C’ERO ANCH’IO IN PIAZZA SAN CARLO

Adesso che sono passati alcuni giorni, posso dirlo: in piazza San Carlo a Torino c’ero anch’io!
Naturalmente il mio pensiero è dedicato ai 1527 feriti di sabato scorso, il 3 giugno. Eravamo in 30 mila nel “salotto buono” della città, proprio davanti al maxi-schermo, per vivere da vicino la finale di Champions League tra la Juventus e il Real Madrid. Io c’ero, ma non per fare il tifo. Io c’ero, per lavoro. Come giornalista free-lance per un’emittente satellitare francese, EuroNews, interessata alla “storia” della partita e del pubblico. Una storia che peggio di così non poteva finire. Quello che è successo, lo sapete tutti. Lo avete visto tutti. Io sono stato pure fortunato: ero in prima fila, proprio sotto al maxi-schermo, davanti ai primissimi tifosi, arrivati lì già al sabato mattina, in posizione privilegiata, ma pur sempre dietro ad una transenna. Noi giornalisti accreditati presso il comune di Torino, organizzatore dell’evento – poi anche nella zona media hanno fatto entrare cani e porci – eravamo i più vicini alla prima via di fuga, ma mai avremmo pensato che quello spazio tra le due chiese gemelle di piazza San Carlo potesse diventare una via di fuga. Chi ci avrebbe mai pensato? Nemmeno gli organizzatori, nemmeno Questura e Prefettura. Nemmeno quelli che adesso si riempiono la bocca del “senno di poi”. Quello che è successo, lo sapete. La dinamica, il perché, resteranno per sempre un mistero. Io so soltanto che, poco dopo il gol del 3-1 che aveva raffreddato gli entusiasmi del popolo juventino, ho sentito un gigantesco movimento d’onda, ho girato la testa verso la sinistra e ho visto una mandria imbufalita di persone disperate correre verso di me. Ho fatto appena in tempo a percorrere quei venti-trenta metri che mi separavano dal retro del maxi-schermo, ma già in quel breve tragitto ho dovuto evitare persone già finite a terra e ho dovuto reggere l’urto per non finirci io, a terra. Sarebbe stata la fine. Mi sono riparato attaccandomi ai tubi Innocenti del maxi-schermo, ho perso di vista i colleghi, Ezio e Teo, che erano ad un centimetro da me. Ho temuto, per un attimo lungo un’eternità, che fosse un attentato. Lo avranno pensato tutti. Panico. Psicosi di questi tempi di terrorismo. Inevitabile. Ho avuto paura che, ora che ero al riparo dalla onda travolgente, arrivasse un terrorista con il kalashnikov. O con il coltello. Cuore in gola. A terra, feriti sanguinanti. Tutti a chiedersi, a chiederci: “Cosa diavolo è successo?”. Una bomba? Un petardo? Un falso allarme? Un ragazzo a torso nudo con lo zainetto? Ci sono state altre due inspiegabili ondate di tifosi. Ho rivisto Ezio e Teo, sani e salvi, grazie a Dio. Ma in tanti – non ultras, non hooligans, ma semplici tifosi che volevano passare una serata di festa – sono caduti a terra, sull’asfalto della piazza, come birilli, precipitati sui cocci di bottiglie di vetro che là non dovevano starci. Altri, i feriti più gravi, sono stati travolti, calpestati, schiacciati. Ora che sono contento di poterlo raccontare, ora che posso dire “io c’ero, ma non mi sono fatto un graffio”, vorrei dire: mai più maxi-schermi. Non è più tempo di scherzare con il fuoco. Con il panico. Con la paura. Quei 1527 feriti sono una…ferita per tutta Torino, per tutta l’Italia.
Mi dispiace dirlo, con amarezza, ma è cosi: non è vero che il terrorismo non vincerà.
Il terrorismo ha già vinto. Il terrore è già dentro di noi. Nella nostra vita quotidiana.
E prima lo capiremo, e meglio sarà.

CHE SUCCESSO A MODENA!

IL SUGO DI UGO A MODENA – Forse sara’ stato merito del Lambrusco che ci ha messo il frizzantino nelle vene (da adesso in poi, sempre un bel bicchiere di rosso prima di aprire il sipario!!!), ma quella di ieri sera al Teatro Tempio di Modena e’ stata la nostra miglior replica stagionale de IL SUGO DI UGO, la prima commedia gastro-comica d’Italia, firmata dalla compagnia teatrale I Teatroci di Torino, in trasferta in terra emiliana.

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IL CALIFFO? CE L’ABBIAMO IN CASA

Ormai siamo assuefatti, ormai rischiamo di abituarci alla paura del terrorismo, l’abitudine di doverci convivere, da qui all’eternità. O almeno fino a quando i Grandi della Terra non troveranno una soluzione a questa nostra notte di terrore che sembra non finire più. Ieri, sui social network sempre pronti a sputare sentenze, ho letto persino commenti del genere: “Attentato a Londra: niente di che”.

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DERIVE DI ULTRADESTRA E DIGHE ANTI-POPULISTE: L’EUROPA S’INTERROGA

di Cristiano Tassinari

Scrivo questo articolo poche ore dopo l’attentato sventato all’aeroporto di Parigi-Orly: un musulmano radicalizzato (ma quanti radicalizzati ci sono in Francia?) ha saltato un posto di blocco, ha assalito una pattuglia di poliziotti, ha disarmato una agente, era pronto a fare una strage al McDonald’s ed è stato freddato da altri poliziotti francesi.

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IL CNEL: “MIRACOLATO” DAL REFERENDUM

Alzi la mano, sincero sincero, chi sa che cos’è il Cnel. Siete in pochi, vero? Gli altri non si debbono angustiare: il Cnel è un oggetto misterioso anche per noi. E proprio per questo, spinti da sana curiosità giornalistica e dalla pubblicità che al Cnel è toccata in sorte durante la campagna referendaria dello scorso 4 dicembre 2016 che ne chiedeva l’abolizione, vogliamo decisamente saperne di più e fare luce su uno dei tanti enti inutili della nostra amministrazione.
La spiegazione dell’acronimo Cnel già aiuta a capire meglio quali sono (quali sarebbero state, per meglio dire) le sue funzioni: Cnel significa Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Per occuparsi, come dice il nome, di economia e lavoro, si è formata una specie di vero e proprio Parlamento parallelo, composto da esponenti di sigle sindacali, associazioni industriali e imprenditoriali (anche Confindustria) e rappresentanti del cosiddetto “stato sociale” (il Terzo Settore, le associazioni di volontariato…).
La storia e la presenza del Cnel, tuttavia, non è campata in aria: affonda le sue radici nella Costituzione della Repubblica Italiana, istituito proprio dall’articolo 99 della nostra Costituzione, con il compito di fornire consulenza al governo e al Parlamento, il tutto ribadito da una legge ordinaria del 1986, con la facoltà di proporre anche disegni di legge, su questioni economiche e sociali. L’intenzione dei “padri fondatori”, quindi, era più che legittima e trasparente. Ma è stato con gli anni che si è capito, gonfiandosi peraltro a dismisura, che il Cnel serviva (serve, visto che esiste tuttora, dopo il NO al referendum che ne chiedeva l’abolizione) veramente a poco. Eppure, la struttura è sempre stata piuttosto imponente: fino al 2011, il Consiglio era composto da 121 consiglieri, poi – in seguito ad una necessaria cura dimagrante – dimezzati a 64, e ora a 24, dopo le dimissioni di 40 consiglieri, mai rimpiazzati. Se non altro, dal 2015, i consiglieri non prendono più nemmeno l’indennità (era più di 2 mila euro al mese) né tanto meno i rimborsi spese, e dev’essere stato per questo che i 40 consiglieri di cui sopra si sono dimessi, in un paese come l’Italia dove non si dimette mai nessuno. Ai tempi d’oro, il Cnel ci costava 22 milioni di euro. Adesso, se non altro, un pochino meno: 8,7 milioni di euro, per 50 dipendenti ed una elegante sede nella palazzina di Villa Borghese, a Roma.
Ma in questi 70 anni di vita, cosa ha combinato il Cnel? Ben poco, numeri alla mano: 96 pareri, 350 osservazioni (di cosa? delle stelle?) e proposte, 270 rapporti e studi, 90 relazioni, 130 convegni (nemmeno due all’anno!) e 14 disegni di legge (uno ogni cinque anni! Nessuna di queste proposte di legge, peraltro, è stata mai recepita dal Parlamento). Non un lavoro da stakanovisti, sembra. Con due riunioni al mese per ogni commissione (ce n’erano quattro) e una seduta plenaria di tutti i consiglieri, una volta al mese. Non si sono mai ammazzati di lavoro! Ma a difendere strenuamente il Cnel – oltre agli elettori che al referendum hanno votato NO (non certo all’abolizione del Cnel, ma alla fine conta il risultato finale) – è soprattutto il suo presidente, Delio Napoleone: non nasconde l’ormai evidente anacronismo di un Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (soprattutto con l’economia in crisi e senza lavoro), ma prova a fornire una spiegazione storica dell’attuale fallimento dell’ente che dirige: “Il Cnel  è stato voluto dal Parlamento come risposta a un modello sociale in vigore all’epoca. Solo che mostra tutti i segni del tempo, perché 70 anni fa il mercato del lavoro era per il 50% nel settore primario e secondario, industria e agricoltura. Negli ultimi anni, industria e agricoltura contano solo per il 20%, mentre l’80% del mercato del lavoro è costituito dal settore terziario, che non trova rappresentanza nel nostro parlamentino. Quindi, adesso che abbiamo scampato il pericolo dell’abolizione, ben venga una necessaria rivisitazione del Cnel e delle sue attività”.
Come, quando, perchè e in che modo non è ancora dato sapere. Forse servirà un nuovo referendum, stavolta propositivo, per capire cosa farne di questo ente inutile. Anzi, peggio: il Cnel sarebbe pure utile, ma senza riuscire a fargli svolgere i suoi reali compiti, diventa davvero il più inutile delle istituzioni pubbliche.
Da abolire. AnCNELche senza referendum.