QUANDO LA RAI ERA MEGLIO DI UNA VATE…

Sono onorato di pubblicare questo pezzo di Giorgio Levi, apparso su Facebook il 29.12.2017.

Avevo 9 anni quando la Rai ha inaugurato, nel novembre del 1961, il secondo canale. Ricevere il segnale non era facilissimo. Bisogna armeggiare ore con un’antenna installata sul televisore di casa. Papà aveva un amico che vendeva tv e procurava antenne. Quel secondo canale lo volevamo a tutti i costi.

Nonno Giuanin che considerava la Rai una sorta di vate (“L’ha detto la Rai, perciò è vero”) non aveva perso tempo, ai primi di dicembre si era già attrezzato. E aveva abbandonato il primo canale. Tutte le sere sintonizzata il suo Magnadyne sulla rete due. “Il primo non ha futuro, io guardo il due”. Spegnava la tv quando a notte fonda compariva “l’uovo nel cestino” come noi chiamavamo il logo Rai che segnalava l’inizio e la fine delle trasmissioni.

Papà, il 31 dicembre, alla vigilia di Capodanno, chiama monsû Tonino, l’uomo che vendeva televisori in Borgo San Paolo. Tonino era un tipo bizzarro, la faccia storta preda di una serie di tic che lo costringevano a smorfie non umane. Credo che a mia sorella Betti, che aveva 6 anni, non piacesse molto. Tonino arriva con la sua antenna, la collega allo spinotto e non funziona. Stringe gli occhi, storce la bocca, tossisce, poi strizza le palpebre, alza le sopracciglia. Insomma, un calvario. Mentre lui strabuzza e muove il naso come un coniglio, l’antenna si sposta, si vedono le “righe” e per Tonino era già un buon segnale. Una cippa di segnale, pensiamo noi. E’ quasi ora di cena e Tonino è fermo alle sue righe. Alla fine abbandona il campo, ci vuole un’antenna potenziata, deve ordinarla. Mamma gli chiede se vuole una fetta d’arrosto. Se ne va con la bocca da una parte e gli occhi dall’altra.

Stavamo entrando nel futuro con il 1962 ma dovevamo dire addio al nostro primo Capodanno tecnologico. Avevamo letto che Rai 2 avrebbe trasmesso per “tutte le famiglie” una serata di cartoni della Disney. Anzi, era in programma anche un documentario con Walt Disney in persona che ci avrebbe fatto gli auguri.

Mamma gioca la carta di riserva. Il piano B. Telefona alla sua amica psicologa (quella che aveva decretato che ero un bel bambino, ma dotato di scarsa intelligenza) e ci fa invitare a casa loro. Ci siamo tutti, noi quattro, la psicologa, le tre figlie, il marito democristiano. Quando arriviamo il secondo canale è perfetto. Trasmette immagini sgranate di Disney World, ci fa vedere il mondo che sognavamo un giorno sì e l’altro pure. Poi c’è davvero lui, Walt in persona. Sono ammirato da quest’uomo che parla pure italiano. “E’ doppiato” mi dice la psicologa, come quando ci si rivolge ad un demente.

All’improvviso, appena vedo Pluto correre in un prato, parte la corrente. Sbam! Tutti al buio. Silenzio. Oddio, e adesso? Arrivano candele e candelabri d’argento. Il democristiano ne riceveva a vagonate a fine anno. La luce non torna, forse abbiamo troppi apparecchi accesi. Papà scende in cantina, armeggia un po’ e voilà. I lampadari a goccia si illuminano, il frigorifero si riprende, la tostatrice per il pane risputa le sue fette da spalmare con il salmone.

C’è un solo elettrodomestico muto come l’Orrido Moloch. Se ne sta lì troneggiante su un mobile di mogano, morto, defunto, spento, fulminato sulla via di Damasco. Saranno le valvole. Sarà che il 1962 mi sembrava che potesse cominciare meglio.

Libertà di stampa, questa sconosciuta

Già, libertà di stampa. Noi magari la diamo per scontata – anche se l’Italia è appena al 55.posto della classifica stilata da “Reporters sans frontieres” (era 77esima nel 2016) -, ma ci sono paesi che questa parola non la conoscono nemmeno. Cominciamo da uno dei paesi attualmente piu’ pericolosi per i giornalisti: la Turchia. E iniziamo da una delle storie piu’ conosciute e controverse, quella del giornalista ed editore turco Deniz Yücel, nato in Germania, e rinchiuso da quasi un anno in un carcere di massima sicurezza. In realtà senza mai essere stato incriminato di nulla: per il presidente Erdogan, Yüucel è una spia e un agente del PKK, il partito curdo dei lavoratori, eppure non è mai stato formalmente denunciato. Eppure la sua liberazione appare lontana. Si è dovuto mobilitare addirittura “Die Welt”, il quotidiano tedesco di cui Yücel è corrispondente, per lanciare una massiccia campagna per la sua liberazione, raccogliendo oltre 200 firme tra artisti e intellettuali, tra i quali Wim Wenders, Bono Vox, Sting e Orhan Pamuk. Esiste anche un hastag #freedeniz per supportare questa petizione. Da qualche settimana il giornalista turco non è piu’ in isolamento: ora divide una cella con due detenuti, di cui uno – guarda caso – è un altro giornalista, Oguz Usleur, del giornale turco “Haberturk”. E non è un caso: nelle prigioni turche, attualmente, si trovano 135 giornalisti, molti dei quali in carcerazione preventiva, per un vago sospetto di “propaganda terroristica”.

Oltre che sui giornalisti, l’ira del “Sultano” Erdogan dopo il fallito golpe del luglio 2016 si è scatenata su tutti gli apparati dello stato, dalla pubblica amministrazione all’economia privata. I dati sono inquietanti (forniti da Luca Ozzano, ricercatore del dipartimento cultura, politica e società dell’Università di Torino e relativi al periodo luglio 2016-novembre 2017): 146.713 persone licenziate, 128.998 detenute, 61.247 in stato di arresto. 3000 scuole, università e istituzioni educative chiuse (molte delle quali legate al predicatore Fetullah Gulen, ex alleato di Erdogan, ora, dagli Stati Uniti, il suo peggior nemico), 8.693 accademici licenziati, 4.463 giudici e procuratori licenziati, 187 media chiusi.

Se la Turchia è un caso che va ben oltre i limiti della decenza, in Polonia e in Ungheria le cose vanno meglio, ma non di troppo. Iniziamo dall’Ungheria, governata con cipiglio autoritario dal leader nazionalista Viktor Orban. Come ci spiega la ricercatrice Donatella Sasso, coordinatrice culturale presso l’istituto di studi storici “Gaetano Salvemini” di Torino e editorialista di EastJournal (www.eastjournal.net), l’Ungheria già nel 2011 ha approvato una “Legge Bavaglio” che all’epoca prevedeva; la soppressione di tutte le agenzie che producono o diffondono informazione nelle radio o nelle televisioni. Di fatto rimaneva attiva solo l’Agenzia di stampa governativa, finanziata da entrate statali. E ancora: multe per chi scriveva articoli non equilibrati politicamente o informazioni contrarie agli interessi nazionalisti, la cui valutazione era affidata ad un Garante di nomina governativa. Inoltre, i giornalisti avevano l’obbligo di rivelare le loro fonti. E i telegiornali dovevano rispettare la soglia del 20% per la cronaca nera (per non diffondere troppe brutte notzie…) e la musica nelle radio doveva essere, per il 40%, ungherese. L’ondata nazionalistica era già evidente. Da allora, la “Legge Bavaglio” è stata un po’ smussata nei suoi angoli piu’ spigolosi, su forti pressioni dell’Unione Europea e con buona pace di Orban, che continua comunque a fare buon viso a cattivo gioco. Ad aprile 2017, peraltro, 70mila persone scesero in piazza a Budapest per protestare contro la decisione del primo ministro di chiudere l’Università privata fondata da George Soros, il magnate ungherese ormai diventato un acerrimo nemico per Orban.
In Polonia, intanto, nel dicembre 2016 ci furono numerose manifestazioni di piazza a favore della libertà di stampa e contro il decreto legge del governo che intendeva ridurre gli accrediti per i giornalisti che seguono abitualmente i lavori parlamentari. Solo due per testata, con il divieto tassativo di scattare foto e girare video dei lavori del Parlamento. Un sistema per impedire che venissero immortalate eventuali violazioni delle regole, come l’attività dei cosiddetti “pianisti” (i deputati che votano anche per i colleghi assenti). Dopo uno scambio di frecciate tra il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker e Jaroslav Kaczynski, leader del PiS, il partito di maggioranza, il decreto legge è stato ritirato. Vedremo fino a quando. Intanto, ad inizio dicembre, a Varsavia è cambiato il primo ministro: Mateusz Morawiecki ha rimpiazzato Beata Sdyzlo, giudicata troppo morbida, anche con i giornalisti.

Per la cronaca, in testa alla classifica di “Reporters sans Frontieres” sulla liberta’ di stampa c’è la Norvegia, che dopo sei anni ha scalzato la Finlandia. La Germania è al 16esimo posto, la Polonia al 54esimo, l’Ungheria al 71esimo, la Turchia al 155esimo posto su 180 paesi. Ultima in classifica, la Corea del Nord.

L’OPERA OMNIA DEL TASSO

Qualche giorno fa, con l’organizzazione dell’amica e manager Erica Maria Del Zotto, ho presentato tutti i miei cinque libri, scritti in questi ultimi anni, da quando ho deciso di pubblicare tutte le idee che avevo nel cassetto, convinto di aver scritto un best-seller. Per il momento, ancora no, ma è vietato arrendersi, vero? E allora vi presento tutta la mia “Opera Omnia”: il primo libro è “Volevo solo fare il giornalista”, seguito da “Benvenuti su TeleParadiso” – entrambi dedicati al mondo del giornalismo -. poi è arrivato il thriller fantapolitico “La Banda delle Malvinas”, quindi il noir “Il nemico del Giaguaro” e, infine, il sentimentale e intimista “Riparazioni d’amore in corso”. 
Vi interessano? Vi hanno incuriosito i titoli? Scrivetemi in tutti i contatti che ho, a cominciare da Facebook e dalla mia mail: cristianotassinari@yahoo.it

E buona lettura….

P.s. Nella foto mi vedete insieme all’amico e compagno di teatro Gualtiero Papurello, in arte Papus, autore di memorabili commedie e del romanzo “Il pallone sulla tela” dedicato a Gigi Meroni.

TRIONFO ISRAELIANO AL TORINO FILM FESTIVAL

Trionfo israeliano al Torino Film Festival. Il miglior film è “Don’t forget me” del regista Ram Nehari. E’ la storia di una ragazza che soffre di anoressia e di un giovane suonatore di tuba un po’ svitato: il loro amore cresce, piano piano, tra ospedali psichiatrici, centri di riabilitazione alimentare e voglia di normalità. Il successo di “Don’t forget me” è completato dalla statuetta come miglior attore per Nitai Gvirtz e come miglior attrice per Moon Shavit, ad ex aequo con l’inglese Emily Beecham di “Daphne”.
Tra gli altri premi: premio della critica per “Fabrica de Nada” del portoghese Pedro Pinho, un film ruvido e realista sulla crisi economica in Portogallo. Premio del pubblico per due pellicole francesi: “A voix haute” di Stephane De Freitas, ambientato all’università di Saint Denis. tra grandi oratori e grandi educatori e per “Kiss and Cry”, di Lila Pinell e Chloè Mahieu, dedicato al duro percorso nella vita e nel pattinaggio. Tra i documentari, premio Cipputi per la sezione dedicata al lavoro al regista toscano Quadri, con il suo “Lorello e Brunello”, la storia di due gemelli agricoltori e pastori e la loro vita aspra nelle campagne della Maremma.
Finisce cosi la 35esima edizione del Torino Film Festival, con buoni risultati di pubblico e di critica. A dimostrazione che la formula scelta, film poco conosciuti ma di qualità, è quella giusta.

E il nostro inviato speciale c’era…

IL TASSO AL TORINO FILM FESTIVAL!

Magari ha perso un po’ di smalto, forse bisogna fare i conti con la crisi economica che chiude i cordoni della borsa per la cultura, eppure il Torino Film Festival è giunto onoratamente alla sua 35esima edizione. Fino al 2 dicembre, 169 film e la conferma di una rassegna cinematografica internazionale che, piu’ che sul red carpet, punta sulla qualità delle pellicole.

In giuria, tra gli altri, l’attrice Isabella Ragonese (qui nella foto), il regista cileno Pablo Larrain – già vincitore a Torino nel 2008 – e lo scrittore e sceneggiatore greco Petros Markaris.

Eppoi ci sono io… altro che Cannes, Berlino e Venezia!!!!!! 

Un colpo di spugna azzurro

Non avevo ancora avuto il coraggio di scrivere nemmeno due righe, qui nel mio blog, sull’eliminazione degli azzurri dai Mondiali di Calcio del 2018. L’ho fatto sui miei profili social, utilizzando soprattutto le tante fotografie-caricature che hanno riempito il web nei giorni successi alla disfatta con la Svezia. L’Oscar dell’originalità lo vince l’autore del fotomontaggio con i tre Grandi della Storia che non riuscirono ad entrare in Russia: Napoleone, Hitler e…Ventura!


Ora scrivo a distanza di una settimana, anzi no: perché sono da poco passate le cinque del pomeriggio di un lunedi di novembre e 7 giorni fa, a quest’ora, cullavamo ancora la speranza che alla fine “vedrai che ce la facciamo, magari per il rotto della cuffia”. Ma poi la cuffia non si è rotta, Candreva ha sbagliato tutti i cross del mondo, Gabbiadini non è degno dell’appellativo “bomber”, Insigne è rimasto a marcire in panchina, Buffon ha pianto amare e sincere lacrime e noi siamo a casa dai Mondiali, come non accadeva dal 1958. Gian Piero Ventura come Alfredo Foni in questo triste e comune destino. Con buona pace di chi, come me, aspetta i Mondiali soprattutto per organizzare pizzate e grigliate con gli amici in concomitanza delle partite degli azzurri. E adesso con chi le facciamo? Tifando Islanda? Non mi sembra la stessa cosa. 
Questo lunedi che segue l’altro lunedi, quello nero, consegna alla storia il definitivo colpo di spugna ad un recente passato disastroso per il calcio italiano, soprattutto a livello di nazionale (eliminazione al primo turno nei due ultimi mondiali 2010 e 2014, don’t forget).

Dopo il licenziamento di Ventura (che non ha nemmeno trovato lo stile di dimettersi per non rinunciare ai suoi 800mila euro di contratto: piu’ facile a dirsi che a farsi, ma signori si nasce…), oggi è stata la volta del presidente Carlo Tavecchio, uno dei peggiori dirigenti della storia della Federazione Italiana Giuoco Calcio. Non avrebbe voluto dimettersi, lo hanno costretto a dimettersi. Di questo impresentabile presidente fantozziano non sentiremo per niente la mancanza. Peraltro, con la coda avvelenata di un’imbarazzante conferenza stampa, in cui – per il suo siluramento – ha evocato nientepopodimeno che uno “sciacallaggio politico”. No comment.
Avanti un altro, avanti il prossimo. Che sia presidente, che sia Commissario Tecnico. Il toto-nomi è già cominciato. Ma non c’è fretta. Il prossimo appuntamento “vero” è il Campionato Europeo del 2020. Ne passerà ancora di acqua sotto i ponti. C’è fretta, viceversa, nel ripensare gli ingranaggi di un mondo del calcio italiano che, così com’è, non funziona piu’. E i risultati sul campo – quelli che ci interessano di piu’ – sono li a confermarlo, purtroppo.

Proviamo ad elencare i problemi? Innanzitutto, troppi, troppi stranieri, in prima squadra e nelle giovanili: e la quantità di giocatori italiani convocabili in azzurro si riduce sempre piu’ all’osso. Eppoi: troppe squadre, e nemmeno all’altezza, anche in serie A (vedi il Benevento a zero punti), troppe società professionistiche che non ce la fanno piu’ ad andare avanti, con pochi soldi e tanti debiti (il caso del Modena è clamoroso, nel ricco Nord Italia). Questi, i principali problemi. A livello tecnico e a livello gestionale.
Cominciamo da qui: una riduzione dei calciatori stranieri (Si puo’? Temo che l’Europa ci dica di no) e una riforma dei campionati, compresa l’attività dei settori giovanili.
Anche qui, come sopra: piu’ facile a dirsi che a farsi. Ma è per questo che servono dirigenti federali illuminati, altro che Tavecchio. E serve anche l’appoggio della Lega Calcio, a cominciare dalla società piu’ blasonate. Perchè se la Nazionale va bene, ne beneficiano tutti: la Juve, il Napoli, il Milan, la Roma, l’Inter, persino il Benevento. Ma lo hanno capito? Ai posteri l’ardua sentenza.

In buona sostanza, e con una buona dose di ottimismo finale, facciamo in modo che – come spesso si dice – questa batosta ci sia di sana lezione.
Altrimenti ci toccherà sempre tifare per l’Islanda.

 

UN MESTIERE SEMPRE PIU’ PERICOLOSO. SOPRATTUTTO PER LE REAZIONI DEL “DOPO”

Ormai sappiamo tutti quello che è successo l’altro giorno ad Ostia: al culmine di una intervista già di per sè difficile, il giornalista del programma di Rai2 “Nemo”, Daniele Piervincenzi,  è stato aggredito, prima con una testata e poi con delle bastonate, da parte dell’intervistato, tale Roberto Spada, un tizio per il quale non riusciamo a trovare alcuna definizione, se non *delinquente”. E, infatti, ora si trova in stato di arresto. Poco mi interessa, in realtà, la sua origine etnica (davvero è un rom italiano?), nè la sua appartenenza politica (davvero è un simpatizzante di CasaPound? O del Movimento 5 Stelle?). L’episodio resta un fatto di cronaca nera. Punto e basta. Da denunciare, da condannare, con la giustizia che – come si dice – farà il suo corso. Mi interessa, invece, la reazione del “dopo fattaccio”: sembrava che la cosa piu’ importante fosse non tanto denunciare il misfatto e condannarlo senza se e senza ma, ma comunicare al mondo che il signor Spada “non è di CasaPound“. Peraltro una grande pubblicità per il grupposcolo neo-fascista, politicamente irrilevante, di cui milioni di italiani non conoscevano nemmeno l’esistenza. E stavano bene lo stesso. O forse lo scambiavano per una casa discografica o una residenza per anziani.

Ancora peggiore, pero’, la reazione dei cittadini di Ostia il giorno dopo. tutti terribilmente terrorizzati di pronunciare qualche parola storta nei confronti del clan-Spada, che evidentemente spadroneggia sul litorale romano. E forse non solo li. “Se l’è meritato”, “se c’ero gli rompevo il buscio del culo”, “io lo avrei riempito di calci”, giusto per citare alcuni dei commenti piu’ eloquenti. E piu’ cliccati: già, perchè anche sui social, tra fior di dichiarazioni di solidarietà (vera? o di facciata? pardon, di testata?) al povero giornalista Piervincenzi, è fioccata una ondata di invettive contro i giornalisti e, quindi, a favore di Roberto Spada, di tutti gli Spada-picchiatori del mondo, quindi a favore della violenza che risolverebbe i problemi.

Lo sappiamo e non dobbiamo stupirci: il mondo del web è pieno di odiatori di professione, piu’ che altro i famosi “leoni da tastiera” che inneggiano ai “leoni da testata”, quasi giustificandoli, quasi fossero loro stessi ad armarli, se possiamo considerare  – e mi sembra di si – la testa d Spada una vera e propria arma non convenzionale.

Sicuramente non arriviamo al livello del Messico – decine e decine di giornalisti eliminati dal cartello della droga -, certamente non arriveremo al livello della Russia – qualche morte piu’ che sospetta tra i giornalisti critici di Putin – e forse nemmeno a quello che è successo alla blogger Daphne Caruana Galizia a Malta, ma indubbiamente anche in Italia il mestiere del giornalista è sempre piu’ pericoloso. Per gli Spada di tutto il mondo che pensano essere intoccabili e per tutti coloro che, anche senza menare le mani, vorrebbero comunque suonarle ai poveri giornalisti, considerati – a seconda delle occasioni – o rompicoglioni o leccaculo.

Onore ai giornalisti con le palle che rischiano la vita ogni giorno a causa del loro lavoro di raccontare la verità – come ad esempio Federica Angeli (su Twitter: @fedeangeli), da sempre in prima linea sul caso-Ostia e piu’ volte minacciata da Spada e compagnia bella -, ma siamo stufi di celebrare giornalisti eroi morti: in ordine sparso, anche geografico, cito Peppino Impastato, Giancarlo Siani, Giuseppe Fava, Mino Pecorelli, Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, Enzo Baldoni e chissà quanti altri.

Sarebbe ora di avere giornalisti eroi vivi e vegeti.
Nemmeno con la scorta, come il coraggioso Giovanni Tizian, del Gruppo L’Espresso, che vive sotto protezione dal 2010 dopo le minacce della ‘ndrangheta.
Sarebbe ora di smetterla.  
Ma finchè ci sarà qualcuno che pensa “Se lo è meritato”, la vedo dura. Molto dura.

 

Lettera aperta ad Asia Argento

Ospito volentieri l’intervento di Wiki Vic, tratto dal sito Medium.com

https://medium.com/@Wiki_Vic/lettera-aperta-ad-asia-argento-ce7b57d414ca

“Cara Asia, la vicenda Weinstein, che da settimane occupa la scena mondiale, è disgustosa ed è un bene che sia venuta alla luce, poiché serve a fare luce sulla violenza e la prevaricazione del sistema contro le donne diffusa in ogni ambito della società.

Ma -perché c’è sempre un ma- in tutta questa storia manca completamente un’analisi autocritica femminile sulla connivenza con il sistema. Di tutte le storie che abbiamo sentito raccontare contro Weinstein, il caso specifico di Asia Argento è l’unico che abbia suscitato polemiche controverse e particolarmente in patria. No signora, non dipende dal fatto che siamo italiani e pertanto retrogradi, dipende dai buchi neri presenti nel tuo racconto che creano spazio sufficiente per accusarti di ipocrisia. Il problema non è solo la denuncia fatta tanti anni dopo, il problema è che i conti non tornano. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di andare a cercare le pulci in questa storia, se solo il racconto fosse stato meno vittimistico e più onesto nell’analisi delle proprie responsabilità.

Sono sicura che la maggior parte delle donne non avrebbe avuto alcun problema a sostenere Asia Argento se l’incipit del tuo racconto fosse stato: “Ero giovane e volevo a tutti i costi farmi strada nel cinema internazionale, perciò ho deciso di accettare dei compromessi, che mi hanno costretta a subire degli abusi, di cui oggi mi pento, perché so di avere provocato un danno a me stessa e di non avere fatto un buon servizio a tutte le donne”. E’ il racconto in chiave Santa Maria Goretti, giovane e sprovveduta, che proprio non convince, e particolarmente per una donna nata e cresciuta in quell’ambiente, che ha sempre dimostrato di avere una forte attitudine all’esibizionismo. Oggi, Asia Argento è diventata l’icona del femminismo come evitamento delle responsabilità, come se la donna fosse un manichino senza volontà. Per giustificare i suoi errori, Asia spara proiettili a pallettoni su chiunque senza mai fermarsi un secondo a guardarsi allo specchio.

Weinstein è un porco stupratore, il che è assolutamente vero, però gli hai consentito per cinque anni di fila ad avere rapporti consensuali per avere una carriera hollywoodiana. Quentin Tarantino è un vile che ha vissuto una vita di compromessi, ma non lo sei anche tu? Terry Richardson è il maiale dei fotografi di moda da cui però ti sei fatta fotografare volentieri seminuda in atteggiamenti provocanti. Alec Baldwin si dovrebbe vergognare per essersi fatto fotografare con Roman Polanski, tu però non devi vergognarti per esserti fatta fotografare sorridente con Weinstein e per avere firmato nel 2009 una petizione in difesa di Polanski, lo stesso Polanski che oggi invece metti al palo.

Nel 1998 il regista Michael Caton-Jones era stato chiamato dalla Miramax a dirigere il film B. Monkey. In fase di casting per il ruolo di attrice protagonista, il regista scelse un’attrice di colore, che però fu rifiutata da Weinstein con la motivazione che non era “scopabile”, e al suo posto voleva a tutti i costi Asia Argento. Il regista si ribellò, perché per lui la Argento non era adatta al ruolo, ci fu una brutta lite tra il regista e il produttore. Fu così che Caton-Jones fu licenziato e al posto suo fu assunto un altro regista che realizzò il film con Asia Argento nella parte di attrice protagonista. Chi ha subito violenza e discriminazione in questa storia? A occhio direi il regista e l’attrice penalizzata, certo non una violenza fisica, ma una violenza etica, morale e professionale, di cui però pare non importare niente a nessuno.

Hai dichiarato di essere stata molestata da Weinstein proprio durante la promozione di questo film, ma i famosi fax inviati alla giornalista italiana in cui dici di essere stata aggredita da Weinstein sono datati 1997, questo suggerisce che la prima aggressione sia avvenuta molto tempo prima e che tu sia stata scelta per la parte perché già intrattenevi rapporti con il produttore. Forse non ne eri al corrente, ma negare di avere avuto una contropartita dal rapporto con il produttore non ti fa onore. Nessuno si è preso la briga di farti qualche domanda al proposito. A dire il vero nessun giornale italiano ha minimamente parlato di questa vicenda. Qualunque tipo di obiezione potrebbe essere scambiata di connivenza con l’orco! A nessuno interesserebbe minimamente farti un processo mediatico se non fossi stata tu per prima a mettere in piazza questa storia con una versione da martire, che purtroppo non convince per la totale mancanza di autocritica. I risvolti di questa storia hanno preso una piega da caccia alle streghe che inizia a dare il voltastomaco per la violenza con cui colpisce rovinosamente il privato di tanti uomini senza introdurre minimamente l’elemento dell’autocritica sull’uso del potere di seduzione per fare carriera nel comportamento delle donne.

Il vero punto debole di questa pseudo rivoluzione neo puritana, è quello di avere preso il via in un ambiente femminile connivente con il sistema di potere ma totalmente impermeabile all’autocritica.

Nella vicenda Weinstein, rimane ancora lo stupore generale per il modo in cui tante donne abusate siano potute restare in silenzio per così tanto tempo. In sostanza il loro silenzio condonava l’abuso su larga scala condotto da un solo uomo. La ragione di tutto ciò sembra molto debole ora che l’incantesimo si è rotto. Tuttavia, è facile capire che gli uomini come Weinstein hanno un enorme potere. Si potrebbe dire che sono psicopatici di grande successo e davanti al loro potenziale per la costruzione e la distruzione delle carriere, la gente capitolava. Questa storia riflette un profondo scisma nel modo in cui ci siamo addestrati a trattenerci nella vita — di fronte al bullismo siamo istruiti per capitolare, piuttosto che mantenere la nostra integrità personale e i nostri diritti sul nostro stesso corpo più prezioso di qualsiasi minaccia.

Se abbassiamo il dito della colpa solo a Weinstein, o lo facciamo di Hollywood o dell’industria cinematografica, ci manca il punto che ci sono Weinstein ovunque in questo mondo. Non tutti sono ampiamente conosciuti. La maggior parte sono piccoli giocatori, ma il loro modus operandi è lo stesso: abusare di qualsiasi potere che detengono su persone vulnerabili. Se rimaniamo persi nel dramma della caccia al cattivo, persi nella pietà o disprezzo per le vittime, non riusciremo (come abbiamo ripetutamente fatto finora) a fermare un ciclo di abusi molto più anziani di Hollywood.

E’ importante capire che le giovani donne, intossicate dalla promessa di fama, sono state così accecate dalle stelle ai loro occhi, da finire per andare contro i loro istinti auto-protettivi e si sono rese vulnerabili alla rapacità del potere. Donne che nella fiction sono state portate avanti come modelli di società, rappresentando nei film gli ideali dell’indipendenza femminile, del potere e della bellezza, mentre per tutto il tempo stavano aggrappate alla paura della ripercussione senza mostrare assolutamente alcun valore per se stesse e per i loro corpi. Sono state silenziate dalla vergogna e dalla minaccia per le loro carriere, ma chi glie lo ha chiesto? E questa carriera vale davvero la pena?

Se questo racconto dimostra qualcosa, è che noi donne abbiamo perso più di quanto possiamo immaginare quando abbiamo smesso di attribuire valore alla nostra capacità di leggere profondamente le persone e le situazioni e conoscere le loro intenzioni. La nostra capacità di conoscere chi è sicuro, onesto, decente e vero, e chi non lo è, è stato sacrificato sull’altare del successo di carriera, mantenendo lo status quo abusivo, cercando la fama o la convinzione che non possiamo parlare se non abbiamo incontrovertibili “prove”.

La capacità di essere consapevoli e di conoscere la verità è innata. La capacità di leggere l’energia dietro tutto ciò che accade nella vita. Il fatto è che in questo scenario tutti sapevano cosa stava succedendo — la consapevolezza era lì, la gente conosceva le intenzioni di Weinstein — hanno scelto semplicemente la comodità della loro sicurezza sul lavoro. In questa storia tutti hanno fallito, vittime e carnefici, in nome del proprio tornaconto, senza preoccuparsi che ciò non accadesse a nessun altro.

Ciò che serve ora non è fomentare una campagna d’odio e di vendetta contro gli uomini, è solo attraverso la luce dell’anima e la sua profonda saggezza vivente che questa situazione può essere pienamente capita e quindi in definitiva guarita. Ci viene offerta la possibilità di leggere la situazione attraverso la prospettiva dell’inesplicabile abusività, la cecità, l’abbandono e la fame per il riconoscimento che sono al nucleo della questione — l’essere danneggiati sotto il peso delle proprie azioni.

Se riusciremo a riconoscere che è ancora più profonda la capacità in noi tutti per il rispetto, la cura e l’amore per sé e per tutti gli altri, potremo noi tutti, donne e uomini, voltare pagina e iniziare un nuovo percorso comune, ma senza un’analisi autocritica approfondita, nessuna vera rivoluzione sarà mai possibile”.