita e, francamente, dopo un po’, non se ne può davvero più. Anche se, devo ammettere, il tipo di “clientela” è diversa e dal treno non ho mai visto sbattere giù nessuno senza i documenti in regola. Poi, ovvio, rimane il dubbio: ma perchè i controlli li fanno in Francia e non in Italia? Perchè il controllo sul treno lo fanno anche in uscita dal territorio francese e non lo fanno pure sul Flixbus?
Misteri della geopolitica internazionale. Ma, anche per questo, per andare a Lione – se siete in regola e non avete rubato niente –è meglio il Flixbus del treno.
Attendendo (o no?) l’arrivo della TAV.