Piazza San Carlo: perdonate, ma vorremmo sapere

Ospito volentieri l’articolo di Juri Bossuto, tratto da “Lo Spiffero”.

“I turisti che affollano il centro storico di Torino si dedicano agli acquisti presso i negozi griffati di via Lagrange, non respingendo le golose tentazioni dispensate dalle pasticcierie e cioccolaterie di antica tradizione artigiana, già fornitrici della real casa. I visitatori della prima capitale d’Italia sono anche disposti ad affrontare lunghe code per poter accedere ai locali del Museo Egizio, impegnandosi poi in piacevoli passeggiate attraverso le piazze e le vie della città storica.

Da alcuni mesi però il tour torinese comprende una nuova tappa imprescindibile, ossia piazza San Carlo. Il salotto della metropoli subalpina si manifesta quale ambita meta per molti di coloro che hanno seguito, sui media, l’attacco di panico collettivo del 3 giugno scorso. I tanti selfie scattati mettendosi in posa davanti al Caval ‘d Brons si prestano oramai esclusivamente a commenti del tipo “siamo stati nel luogo in cui tutti calpestavano tutti, cadendo su una distesa di cocci di vetro e sporcando di sangue l’intero centro storico”: autoscatti convertiti quindi in tristi quanto cinici souvenir della permanenza in città.

Ho osservato personalmente turisti, soprattutto connazionali, chiedere informazioni a smarriti torinesi indicando la porzione di piazza sottoposta a sequestro dall’autorità giudiziaria (innanzi al Caffè Torino, riconoscibile grazie alla barriera di cemento e acciaio che la protegge): area eletta dall’opinione pubblica quale riferimento simbolico della disperata corsa dei tifosi juventini.

Le leggende metropolitane probabilmente nascono grazie alla determinazione popolare nell’individuare siti che evocano tragedie, ossia luoghi capaci nel creare un mix di emozioni e morbosa curiosità. Piazza San Carlo si presta bene ad essere prossimamente citata dalle guide turistiche per i fatti avvenuti durante la finale di coppa Juventus – Real Madrid. Situata nel cuore di Torino e fornita anche di un “altare metaforico” presso cui celebrare la sanguinosa notte di inizio giugno, l’area intorno al monumento dedicato al Duca “Testa di Ferro” presenta così un ulteriore punto di interesse, seppur privo di un elemento fondamentale per la ricostruzione storica a fini turistici: il reale motivo scatenante la sciagura.

A cinque mesi dalla brutale vicenda rimangono infatti ignote le cause che hanno generato oltre 1.500 feriti ed un morto. Circa 40.000 persone sono fuggite improvvisamente a rotta di collo per motivi ancor oggi misteriosi. Una sorta di allucinazione di massa, oppure un cinico scherzo che nessuno è in grado di denunciare, è forse alla base di accadimenti le cui origini sono tutt’ora invisibili quanto oscure.

Prescindendo dal nesso eziologico le indagini si sono comunque concentrate su una serie di presunti responsabili, anche se non è dato sapere di cosa, tra cui la Sindaca e varie autorità pubbliche. L’ipotesi di reato in capo agli indagati è importante: omicidio colposo e concorso di reato per gli eventi susseguenti alla pessima gestione della manifestazione stessa.

Inutile tornare sul tema “gravi mancanze nell’organizzazione”, così come sui turni a cui sono stati sottoposti i civich a causa della giornata ecologica programmata per il giorno seguente: fatto che ha determinato una carenza organica della polizia locale proprio durante la diretta della finale calcistica. E’ invece estremamente auspicabile individuare cosa o chi abbia generato il terrore generale.

Piazza San Carlo sembra destinata storicamente ad essere la spianata degli enigmi. La discussione su quanto avvenuto nel lontano settembre 1864 ha richiesto circa 100 anni di silenzio assoluto. E’ stato il Sindaco Novelli per primo ad aprire il carteggio inerente la dura repressione poliziesca ai danni dei torinesi scesi in piazza per pretendere spiegazioni dal governo, in seguito alla decisione repentina di spostare la capitale italiana a Firenze. Un’azione di forza, da parte della questura, che ha lasciato sull’acciottolato delle piazze Castello e San Carlo decine di caduti ed una moltitudine di feriti. In seguito autori quali Roberto Gremmo, seppur in un’eccezione autonomista, Francesco Ambrosini e Valerio Monti hanno dettagliato la scansione di quelle terribili giornate di metà Ottocento, riconsegnando in tal modo dignità storica a quei morti.

Forse non dovranno trascorrere centocinquanta anni per poter finalmente fare luce sulla folle corsa del pubblico ritrovatosi innanzi al maxi schermo, speculare alla statua di Emanuele Filiberto, ma nel frattempo è comunque augurabile non si apra la caccia a comodi capri espiatori. Il concorso di reato è una della aggravanti imputate agli indagati seppur in assenza di un dolo e, ancor più, di un reato individuabile con certezza: insomma, un brancolamento nel buio delle indagini che marcia in parallelo all’esigenza di trovare comunque dei responsabili penali. Un pantano pericoloso sia per la verità e sia per la consegna nelle mani della giustizia di quei funzionari negligenti che avevano il dovere di garantire la pubblica incolumità; un fango altrettanto favorevole per tacitare in maniera tombale tutto quanto avvenuto la notte del 3 giugno scorso.

Torino è una città coraggiosa: conosce bene la sofferenza sociale così come i repentini mutamenti economici ed industriali. La capitale subalpina da sempre accusa colpi terribili quanto destabilizzanti, ma ad ogni caduta riesce a rialzarsi facendo leva sulle proprie gambe.

La classe operaia ha dato forza a questa metropoli sostenendola nei momenti più bui. Oggi in sua assenza solo la Verità (in antitesi ai gruppi di potere) può garantire un ennesimo nuovo futuro ai torinesi vecchi e nuovi”.

Twitter raddoppia, Tasso tweetta….

Sarà soltanto un caso? Twitter raddoppia i suoi caratteri (da 140 a 280) e io mi iscrivo finalmente in Twitter?
Potrebbe anche non essere una coincidenza, dal momento che l’eccessiva brevità dei “messaggini dell’uccellino” mi aveva sempre un po’ scoraggiato nei miei passati tentativi di iscrivermi anche a Twitter. Scrivo anche, perchè per me il “vero” social network è e rimane soltanto Facebook, a cui sono iscritto – ho controllato – dal dicembre 2008. Ora, pero’, sull’incalzare della mia carriera professionale e la necessità di stare al passo, velocissimo, dei tempi, non potevo non esserci anch’io, su Twitter. Non tanto perchè possa avere chissà cosa da twettare (e per il momento ho ben pochi followers, e quelli che ho li ho ereditati tra gli amici di Facebook), ma piu’ che altro per vedere quello che twittano gli altri: non un’operazione di voyeurismo, ma una vera e propria attività lavorativa, visto che ormai i vip (della politica, del calcio, dello spettacolo, di tutto) non fanno piu comunicati, interviste e conferenze stampa, ma tweetano. Semplicemente, tweetano. Come il Presidente Trump, tanto per citarne uno. Quindi, noi operatori dell’informazione dobbiamo esserci. E’ una delle piu’ clamorose evoluzioni di questo mestiere, ormai dovremmo esserci abituati. Poi, magari, lo trovero’ persino divertente, questo Twitter tutto azzurrino.

Insomma, se ci siete anche voi, battete un colpo: il mio account ufficiale è @TassoOfficial.
Buona navigazione a tutti….

Quell’ignoranza storica dei tifosi di calcio

Sembra essersi finalmente placata la bufera scatenata dal caso-Anna Frank. Purtroppo, non stiamo parlando della Storia, ma semplicemente di una brutta storia: un gruppo di ragazzotti, tra cui anche diversi minorenni (pensate un po’), sedicenti ultras della Lazio, hanno sparpagliato in giro per Roma degli adesivi con la foto di Anna Frank con la maglia della Roma. Per chi non lo sapesse. Anna Frank (si legge cosi, non Frenk, come qualche genio della comunicazione crede) è entrata, suo malgrado, nei libri di storia e di scuola per il suo “Diario”, il racconto di una ragazza di Amsterdam, travolta dalle leggi razziali di fine anni Trenta e – a causa delle sue origini ebree – e deportata nel campo di concentramento di Auschwitz e poi a Bergen Belsen. dove vi trovo’ la morte a nemmeno 16 anni.
Questa frangia della tifoseria laziale, da sempre improntata verso la destra politica piu’ estrema, in un impeto di elevata ignoranza culturale e storica, ha pensato cosi di abbinare la tragica fine di Anna Frank con quella che, secondo loro, dovrebbero fare gli “odiati” rivali romanisti.

Lo sdegno, potete immaginarlo, del mondo del calcio e non solo è stato enorme, con qualche caduta di stile e di ipocrisia, denunciata – pur non volendo – dal presidente della Lazio, il non raffinatissimo Lotito Claudio, che è stato beccato a dire “Annamo a faì ‘sta sceneggiata”, poco prima di una visita “di scuse” di una delegazione laziale al ghetto di Roma. Tutti sdegnati, tutti indignati. Ma l’ignoranza culturale e storica di queste poche zecche di tifosi beoti hanno, involontariamente, ridato fiato al libro di Anna Frank – che tutti dovremmo leggere, se già non l’abbiamo fatto – e fatto scoprire la storia della ragazzina di Amsterdam a chi proprio non ne aveva mai sentito parlare.

Quasi quasi bisognerebbe fare loro un applauso per lo “sforzo culturale”.
Ma non esageriamo. 

In tutto questo, s’intende, denuncio con forza la stupidità di questi pseudo-tifosi, che ora avranno giustamente le loro brutte rogne davanti alla legge. Anche perché rischiano di creare pericolosi imitatori: qualche giorno dopo i fattacci di Roma, infatti, l’adesivo di Anna Frank è comparso in Germania con la maglia dello Schalke04, distribuito dagli storici rivali del Borussia…

Personalmente, trovo l’episodio una “inquietante ragazzata”, senza volerlo minimizzare, ma meno grave del caso dei fantocci appesi dentro al Colosseo, come accaduto a Roma qualche mese fa, sempre per opera dei “geniali” laziali ai danni dei “poveri” romanisti, ormai regolari vittime degli sfottò capitolini. Il grave, in quel caso, sta pure in questo: ma quelli che dovrebbero controllare il Colosseo dov’erano, che se non si sono accorti di niente? O hanno fatto apposta a chiudere entrambi gli occhi?
E poi il solito dilemma: è il calcio ad essere marcio? O l’intera nostra società?

Voglio chiudere con una nota di ironia, se me la consentite: la figurina Panini di Adolf Hitler con la maglia della Lazio, che allego a questo articolo.
Secondo me, un capolavoro di ironia.
Non prendetevela, amici laziali: ma chi di fascismo ferisce, prima o poi, di Fuhrer perisce. 
Almeno in figurina. 

CONCORSI E CATTEDRE ALL’UNIVERSITA’: UNO SCANDALO ALL’ITALIANA

Lo scandalo delle università italiane, che ha colpito a fine settembre numerosi atenei, è tale solo per chi non conosce la vita universitaria italiana: non è necessario essere stati professori o assistenti per capire come funzionano le cose in gran parte della università pubbliche italiane: basta essere stati – come nel mio caso – studenti per un certo numero di anni, sufficienti per capire come funzionano le cose. Carriere in discesa, concorsi già assegnati in partenza, baroni accademici inamovibili dal loro scranno, almeno fino a quando il figlio, il nipote o l’allievo preferito (pazienza se incapace) non è pronto per prenderne degnamente il posto. “Così fan tutti”, verrebbe da dire. E, in effetti, a giudicare dalle proporzioni dello scandalo, pare proprio che fosse così. Perché scandalo lo è sicuramente, anche se non è certo un fulmine a ciel sereno. E’ diventato scandalo perché quello che tutti sapevano e si tramandavano in bisbiglii e sotterfugi, stavolta è finito sotto i riflettori della giustizia.
Tutto è partito dalla prestigiosa Università di Firenze. Un nemmeno troppo giovane ricercatore universitario italo-inglese nato a Londra, Philip Laroma Jezzi, a 45 anni stufo di fare perennemente il precario, ha svelato gli arcani di come funziona l’istituzione accademica in Italia. Già nel 2013, del resto, doveva aver subodorato qualcosa. Un bel giorno, infatti, si è messo a registrare la sua conversazione privata con un docente di diritto tributario, chiedendogli consigli sul concorso indetto da lì a qualche mese. E il professore, candidamente, gli ha risposto: “Tu meriteresti di vincere il concorso, ma lascia perdere, le cattedre sono già decise. E non fare ricorso, ti giocheresti la carriera”. E stavolta, però, Philip non ha masticato amaro, non è proprio riuscito a mandarla giù. Il concorso lo ha fatto lo stesso e, naturalmente, non lo ha vinto. Ma non si è dato…per vinto. Registrando, qualche mese dopo, una conversazione con uno dei commissari del concorso che lo aveva bocciato, riuscì a carpire la motivazione occulta del suo insuccesso: il buon Philip si era messo contro un vecchio e potente professore fiorentino, intenzionato a far fare carriera al suo delfino, a tutti i costi.
“Così fan tutti”, per l’appunto.
Poi, però, all’improvviso, tre anni dopo le denunce – con una lentezza pachidermica di cui l’Italia non può andare fiera – le denunce di Philip Lamora Jezzi diventano realtà, fatti reali. Quando più nessuno, tranne forse il diretto interessato, nemmeno ci pensava piu’. Ed è stato un terremoto per il mondo ovattato e “ancien regime” delle università statali italiane, non esattamente ai primi posti d’Europa per qualità didattica e numero dei laureati. Bilancio dell’operazione della Guardia di Finanza, in tutta Italia: 7 docenti agli arresti domiciliari, 59 indagati, 150 perquisizioni, 22 professori interdetti dall’insegnamento per un anno. Per tutti l’ipotesi è di corruzione. Molti dei professori hanno manifestato la loro estraneità ai fatti, in alcuni casi affermando di aver agito in buona fede. Questi i numeri dello scandalo. Che, forse, non scandalizza nessuno, ma che finalmente squarcia tutto il marcio che c’è dentro ad una prestigiosa istituzione come l’Università (intendiamoci: non si può fare di tutta l’erba un fascio), a cui troppo spesso studenti, ricercatori e assistenti debbono sottostare.
Se volete morbosamente saperne di più, sul web esistono le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e ambientali raccolte dalla Procura di Firenze e che, a scanso di equivoci, non ammettono repliche. Un vero e proprio gioco degli scacchi, dove i baroni dell’università diventano i Re e i loro prediletti sono semplicemente pedine da inserire in quel posto o in quell’altro. “Non è che si dice è bravo o non è bravo”, spiega uno dei professori coinvolti, in una intercettazione. “No, si fa cosi: questo è mio, questo è tuo, questo è mio, questo è tuo, questo è di coso, questo deve andare avanti per forza”.
Ecco, funzionava cosi.
Sull’onda emotiva di questo scandalo, non si è fatta attendere – ci mancava solo che si facesse attendere – la reazione dell’attuale ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli. Promette (anzi: minaccia) un giro di vite, annunciando l’inserimento delle università italiane in uno specifico focus sull’anticorruzione. L’obiettivo, ha fatto sapere il ministro, è quello di rendere finalmente più trasparenti i concorsi universitari, “verificare, controllare, togliere ogni area di opacità e zone d’ombra e affrontare in modo molto serio, rigoroso e trasparente ogni parte del funzionamento dell’università”.
Sarà la volta buona?
Nel frattempo, aspettiamo che al coraggioso Philip Laroma Jezzi sia dato quel posto che, per meriti, gli sarebbe spettato di diritto. Sempre che non abbia già deciso di lasciare il Belpaese e tornarsene a Londra. 

INDIPENDENZA DELLA CATALOGNA? SI, NO, FORSE

Ho atteso qualche giorno dal famoso referendum del 1.ottobre in Catalogna per esprimere la mia piccola opinione sull’indipendenza della regione spagnola (si puo’ dire?). Del resto, bisognava aspettare quello che sarebbe successo ancora, soprattutto all’indomani di un evidente ultimatum di Madrid: se proclamate l’indipendenza unilaterale, interveniamo noi. E abbiamo già visto, purtroppo, come sono intervenuti gli spagnoli, con la mano pesante, contro i “fratelli” catalani. Alla fine, il presidente catalano Carles Puigdemont se l’è fatta giustamente sotto, ha usato il buon senso, ha fatto un discorso prudente, piu’ realista del…re (di Spagna). Ma del resto che cosa avrebbe potuto mai annunciare? La guerra civile? Certo che no. Di fatto, ha detto cosi: “W l’indipendenza, ma ora trattiamo”. Il politichese, claro que si. Ma – come nelle migliori trattative da mercato – si chiede tanto per ottenere qualcosa, no? Quindi è probabile che la Catalogna non otterrà l’indipendenza, ma sicuramente qualche autonomia in piu’ si, garantita in via costituzionale. Pronostico: 1-1 e palla al centro. Con buona pace delle banche e delle aziende catalane che hanno già spostato la loro sede fuori dalla Catalogna, per paura di chissà cosa. Ah si, paura di essere fuori dall’Europa, da tutti dileggiata e detestata, ma da tutti corteggiata (finchè c’è da succhiare denaro).

Non nascondo le mie simpatie per la Catalogna, la sua storia e la sua voglia di indipendenza (forse grazie a molte frequentazioni giovanili a Barcellona e dintorni), simpatie che sono cresciute a dismisura dopo la repressione del 1.ottobre, da parte dell’esercito e della Guardia Civil spagnola, ordinata dal premier Mariano Rajoy (uno, per intenderci, che nell’attentato del 2004 alla stazione di Atocha a Madrid scambio’ AL Qaeda per l’Eta e perse le elezioni…). Quel sangue di feriti innocenti versato per le strada catalane è stata una autentica vergogna per tutta la democrazia spagnola ed europea del XXI secolo.

Ora dicono che la Spagna non vuole perdere la Catalogna perchè è il motore del paese (ma il suo Pil non è nemmeno paragonabile a quello del Veneto e della Lombardia per l’Italia: e un referendum lo faranno anche loro…), adesso dicono che non tutti i catalani vogliono l’indipendenza. Forse è vera, sia l’una che l’altra cosa. E allora, finirà cosi, come ho scritto qualche riga piu’ su: piu’ autonomie alla Catalogna e amici come prima (o quasi).
Poi, forse, sarà il caso di occuparci dei “nemici” veri, come ha dimostrato – se per caso l’aveste dimenticato – l’attentato a Barcellona del 17 agosto.

Se avessi fatto l’architetto….

No, nessuna retromarcia, tranquilli: la mia passione – che, per fortuna è diventata il moi lavoro – è sempre stato il giornalismo. Certo che, lavorando ora qui in Francia, sto scoprendo una piccola passione spontanea per l’architettura. E piu’ è “spinta”, piu’ è all’avanguardia, e piu’ mi colpisce. Oggi, grazie al collega francese Serge Rombi, ho scoperto due nuovi capolavori della Francia contemporanea: la “Seine Musicale” di Parigi e l”Albero Bianco” (Arbre Blanc) di Montpellier. Sono due opere frutte della fantasia di due architetti giapponesi, sempre piu’ di moda in tutto il mondo. Gli architetti si chiamano Shigeru Ban e Sou Fujimoto: a loro si devono queste creazioni davvero spettacolari. La “Seine Musicale” prende il nome dalla Senna, il fiume che attraversa Parigi. Costruita su un vecchio sito industriale di una fabbrica abbandonata della Renault, questa zona periferica di Boulogne-Billancourt ora ospita due grandi auditorium per concerti di musica classica, jazz e rock (ci è passato anche Bob Dylan), ma è al tempo stesso un nuovo concetto di “divertimento aperto al pubblico”, che puo’ andare alla “Seine Musicale” anche solo per gustarsi il panorama della Senna. Sembra addirittura una nave in mezzo al fiume, con la sua vela fatta di pannelli solari…troppo avanti i parigini.

Ma non scherzano neppure a Montpellier, città di 250mila abitanti nel sud della Francia. Qui, nel 2018, verrà terminato l’Albero Bianco, una straordinaria torre futurista, tutta bianca, che ospita 110 appartamenti di lusso (già andati via come il pane) e con balconi volanti mozzafiato. In cima, un bar panoramico aperto a tutti, la prima terrazza pubblica di Montpellier, destinata a tutti i cittadini, non solo a chi ha avuto la fortuna di accappararsi questi splendidi alloggi.

Bravi e geniali, gli architetti giapponesi.
Ah, se avessi fatto l’architetto….
Qualche idea innovativa ce l’avrei pure io.

DUE COMMEDIE, DUE LOCANDINE…QUALE SCEGLIAMO???

La nostra nuova commedia “80 VOGLIA DI UNA BADANTE E…SPOSO LA CAUSA” è in scena per la sua prima sabato 27 gennaio 2018 al Teatro Cardinal Massaia di Torino…

Poiché si tratta di uno spettacolo un po’ particolare – due commedie al prezzo di una – anche le locandine sono due…quale preferite??? Intanto ve le facciamo vedere entrambe…a voi l’ardua sentenza!!!

“Volevo essere Hugh Hefner”

ARTICOLO DI GIORGIO LEVI, DAL SUO BLOG “IL TIMES” (www.giorgiolevi.com)

“E’ morto Hugh Hefner. Il fondatore ed editore di Playboy e l’inventore delle conigliette. Aveva 91 anni.

Ho visto il mio primo numero di Playboy quando avevo 7 anni. Nella palestra della scuola elementare Giosuè Carducci. Aveva portato una copia della rivista più proibita al mondo un mio compagno che aveva il papà console degli Stati Uniti a Torino. “Ho da farvi vedere una cosa speciale”. Teneva il giornale nella cartellina azzurra dei disegni. Siamo scesi in palestra e lì abbiamo visto. Bocche aperte e occhi sgranati. Donne nude fotografate non c’erano, ma i disegni di Alberto Vargas erano quanto di più fantascientifico potessimo immaginare. Vargas tratteggiava a matita e con un realismo assoluto donne con piccoli culi tondeggianti e grandi tette. Il nostro compagno sfogliava la rivista e ogni pagina era una sorpresa. Mai prima di allora avevo visto una donna nuda.

I disegni di Vargas mi aprirono un mondo. Per molti anni fui convinto che tutte le donne, sotto i loro vestiti, erano così. Mi veniva qualche dubbio al mare. A parte mamma (che ovviamente era fuori discussione come fosse una persona asessuata) le sue amiche o le donne che osservavo in spiaggia non mi sembravano come quelle di Vargas. Voglio dire, indossavano bikini con slip alti come un palazzo di sei piani, possibile che senza quei due pezzi di stoffa fossero come quelle biondine di Playboy?

L’attrice Agostina Belli

La copertina che qui risproduco invece si riferisce al numero 1 dell’anno 1 di Playboy, edizione italiana, 1° novembre 1972, Rizzoli Editore. Direttore: Oreste Del Buono. In redazione c’erano anche Lanfranco Vaccari e Rosanna Armani, che avrei conosciuto molti anni più tardi. Questo Playboy l’avevano regalato a papà ad una riunione a Milano in Mondadori. Era arrivato a casa e l’aveva posato sulla mia scrivania: “Guarda che cosa ti porto!”. Gasp. La palymate italiana era l’attrice Agostina Belli, la Rosalia di Mimì Metallurgico. Ma chi andava ad immaginare una tale meraviglia?

Le fanciulle del Golden West

Ho conservato questo Playboy per 45 anni. Mi hanno detto che è una rarità, perché Rizzoli lo considerava un test e ne aveva tirate poche copie. E’ abbastanza ben conservato, l’ho consumato molto. Per nessun prezzo al mondo lo venderei. Beh, non è esatto. Ad Agostina Belli sì”.

Ricomincio da me

Da un paio di settimane, ho ripreso a lavorare per Euronews, il canale satellitare all-news multilingue (anche in italiano), con la sede a Lione. Confesso di essere entrato in punta di piedi nella nuova faraonica e vistosa sede di Euronews (il cosiddetto “Cubo Verde”), un lunedi mattina di metà settembre, esattamente 13 anni e mezzo dopo l’ultima volta che avevo varcato i cancelli di quella che era la vecchia sede, che all’epoca si trovava a Ecully, nella periferia lionese. Potete, quindi, immaginare la mia emozione nel “tornare a casa” dopo così tanto tempo. Ammetto poi di essere stato piacevolmente sorpreso di aver rivisto “vecchi” colleghi della mia prima avventura francese (accoglienza assai calorosa!) e di aver incontrato “nuovi” e giovani colleghi che mi conoscevano…di fama. Non voglio nemmeno sapere quale sia la fama che mi precede!!!
Ad Euronews, canale sobrio, equilibrato e di qualità, sono sempre stato molto legato, anche quando le cose non sono andate bene. A Lione, bellissima città dai due fiumi, ci ho vissuto, due anni molto belli, anche dal punto di vista personale e non solo professionale. Ora – ringraziando, come direbbe un collega, il ministro Poletti che ci costringe ad emigrare – ci riprovo, sperando di guadagnarmi, con lavoro e umiltà, una seconda occasione. Farò di tutto per meritarmela.
E, intanto, seguiteci sul satellite e in streaming dal computer e dal cellulare sul sito www.euronews.com.
Capito?

TUTTO COMINCIO’ COSI’, PER IL COMMISSARIO WALLANDER

Con colpevole ritardo e in confuso ordine cronologico, ammetto di aver letto solo in questi giorni il primo romanzo della serie del commissario Kurt Wallander, rilanciato alla grande anche in Italia dagli omonimi telefilm (interpretati dalla maschera triste) di Krister Henriksson), ambientati in una cittadina della Svezia. Fu, fin dall’inizio, un grande successo per lo scrittore Henning Mankell, che poi avrebbe reso protagonista il commissario Wallander di altre otto inchieste romanzesche. Questo “Assassino senza volto” è un libro senz’altro moderno e attuale, seppur scritto, ambientato e pubblicato, tra il 1989, il 1990 e il 1991. Oltre alla sagace macchina investigativa, Mankell scrive – con oltre 25 anni di anticipo rispetto ai problemi di oggi – addirittura di “invasione di stranieri” in Svezia – soprattutto dall’Europa dell’Est, dopo la caduta del Muro di Berlino – e ne tratteggia le sempre crescenti angosce della popolazione svedese, fino a scoprire che i due assassini sono proprio due profughi cecoslovacchi.
Per certi versi, non eccessivi, un tantino xenofobo, si tratta comunque sia di un romanzo poliziesco molto intenso e che ha riscosso il meritato successo anche in Italia, grazie alla moda, tuttora imperante, del noir scandinavo.
Peccato che Mankell, scomparso due anni fa ad appena 67 anni, non possa più regalarci altri capolavori come questo.